Arcadia (Sannazaro)/Egloga XI

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Egloga XI

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Prosa XI Prosa XII
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EGLOGA UNDECIMA.

ergasto solo.


Poi che ’l soave stile, e ’l dolce canto
Sperar non lice più per questo bosco,
Ricominciate, o muse, il vostro pianto.
Piangi, colle sacrato, opaco e fosco;
E voi, cave spelunche e grotte oscure,
Ululando venite a pianger nosco.
Piangete, faggi, e quercie alpestri e dure:
E piangendo narrate a questi sassi
Le nostre lacrimose aspre venture.
Lacrimale voi, fiumi ignudi e cassi
D’ogni dolcezza; e voi, fontane e rivi,
Fermate il corso, e ritenete i passi.
E tu, che fra le selve occulta vivi,
Eco mesta, rispondi alle parole;
E quant’io parlo per li tronchi scrivi.
Piangete, valli abbandonate e sole;
E tu, terra, dipingi nel tuo manto
I gigli oscuri, e nere le viole.
La dotta Egeria, e la tebana Manto
Con subito furor morte n’ha tolta.
Ricominciate, muse, il vostro pianto.
E se tu, riva, udisti alcuna volta
Umani affetti, or prego ch’accompagni
La dolente sampogna a pianger volta.
O erbe, o fior, ch’un tempo eccelsi e magni
Re foste al mondo, ed or per aspra sorte
Giacete per li fiumi, e per li stagni;
Venite tutti meco a pregar morte,
Che, se esser può, finisca le mie doglie,
E le rincresca il mio gridar sì forte.

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Piangi, Jacinto, le tue belle spoglie,
E raddoppiando le querele antiche,
Descrivi i miei dolori in le tue foglie.
E voi, liti beati, e piagge apriche,
Ricordate a Narcisso il suo dolore,
Se già mai foste di miei preghi amiche.
Non verdeggi per campi erba nè fiore;
Nè si scerna più in rosa o in amaranto
Quel bel vivo leggiadro almo colore.
Lasso, chi può sperar più gloria o vanto?
Morta è la fe, morto è ’l giudicio fido.
Ricominciate, muse, il vostro pianto.
E mentre sospirando indarno io grido,
Voi, uccelletti innamorati e gai,
Uscite, prego, dall’amato nido.
O Filomena, che gli antichi guai
Rinnovi ogni anno, e con soavi accenti
Da selve e da spelunche udir ti fai;
E se tu, Progne, è ver, ch’or li lamenti,
Nè con la forma ti fur tolti i sensi,
Ma del tuo fallo ancor ti lagni e penti;
Lasciate, prego, i vostri gridi intensi,
E fin ch’io nel mio dir diventi roco,
Nessuna del suo mal ragioni o pensi.
Ahi, ahi, seccan le spine; e poi ch’un poco
Son state a ricovrar l’antica forza,
Ciascuna torna, e nasce al proprio loco:
Ma noi, poi che una volta il ciel ne sforza,
Vento nè sol nè pioggia o primavera
Basta a tornarne in la terrena scorza.
E ’l sol fuggendo ancor da mane a sera,
Ne mena i giorni e ’l viver uoslro insieme;
Ed ei ritorna pur come prim’era.

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Felice Orfeo, ch’innanzi l’ore estreme,
Per ricovrar colei che pianse tanto,
Sicuro andò dove più andar si teme.
Vinse Megera, vinse Radamanto;
A pietà mosse il re del crudo regno.
Ricominciate, muse, il vostro pianto.
Or perchè, lasso, al suon del curvo legno
Temprar non lice a me sì meste note,
Ch’impetri grazia del mio caro pegno?
E se le rime mie non son sì note,
Come quelle d’Orfeo, pur la pietade
Dovrebbe farle in ciel dolci e devote.
Ma se schernendo nostra umanitade,
Schifasse ella il venir; sarei ben lieto
Di trovar all’uscir chiuse le strade.
O desir vano, o mio stato inquieto!
E so pur che con erba o con incauto
Mutar non posso l’immortal decreto.
Ben può quel nitido uscio d’elefanto
Mandarmi in sogno il volto e la favella.
Ricominciate, muse, il vostro pianto.
Ma ristorar non può nè darmi quella
Che cieco mi lasciò senza il suo lume,
Nè torre al ciel sì pellegrina stella.
Ma tu, ben nato avventuroso fiume,
Convoca le tue ninfe al sacro fondo,
E rinnova il tuo antico almo costume.
Tu la bella Sirena in tutto il mondo
Facesti nota con sì altera tomba:
Quel fu ’l primo dolor, quest’è ’l secondo.
Fa che costei ritrove un’altra tromba
Che di lei caute; acciocchè s’oda sempre
Il nome che da se stesso rimbomba.
E, se per pioggia mai non si distempre
Il tuo bel corso; aita in qualche parte
Il rozzo stil, sicchè pietade il tempre.

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Non che sia degno da notarsi in carte;
Ma che sol resti qui tra questi faggi,
Così colmo d’amor, privo d’ogni arte.
Acciocchè in questi tronchi aspri e selvaggi
Leggan gli altri pastor che qui verranno,
I bei costumi e gli atti onesti e saggi.
E poi crescendo ognor più d’anno in anno,
Memoria sia di lei fra selve e monti,
Mentre erbe in terra, e stelle in ciel saranno.
Fiere uccelli spelunche alberi e fonti,
Uomini e Dei quel nome eccelso e santo
Esalteran con versi alteri e conti.
E perchè al fine alzar convienimi alquanto,
Lasciando il pastoral ruvido stile;
Ricominciate, muse, il vostro pianto.
Non fa per me più suono oscuro e vile,
Ma chiaro e bello, che dal ciel l’intenda
Quell’altera ben nata alma gentile.
Ella coi raggi suoi fin qui si stenda:
Ella aita mi porga; e mentre io parlo,
Spesso a vedermi per pietà discenda.
E se ’l suo stato è tal, che a dimostrarlo
La lingua manche; a se stessa mi scuse,
E m’insegne la via d’in carte ornarlo.
Ma tempo ancor verrà che l’alme muse
Saranno in pregio; e queste nebbie ed ombre
Dagli occhi de’ mortai fien tutte escluse.
Allor pur converrà ch’ognuno sgombre
Da se questi pensier terreni e loschi,
E di salde speranze il cor s’ingombre.
Ove so che parranno incolti e foschi
I versi miei; ma spero che lodati
Saran pur da’ pastori in questi boschi.
E molti che oggi qui non son pregiati,
Vedranno allor di fior vermigli e gialli
Descritti i nomi lor per mezzo i prati.

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E le fontane e i fiumi per le valli
Mormorando diran quel ch’ora io canto,
Con rilucenti e liquidi cristalli.
E gli alberi ch’or qui consacro e pianto,
Risponderanno al vento sibilando:
Ponete fine, o muse, al vostro pianto.
Fortunati i pastor che desiando
Di venir in tal grado, han poste l’ale;
Benchè nostro non sia sapere il quando.
Ma tu, più ch’altra, bella ed immortale
Anima, che dal ciel forse m’ascolti,
E mi dimostri al tuo bel coro eguale;
Impetra a questi lauri ombrosi e folti
Grazia, che con lor sempre verdi fronde
Possan qui ricoprirne ambo sepolti.
Ed al soave suon di lucide onde
Il cantar degli uccelli ancor si aggiunga;
Acciocchè il luogo d’ogni grazia abbonde.
Ove, se ’l viver mio pur si prolunga
Tanto, che, com’io bramo, ornar ti possa,
E da tal voglia il ciel non mi disgiunga;
Spero che sovra te non avrà possa
Quel duro eterno ineccitabil sonno
D’averti chiusa in così poca fossa;
Se tanto i versi miei prometter ponno.


ANNOTAZIONI

all’Egloga Undecima.


Poi che ’l soave stile ec. Nella prima Annotazione all’Egloga Quinta ho promesso di far vedere come il Sanazzaro nelle sue Egloghe giudiziosamente tralasci per qualche particolar ragione di usare il verso sdrucciolo, il quale d’altronde è assaissimo adatto alle poesie pastorali. Poteva io satisfare a tale promessa molto prima d’ora; ma ho fin qui [p. 181 modifica]aspettato per offrire in un solo tratto le riflessioni su tutti i luoghi, ove cadono in acconcio. Talvolta il Sanazzaro frammischia gli sdruccioli co’ piani, come si può osservare nelle Egloghe i. ii. ix. e x.; ed io credo che ciò abbia egli fatto più per vaghezza di varietà che per alcun’altra cagione. Ma nell’Egl. iii., dove Galizio canta il giorno natale di Amaranta, della quale egli è fortemente innamorato, nella iv., dove Logisto, ed Elpino gareggiano cantando, nella v., dove Ergasto piange la morte di Androgéo, nella vii., dove Sincero non sa trovar quieta per l’amore che lo martira, finalmente in questa xi, dove Ergasto esprime il suo dolore per la morte di Massilia sua madre; non v’ha dubbio, ch’egli usa i soli piani per meglio e più fortemente esprimere le varie passioni, da cui sono commossi i pastori, ch’egli introduce a cantare.

Ricominciate, o muse, ec. Molto adatta è la replica che in quest’Egloga si fa di questo verso. Come negli Epitalami, ne’ Trionfi, ne’ Brindisi non rade volte si usa di questa maniera per vie meglio esprimere ed eccitare l’allegrezza, e la festa, così qui è usata da Ergasto per commuovere ognor più a pietà chi l’ascoltava per la morte della virtuosa e benevola Massilia.

La dotta Egeria ec. Ergasto paragona Massilia ad Egeria, ed a Manto. Egeria fu una Ninfa, con la quale, dicono, che Numa Pompilio di notte ragionando imparava da essa le leggi divine, con cui frenava la ferocità del Popolo Romano. Manto fu figliuola di Tiresia Tebano, e fu indovina. Costei, essendo Tebe ridotta in servitù, dopo molto aggirar per varj paesi, venne in Italia, dove di Tiberino, Dio del Tevere, partorì Ocno, ch’edificò Mantova, così chiamando questa città dal nome della madre.

O erbe, o fior ch’un tempo ec. Vedi l’Annotazione alla Prosa Decima: Adone, Jacinto, Ajace ec. pag. 146.

Felice Orfeo ec. Euridice essendo amata ardentemente da Aristeo, un giorno ch’egli si mise a seguirla, da lui fuggendo quanto più potè velocemente, fu punta in un piè da un aspide velenoso, che nell’erba era nascosto, di maniera che ne restò morta Orfeo, che similmente l’amava con gran fervore, confidato nella dolcezza di sua lira, ch’egli con gran melodia sonava, scese all’inferno per riaverla: dove placati gli Dei infernali, la riebbe, con patto, ch’ei non dovesse voltarsi a guardarla, finchè non fosse fuora. Ma non osservando il pasto, gli fu ritolta, e più non potè riaverla. Il Porcacchi. — Megera, una delle Furie infernali, figlie di Acheronte e della Notte. Radamanto. figliuolo di Giove e di Europa, fratello di Minosse, legislatore di Creta, o Candia. Narrasi, ch’egli regnò nella Licia. Fu giustissimo, e in [p. 182 modifica]conseguenza fingesi dai Poeti, ch’egli sia giudice de’ trapassati. Il Re del crudo regno è Plutone Dio dell’inferno.

Tu la bella Sirena ec. Ciò allude alla Sirena Partenope, che si dice essere stata sepolta, dove è Napoli. Vedi il principio della Prosa Settima, e l’Annotazione corrispondente, pag. 78.

Vedranno allor di fior vermigli e gialli ec. Ciò allude all’usanza di seminare erbette e fiori in guisa che poi verdicando, e fiorendo rappresentino sul terreno le lettere de’ notai di quelli, che così si vogliono onorati.