Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871)/Rassegna bibliografica/Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d'Angiò

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Cesare Paoli

Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d'Angiò
Collezione di leggi, statuti e privilegi, mandati, lettere regie e pontificie ec. ../Cronache della città di Fermo ../Le Vite dei Dodici Cesari di Svetonio IncludiIntestazione 19 dicembre 2017 75% Da definire

Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d'Angiò
Collezione di leggi, statuti e privilegi, mandati, lettere regie e pontificie ec.
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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA




Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d' Angiò, ossia Collezione di leggi, statuti e privilegi, mandati, lettere regie e pontificie ec., ed altri documenti, la maggior parte inediti, concernenti la storia ed il diritto politico, civile, finanziere, giudiziario ed ecclesiastico delle provincie meridionali d’Italia, dal 1205 al 1309. Volume primo; e Volume secondo, parte prima. Napoli, Stamperia dell’Università, 1863 e 1869. In 4to.


«Il secolo nostro aspira sempre alla realtà e si allontana dai concetti poetici e fantastici. Quali siano le consequenze di cosiffatta tendenza sulle lettere e sulle arti belle, e quali sul progresso delle odierne società, lascio ai filosofi di considerare: dico solo che il metodo istorico se n’è avvantaggiato, perchè la vera storia consiste in quello che è realmente stato, non in quello che la fantasia degli scrittori ha voluto che fosse». Con tali parole (che si leggono nella prefazione del secondo volume, a pag. ix) il signor Del Giudice dichiara la ragione e il fine del suo lavoro, e difende in pari tempo l’utilità, da molti non degnamente pregiata, di simili pubblicazioni. E difatti, se la storia per prima cosa ha da essere vera, vuole raccomandarsi ai monumenti e alle memorie autentiche de’ tempi ai quali essa si riferisce; e solamente colla scorta di tali aiuti, potrà raddrizzare le [p. 261 modifica]fallaci tradizioni, e squarciare il velo di molti fatti ignorati o per timore o per malizia taciuti. Come a questi intendimenti risponda il codice diplomatico angioino, edito dal signor Del Giudice fanno fede i due primi volumi, che abbiamo oggi ad esaminare, nei quali s’illustra, con documenti editi ed inediti, la storia della fondazione della monarchia angioina nel reame delle due Sicilie, dal tempo della discesa di Carlo conte di Provenza in Italia fin poco dopo il supplizio di Corradino.

Il primo volume contiene centoventi documenti, dal 5 gennaio 1265 al 15 aprile 1267; e il secondo, novantacinque documenti, dal marzo 1267 al 27 dicembre 1268; disposti per ordine cronologico, e ampiamente illustrati con molti altri che l’editore riferisce nelle annotazioni a pie di pagina, e nelle appendici in fine di ciascun volume1. E qui occorre un’osservazione. Il maggior pregio delle grandi raccolte diplomatiche deriva loro dal numero e dalla qualità dei documenti che vi si contengono, e dalla correttezza del testo, meglio che da qualunque commento illustrativo; ma, quando sembri opportuno di aggiungervi note e dichiarazioni, vogliono esser fatte (o ch’io m’inganno) in modi) sobrio, e col solo intendimento di chiarire i luoghi oscuri o dubbi, e di fornire al lettore riscontri e indicazioni atti a rendergli più facile e più profittevole lo studio dei documenti: debbono insomma non dipartirsi dal campo della critica diplomatica. Cosi è da riputarsi grandemente proficuo, e meno d’ogni altro fallace, il metodo del signor Del Giudice d’illustrare i documenti con altri documenti; ma mi permetta il dotto editore di non credere egualmente opportuno il divagare ch’egli fa talora oltre questi limiti, allargandosi in dissertazioni e in giudizi sopra gli [p. 262 modifica]uomini e le cose, a cui i documenti si riferiscono. Certo il signor Del Giudice, per il lungo e profondo studio degli archivi e per la sapiente cura colla quale ha messo insieme questo codice diplomatico, ha diritto e possibilità più d’un altro di esporre pareri e giudizi; ma a lui, così scrupoloso da non permettersi di raddrizzare menomamente nella stampa la barbara ortografia degli originali, forse per timore di alterarli, mi sia lecito di dire che anche un’annotazione, se sia tale da preoccupare la mente del lettore, può fargli apparire sotto un aspetto diverso il significato d’un documento; e che, se al lettore stesso si lascia il carico di mettere le virgole e i punti ai loro posti, si può anche concedergli la facoltà di giudicare i documenti a modo suo.

Dissi sopra che il signor Del Giudice ha dato luogo anche a documenti precedentemente editi, e fu opportuno espediente, affinchè il codice diplomatico non rimanesse monco, e i latti storici fossero pienamente illustrati. Ma la parte che richiama in particolar modo la nostra attenzione, e che dà un valore grande a quest’opera, sono i documenti inediti che il signor Del Giudice ha tratti fuori da depositi affatto inesplorati o per lo meno assai malamente noti. I documenti inediti (salvo alcuni pochi tratti dagli archivi di Montecassino, Cava, Montevergine e Benevento) appartengono al Grande Archivio di Napoli, e specialmente alla serie dei registri, pergamene e fascicoli angioini, ond’era costituito l’antico archivio di Regia Zecca: del quale è utile riassumere in brevi termini la storia che ne fa il signor Del Giudice nella prefazione al primo volume. L’archivio della regia cancelleria, detto poi di Regia Zecca, sotto Carlo I era viatorio, e seguitava il re dovunque a lui piacesse d’intimare la curia generale. Sotto Carlo II ne fu stabilita la residenza in Napoli, nelle case del cardinale Luca Fieschi, dove avevano pure sede la corte dei conti e la zecca regia; e a questi unici rimase poi sempre unito, pur trasferendosi in altri luoghi della città. Costituivasi quest’archivio di arche, di fascicoli e di registri. Le arche o casse (distinte per lettere da A a K) racchiudevano pergamene sciolte, suddistinte per mazzi e per numeri: la maggior parte di queste sono oggi disperse; e le restanti, legate e ordinate in volumi, secondo la scorta delle [p. 263 modifica]vecchie indicazioni. I fascicoli sono in carta bambagina, e contengono materie amministrative e giudiziarie: erano primitivamente cento, più uno segnato di : oggi «a noi non è pervenuto che un ammasso di lacere e confuse carte, che ora alla perfine si stanno alla meglio riordinando» (pagina xviii). I registri sono in pergamena, e contengono leggi, statuti, mandati, lettere, capitolazioni ec. dei re angioini; presentemente, l’intera serie si compone di 378 volumi, sebbene si abbia notizia che fino al secolo passato sommassero a maggior numero. Il signor Del Giudice, limitandosi a parlare dei registri di Carlo I, ci dà notizia che nel Grande Archivio di Napoli se ne conservano attualmente quarantanove, «de’ cinquantacinque citati dagli antichi autori; legati tutti in vitello rosso, come i registri degli altri sovrani angioini, segnati per ogni pagina, spesso con numerazione arabica, alcuna volta con numeri romani, e qualche volta eziandio con l’una e l’altra numerazione. Sul dosso di ciascun volume leggesi il nome del sovrano Karolus I, l’anno in cui credevasi scritto il registro, come a cagion d’esempio 1268, ed appresso una lettera d’alfabeto, come A, B ec; infine si legge pure un numero d’ordine, il quale peraltro non è stato aggiunto che da pochi anni» (pag. xxiii-xxiv). Da chi e quando sia stata fatta la legatura, e scritto sul dosso di ciascun registro, s’ignora: «ma certamente da chi non intendeva in alcun modo nè di storia nè di diplomatica» (pag. xxiv); perchè non v’è serbato alcun ordine, e le date scritte sul dosso dei registri non corrispondono a quelle vere dei documenti che vi si contengono2. Così il signor Del Giudice v’ha scoperto documenti [p. 264 modifica]dal 1265 al 1267, sebbene il più antico di quei registri porti la data de] 1268.

Da queste poche notizie può argomentarsi con quanto laborioso studio dovettero essere raccolti i documenti inediti di questo codice diplomatico; e una recensione dei medesimi, almeno dei principali (perocchè non intendo di dipartirmi in questo mio scritto dai limiti di una semplice recensione di documenti), potrà mostrare come bene fossero postele fatiche del signor Del Giudice, e quanto egli abbia giovato colla presente pubblicazione alla storia nazionale3.


La fondazione della monarchia angioina nel reame delle due Sicilie segna il principio d’un periodo nuovo nella storia dell’Italia e della chiesa. Imperocchè la lotta contro le invasioni germaniche, sostenuta fin allora dai papi con virile indipendenza, e non senza vantaggio dell’autonomia italiana e delle libertà municipali, aveva perduto a poco a poco ogni carattere religioso; e oramai, più che per la libertà della chiesa, combattevano i papi per la loro supremazia sopra i popoli ed i re, e per istabilire saldamente e allargare in Italia il loro dominio temporale. Era questa l’ultima conseguenza della cerimonia dell’incoronazione di Carlomagno, dalla quale (come bene nota il Tabarrini) «si derivò un’intera dottrina di vassallaggio» a favore della chiesa4; era l’ultima pietra del grande edifizio, di cui aveva poste le basi con tanto ardire papa Gregorio VII. Con tali intendimenti fu mossa e muta la guerra contro gli Svevi, ch’ebbe per argomento le ragioni di signoria, che si dicevano spettare alla chiesa nel reame delle due Sicilie, per le donazioni fattele dai re normanni; alle quali opponevasi la dottrina del primo Federigo, che quelle donazioni aveva dichiarate illegittime e di niun valore, e riputando la Sicilia feudo imperiale, [p. 265 modifica]attribuivala, in piena e assoluta sovranità, a sè, come imperatore, e alla sua discendenza, per diritto ereditario. E fu guerra a oltranza, senza requie e senza pietà; della quale credo superfluo riandare le origini e le vicende, per non riferire cose; assai note, e per non dipartirmi dai limiti che ho determinati a questa rassegna. Basti dire che la chiesa, dopo avere, sotto Innocenzo III, separata la Sicilia da ogni legame coll’impero; e tentato vanamente, sotto Innocenzo IV, di ridurla alle sue mani in diretto dominio; s’avvisò, per il meglio, di porvi un re vassallo, affatto indipendente dalla corona imperiale e devoto alla sede apostolica: e poichè non isperava di ridurre all’ubbidienza l’altera razza degli Svevi, cercò altrove un campione, e fu Carlo d’Angiò; al quale, stabiliti prima accuratamente i patti dell’accordo, venne concessa dal pontefice l’investitura del Regno (28 giugno 1265), riservandosi e mantenendosi largamente i diritti della chiesa. Tale fu l’opera che Urbano IV iniziò, e Clemente IV proseguì con ardore e condusse a termine, in mezzo a grandissime difficoltà, dal giorno in cui l’avventuriero francese mosse dalla Provenza, accingendosi con ispensierata arditezza, scarso di moneta e di forze, all’ardua impresa di conquistare un regno e distruggere una dinastia.

Da questo tempo cominciano i documenti del codice diplomatico che abbiamo ad esaminare; e fin da principio, tra molti già pubblicati in altre raccolte, ne troviamo alcuni inediti non senza importanza, Il più antico degl’inediti è un privilegio di re Carlo alla città di Benevento, del dì 8 di luglio 1265 (I, 5), del quale occorrerà di riparlare a proposito delle stragi avvenute in quella città dopo la battaglia del 26 febbraio 12665. Viene poi una lettera patente del medesimo re ai suoi vicari e capitani nel giustizierato degli Abruzzi, data da Roma il 15 di luglio (I, 7); nella quale concede facoltà ai detti suoi ufficiali di ricevere il giuramento di fedeltà da tutti e singoli gli uomini di quel giustizierato, e di procedere con mero e misto impero contro i ribelli: notevole documento, che dimostra come re Carlo esercitasse [p. 266 modifica]atti di sovranità e inviasse suoi ufficiali nel Regno, anche prima di occuparlo per forza d’armi; riputandosene già legittimo signore pel solo fatto dell’investitura ricevuta dal pontefice6.

Ma l’ardita impresa dell’Angioino, cominciata con tanto fausti auspicii, poco mancò che non pericolasse per difetto di denaro. Imperocchè Carlo, venuto in Italia in grandissima strettezza, non isperava guadagno che dalla conquista; e d’altra parte non poteva in questa avventurarsi con prospero successo, mentre non avesse da sopperire alle grandi spese della guerra e ai molti bisogni del suo esercito. A ciò non bastavano certo le scarse rendite feudali della Provenza o i denari ricavati dall’oppignorazione dei gioielli dell’ambiziosa sua moglie; nè intanto era da sperare alcun sussidio dal re di Francia (Luigi IX, fratello di Carlo), poco favorevole all’impresa, nè alcun mutuo dai mercanti e prestatori italiani e francesi; i quali, conoscendo Carlo d’Angiò mal sicuro pagatore7, non si lasciavano più piegare «da carezze nè da minacce» (I, 32*). Infine, il solo provento, sul quale l’angioino potesse contare con qualche profitto, era la decima sui redditi ecclesiastici di Francia, concessagli da Clemente IV; e neppur questa sarebbe forse bastata, se papa Clemente, che nel suo breve pontificato non ebbe mai altra cosa che più gli stesse a cuore di quest’opera di vendetta e di conquista, non avesse fatto ogni supremo sforzo, ogni più grave sacrifizio, per condurla a buon fine. Difatti, pur lagnandosi aspramente della contrarietà di re Luigi, che richiesto tre volte non aveva voluto concedere verun mutuo, e delle ingenti spese di Carlo, che impoverivano la chiesa (I, 10*, 26*); il papa lo soccorse fin che potè, e giunse perfino a impegnare i vasi d’oro e d’argento, le pietre preziose e tutto il tesoro pontificio (I, 32"); e a contrarre mutui, in nome proprio, a favore del re. Intorno a che è un documento del 1 ottobre 1265, [p. 267 modifica]ora per la prima volta pubblicato (I, 20), dove Carlo riconosce questi debiti della chiesa essere fatti a benefizio suo, comecché nella lettera apostolica non se ne faccia menzione: e promette di liberare da ogni obbligazione i beni delle chiese e dei monasteri che furono a ciò impegnati; e di questa promessa offre in cauzione ogni suo provento e possedimento, non che la decima che gli spetta sui redditi ecclesiastici di Francia. Così provvedevasi giorno per giorno alle necessità dall’erario, e fra mezzo a pericoli e ad angustie d’ogni maniera tiravasi innanzi l’impresa.

Manfredi intanto apparecchiavasi alla resistenza, presentendo forse la sua fine, ma desideroso di salvare l’onore delle armi, e di morire da prode cavaliere e da re. Un documento del marzo 1207, ora primamente edito, (II, 1) ci dà conto delle spese fatte dalla camera di re Manfredi, per la difesa del Regno contro l’invasione dei Francesi. Vi si fa ricordo dell’acquisto di panni e di pelli per vestimento dei soldati; di 14,508 saette per gli archi; di cappelli di ferro, ed elmi con visiere; di 1081 nervi di bovi e di vacche, mandati ai Saracini di Lucerà; d’armi e munizioni mandate al conte di Caserta a San Germano (e di questo se ne riparlerà più sotto); finalmente, di 9038 sacca di grano, 10,288 barili di vino, 246 some d’orzo, e biscotto e altre munizioni, per approvvigionamento di castelli e luoghi fortificati. In pari tempo, Manfredi tenevasi in comunicazione colla parte ghibellina di Toscana, e al conte Guido Novello, suo vicario generale in questa provincia, scriveva di muovere con ogni suo sforzo verso Roma, dove il conte di Provenza, velili avis in cavea, è rinchiuso, e di darne avviso a lui, Manfredi; che egli dal canto suo vi anderà a grandi giornate, per averne piena vittoria8. Il quale progetto, se fosse riuscito, avrebbe alcun poco ritardato la rovina delle armi di Manfredi; ma la rovina, prima o poi, era inevitabile: che la chiesa facevagli una guerra incessante, e, a quei tempi, efficace più d’ogni altra; la guerra delle scomuniche e delle crociate. Clemente IV, con lettera dell’11 di luglio 1205 (I, 6*), aveva [p. 268 modifica]dichiarato a Carlo d’Angiò, che, per quanto le cose di Terrasanta i in grande pericolo, non avrebbe fatto in favore di quelle alcuna cosa che tornasse in detrimento dell’impresa di Sicilia; e tenne la promessa. Nel settembre poi dello stesso anno rinnovò contro Manfredi la crociata già banditagli conio da Urbano IV; e, accusandolo nato di stirpe velenosa, persecutore della chiesa, della fede e del diritto ecclesiastico, profanatore di cose sacre, oppressore di popoli, e perturbatore d’Italia, prese nella sua protezione Carlo d’Angiò, come della chiesa e dell’Italia benemerito; e a tutti i crocesignati concesse indulgenze e assoluzioni larghissime, e benefizi temporali (I, 15*, 10*). Un’altra cagione della rovina di Manfredi sta nell’origine sua e nella qualità delle sue armi. Il figliuolo di Federigo II poteva, per molti rispetti, chiamarsi degnamente re italiano; assai più, in ogni modo, dell’emulo suo, il quale veniva in Italia, trattovi da cupidigia di regno e di moneta, e da zelo per la grandezza della chiesa, non già dall’amore de’ popoli oppressi. Ma la signoria di Manfredi reggevasi, sventuratamente, sopra orde di Tedeschi e di Saracini; e siffatte barbare armi non erano tali da promettere all’Italia, se pur lo cercava, un liberatore. Poi, la fede dei baroni del Regno era mal sicura; imperocchè costoro mal sopportarono in ogni tempo la supremazia d’un re; e per amore ai privilegi feudali accostaronsi a quella parte guelfa, che in più felici parti d’Italia era segnacolo di libertà popolare. Quanto alle città, gli Svevi avevanle talora carezzate riconoscere le loro franchigie; ma altre gliene avevano promesse i papi; e incitavale il ricordo dei vecchi ordini municipali, l’esempio della Sicilia vissuta dal 1251 al 50 a repubblica sotto la protezione della chiesa, e il desiderio delle maggiori libertà, di cui godevano le città guelfe di Toscana e di Lombardia9. V’era poi in tutti, angariati dai i balzelli posti da predecessori di re Manfredi e da lui stesso, desiderio di mutare governo, nella speranza di meglio.

In tali condizioni cominciarono le battaglie. L’esercito di re Carlo, superato facilmente il passo di Ceprano, per tradimento o imperizia di chi l’aveva a guardare, pose oste alla terra [p. 269 modifica]di San Germano, dove le genti di Manfredi (secondo che narra un antico ricordo, ora per la prima volta pubblicato dal signor Del Giudice: 1, 39) erano in grande quantità, e gagliardamente vi s’afforzarono: ma virìliter pugnaverunt gentes regìe contro, ipsos et devicerunt eos, et fuerunt intercedi plusqvam mille inter sarracenos et malos christianos; di modo che la terra s’arrese10; e quegli uomini, confitentes se male fecisse, si sottoposero a re Carlo, consegnandogliene le chiavi, col consentimento dell’abate di Montecassino, che aveva su quella terra alcun diritto di protezione. Dopo non molti giorni (26 febbraio 1266) avvenne la grande battaglia di Benevento, intorno alla quale il signor Del Giudice ripubblica importanti documenti, già stampati nelle raccolte di Martêne e Durand, Lünig, Tutini e altri. Il giorno stesso della battaglia re Carlo ne diede conto al papa (I, 40*); dichiarandosene grato alla provvidenza divina, e promettendo che dopo una così grande vittoria estirperà dal Regno gli scandali, e lo ridurrà «all’antica e consueta devozione» della chiesa romana. Non dissimula bensì la difficoltà della vittoria e la valorosa resistenza opposta dai nemici; e dice essere stata così grande la strage, quod celant campum oculis superiacentia corpora mortuorum. Molti de’ fuggitivi caddero sotto le spade dei vincitori; e il numero dei prigionieri fu grandissimo, tra i quali il conte Giordano, Bartolommeo Semplice, e Pierasino degli Uberti di Firenze, «perfidissimo ghibellino». Di Manfredi ignora il re la fine, se sia fuggito o morto; di Manfredi, al quale, secondo le cronache11, pochi giorni innanzi egli aveva promesso di mandarlo all’inferno. Ma la trepidazione sua per la temuta fuga dello Svevo durò poco; e il primo di marzo (1, 41*) potè annunziare al papa, con vera letizia, che il cadavere dello sventurato re era stato ritrovato e riconosciuto dai fedeli suoi, ora fatti prigionieri. Ego itaque (aggiunge) naturali pietate inductus, corpus ipsum, cum quadam honorifìcentia sepolture, non tamen ecclesiastice, tradi feci. Se il papa fosse [p. 270 modifica]lieto delle vittorie di Carlo, e dell’eccidio di Manfredi e dei suoi seguaci, qui vitam malam morte pessima terminarunt, lo rivela la lettera da lui scritta l’8 di marzo 1266 all’arcivescovo di Narbona (I, 42*). Non dice già di volersi rallegrare «della strage di tanti uomini e dello spargimento di sangue», ma si «della prostrata superbia dei malvagi e dell’esaltazione dei buoni». Ex hoc enim spoliate restituuntur ecclesie, reducuntur exules innocentes, cadit perfidia, surgit fides, refloret Tuscia, tota demum Italia reviviscit, levatur Achaia, Terra Sancta respirat. Esorta in fine tutti i vescovi a renderne grazie al «Dio vivo», e spera che saranno lieti di vedere bene speso il sussidio da loro dato all’impresa di Sicilia, né avranno più difficoltà di pagarlo in avvenire.

Ma la gioia del papa dovette presto convertirsi in dolore, tosto che seppe le nefande stragi che aveva dovuto subire dai vincitori l’indifesa città di Benevento. Esse sono con vivi colori descritte in una sua lunga lettera del 12 aprile 1200 (I, 45*); dove si narra che l’esercito di re Carlo, avido di sangue, non perdonò a età, nè a sesso, nè ad ordine: fu spogliato il vescovo eletto di Benevento; disertate chiese e monasteri; derubati i cittadini; rapite e deflorate le vergini; adoperate per far fuoco le tavole con immagini sacre; portati via i vasi e gl’indumenti sacerdotali; e tali eccessi consumati, non già nell’impeto del combattimento, ma con deliberato proposito, annuente il re. Delle quali cose il papa si lamenta anche per la ragione che re Carlo, permettendole, aveva mostrato di tenere in dispregio i diritti di pieno possesso che s’era riserbata la chiesa sopra la città di Benevento: e forse maggiormente aveva inveito contro questa, appunto perchè non era sua. Conchiude infine, esortando il re a sodisfare i danni sofferti dalla città, e non volersi affidare tanto nella sua prospera fortuna, se non resta devoto e sottomesso alla chiesa; ricordandogli che per aiuto di questa ha conseguito onore e gloria, e di questa ha bisogno per conservarsi in istato. Basta una tale lettera del papa per dimostrare la inclemente natura di questo re crociato; ma la mala fede di lui tanto più si manifesta per quel documento tratto dagli archivi comunali di Benevento, del quale ho fatto cenno in principio di questa rassegna (1,5). È un diploma di re [p. 271 modifica]Carlo, dato da Roma il dì 8 di luglio 1265, nel quale si concedono molti privilegi ed immunità alla città e ai cittadini di Benevento; e vi si dice che il re intende con questo di fare atto di reverenza verso l’autorità del pontefice, che s’era riserbata quella terra in pieno e assoluto dominio; e di volere, dopo le vessazioni e le stragi che le avevano fatto patire i nemici della chiesa, ricondurla a un’era nuova di tranquillità e di libertà. E pochi mesi dopo empivala di morte, per dispetto della sua indipendenza dai regi dominii.

Giova fermarsi sopra altri documenti, non prima editi, che concernono i fatti della battaglia di Benevento. È noto che Manfredi, nell’ora del pericolo, fu abbandonato da gran parte dei suoi baroni; e tra questi si cita, con nota d’infamia, Riccardo conte di Caserta cognato del re, il quale, avendo a guardare insieme col conte Giordano, il passo di Ceprano, lo lasciò superare senza resistenza dall’esercito francese. Il signor Del Giudice (II, pag. 6, 7) non crede al tradimento del Caserta, e adduce come validi argomenti a sostenere la sua opinione, la confidenza posta da Manfredi nel conte, creandolo in quei supremi momenti capitano generale del Regno di qua del Faro; il non trovarsi nella nota dei luoghi fatti munire e fortificare da Manfredi (II, 1) il passo di Ceprano ( cosicché pare da dedursi che ivi il re non avesse ordinato di fare resistenza); e il trattamento crudele che il nuovo re fece di Manfredina madre di Riccardo e del figliuolo di lui Corrado, morti di sofferenze nelle carceri (II, App. 12, 15, 1G). Sui quali fatti non mi par bene esprimere ora alcun giudizio, mentre il signor Del Giudice promette di pubblicare quanto prima intorno ai medesimi un’ampia dissertazione storica: solo dirò ch’essi non mi sembrano finora di tal peso, da chiarire in modo certo l’innocenza di Riccardo. E vuoisi notare anzi tutto che nel documento 1 del voi. II, più volte citato, se non è fatta menzione del passo di Ceprano tra i luoghi fortificati, si parla bensì d’una spedizione d’armi e di munizioni al conte di Caserta in San Germano, onde si desume ch’egli aveva specialmente in custodia questa terra; la quale sarebbesi potuta sostenere con apparecchiata difesa, se l’avere lasciato libero ai Francesi il passo di Ceprano, non avesse reso loro possibile di coglierla con subitaneo assalto alla [p. 272 modifica]sprovveduta. Certo è poi peri documenti che il conte Riccardo fu tra i primi nel giorno della battaglia di Benevento a sottomettersi al nuovo re (I, 44*), e ottenne tosto la piena fiducia anche del papa; che conservò, mentre visse, il contado di Caserta e lo trasmise, morendo nel 12GG o 67, al figliuolo suo Riccardo, al quale venne poi tolto nel 1208 per delitto di ribellione (II, App. 10); che alla vedova di Riccardo, Berrardesca del Duca, re Carlo assegnò nel 1209 vent’once d’oro per le sue spese, e nel 70 fece restituire il castello di Montorio ( II, App. 11, 14 ): i quali fatti attestano per lo meno come fosse addentro nelle grazie dell’Angioino il già confidente e capitano generale di Manfredi12.

Una lettera regia del 14 marzo 1200 (1, 43) ci dà notizia come, parecchi giorni dopo la battaglia di Benevento, molti Tedeschi e ghibellini di Lombardia e di Toscana, ignorando tuttavia la morte di Manfredi, venissero per mare culi’ intendimento di recargli soccorso. Onde il re ordinò severamente a Pandolfo da Pasanella, regio giustiziere in Bari, di custodire di giorno e di notte con apposite guardie i porti e i lidi della provincia a lui commessa, affinchè quei Tedeschi e ghibellini, se sbarcassero, non gli sfuggissero dalle mani, set capiantur et duris catenis mancipentur; e ponesse in questo somma diligenza, sotto pena dell’indignazione regia; imperocchè (conchiude re Carlo) huiusmodi negotium, plurimum insidet cordi nostro. Le «dure catene» furono parimente serbate a quei prigionieri di Benevento, che si mantennero fedeli al re caduto: di alcuni dei quali ci dà notizia [p. 273 modifica]un documento del 7 febbraio 1268, che è un ordine di re Carlo al castellano di Luco, di prendere in consegna e custodire diligentemente in esso castello Giordano e Bartolommeo d’Anglano e Pièrasino da Firenze e gli altri prigionieri finora sostenuti nel carcere della città d’Aqui (II, 24). Le cronache poi dicono che furono mandati, per più sicurezza, in Provenza, e ivi mutilati, abbacinati e fatti miseramente perire13.

Otto giorni dopo la battaglia di Benevento, Carlo d’Angiò, accolto in trionfo in Napoli, ricevette ben tosto la sottomissione dei baroni e dei comuni del Regno, di qua dal Faro; e Filippo di Montfort e Guido di Mirepoix gli sottomisero in breve tempo la Sicilia e la Calabria, tenute l’una da Corrado d’Antiochia, l’altra da Galvano Lancia. Così una sola vittoria di codest’esercito di venturieri era bastata a sottomettere un grande regno, a cui mancava la difesa delle armi e delle virtù cittadine; e la monarchia angioina in Napoli poteva dirsi già assicuratamente stabilita: ma rimaneva sempre da vincere quello stesso ostacolo della mancanza dei denari, che aveva minacciato di rovinare l’impresa fino da principio, e al quale i guadagni di una prima vittoria non arrecavano bastevole rimedio. Queste miserie economiche della nuova monarchia sono discorse molto accuratamente dal Saint Priest14, il quale in sostanza conchiude, che re Carlo dovette per far denari continuare le medesime estorsioni e valersi degli stessi esattori che avevano messo in uggia ai popoli il governo degli Svevi; con questo maggior danno che tali gravezze, quando pur siano richieste dalla più dura necessità, i popoli mal volentieri le perdonano ai governi che si dicono riparatori.

I documenti ora pubblicati dal signor Del Giudice confermano tali fatti. M’è occorso di citare più volte il documento I del tomo II: dirò qui più largamente che si contiene in esso il resoconto, presentato da Angelo di Vito alla magna curia [p. 274 modifica]di re Carlo in Capua (e da esso re approvato nel marzo del L267), dello somme che il detto Angelo aveva riscosse e pagate, per mandato di Manfredi Maletta già camarlingo di re Manfredi, nelle province di Principato, Terra di Lavoro e Abruzzo, dal primo di settembre 1265 al 25 febbraio successivo. Sono notate in questo documento distintamente tutte le partite d’entrata e d’uscita, in denaro, vettovaglie, armi, bestie e altre cose; e ne risulta in somma un disavanzo, a favore del percettore, di centoventisei once d’oro, otto tarì e diciannove grani: e da questo si può intendere in che povere condizioni re Carlo trovasse il pubblico erario. E però si sforzò di ricercare e di esigere, quanti più potè, i residui dei crediti dello stato del tempo di Manfredi: cosi, ai 6 di gennaio 1267, commise a tre suoi ufficiali di riscuotere tutto il denaro rimasto nelle mani dei collettori e percettori del fu Manfredi olim principis tarantini, nel giustizierato degli Abruzzi, nell’anno della nona indizione, cioè dal primo di settembre 1265 al primo di settembre 1266 (I, 84)15. E due giorni appresso scrisse a Folco di Poggio Riccardo, giustiziere in Sicilia, di prestare aiuto a maestro Pietro de Manchevilla cherieo, incaricato dal re di riscuotere dai sindaci dei comuni di Sicilia e di Calabria gli arretrati che essi dovevano, in non modica pecunie quantitate, a Orlando d’Amico, per la gabella della zecca di Messina, amministrata da esso Orlando negli anni della VI, VII e VIII indizione, cioè del 1.° settembre 1262 al 1.° settembre 1265 (I, 86)16. Di gravezze nuovamente [p. 275 modifica]ordinate da re Carlo, troviamo la sovvenzione o colletta generale, alla quale si riferisce una sua lettera del 7 dicembre 1266, che ordina a tutti i baroni, baiuli, giudici, maestri e università del Regno, di coadiuvare efficacemente Roberto di Bar, regio protonotaro, nella riscossione di detta imposta (I, 66). Troviamo pure documenti di nuovi mutui contratti dal re in Francia e in Italia, obbligando ai creditori la decima sulle rendite ecclesiastiche di Francia e i beni della corona (I, 61, 70:11, 32, 34, 37, 69; e note ai medesimi). Il papa si lamentò aspramente della colletta generale, imposta ai popoli delle Sicilie senza il consentimento dei baroni e delle città del Regno (I, 92*); e rinnovò le sue lamentanze, quando già i fautori di Corradino erano sbarcati in Sicilia, predicendo a re Carlo disgrazia, se non si conciliasse l’amore dei popoli (II, 13*): le quali lettere dimostrano quale fosse l’animo di papa Clemente verso il re. Egli aveva voluta ed efficacemente aiutata, per utilità della chiesa, la conquista delle due Sicilie; ma, compiuta questa, s’adoperò con pari zelo a far sì che il campione della chiesa si mantenesse nei limiti impostigli dalla bolla d’investitura, e a salvare, per quanto potè, gl’interessi e i diritti dei popoli del Regno, abbandonati senza difesa in balìa del nuovo padrone. Tali sforzi rivelano in papa Clemente l’animo buono e retto, quale in verità egli ebbe, sempre che non fosse sopraffatto da quel suo pertinace zelo della grandezza temporale della chiesa; ma furono vani; e se pur poterono recare al popolo oppresso alcun benefìzio particolare e fugace, non valsero mai a compensare il maggior danno, che il papa stesso gli aveva apparecchiato, ponendogli sul collo una monarchia straniera.

Ma, con tutto ciò, la forza morale dell’idea guelfa, ch’era allora in Italia il più legittimo e accettato simbolo d’indipendenza e di nazionalità, rassicurò il trono dell’Angioino, nonostante le tante difficoltà tra le quali aveva pericolato [p. 276 modifica]fino da principio la sua ardita impresa, e quelle maggiori che doveano procurargli l’avarizia e la crudeltà sua; e bene osserva il Sismondi, che la sconfìtta di Manfredi, «mentre «portava la desolazione nelle due Sicilie, cagionava in Toscana, e specialmente in Firenze, moti affatto diversi»17. Firenze anelava la rivincita di Montaperti; e, per conseguirla, poco dopo la battaglia di Benevento, cacciò il conte Guido Novello e i caporali ghibellini, e ritornò guelfa e democratica. Ma, o che non credesse d’avere forze bastanti da reggersi da per sè, o che la devozione all’unità guelfa sovrastasse a ogni altra ragione municipale, si pose sotto la protezione di re Carlo d’Angiò, e gli concesse per sei anni la potesteria della città (II, 3*), ch’egli accettò con lieto animo e con parole benigne, dicendo di volere, piuttosto che la giudisdizione, «il cuore e la buona volontà» dei Fiorentini18. E queste parole, dirittamente considerate, non esprimono già una semplice cortesia, ma sono un’accorta difesa contro i sospetti di papa Clemente, il quale d’ora innanzi si mostrò sempre combattuto tra la necessità di raffermare la potenza del re, per serbare alla chiesa un valido campione, e il timore che di tale potenza egli abusasse con danno dell’autorità e dell’indipendenza della chiesa medesima. Pur non ostante il papa non si oppose a tale elezione, e conferì inoltre a re Carlo il titolo e l’ufficio di paciere generale in Toscana, per tre anni, ponendogli bensì per patto di rinunziarlo anche prima di tal termine, se così piacesse alla santa sede, o se in questo tempo venisse legittimamente eletto un imperatore (II, 2*, 5*).

Intanto, le speranze dei partigiani di casa sveva non erano affatto morte; e il figliuolo di Corrado Primo, giovinetto sedicenne, era destinato a ravvivarle per breve tempo, e a spegnersi con esse per sempre. Urbano IV l’aveva maledetto [p. 277 modifica]fino dall’infanzia; ordinando, sotto pena di scomunica, all’arcivescovo di Costanza, suo tutore, di abbandonarlo senza pietà; imperocchè quel fanciullo discendesse da una casa «la cui malignità si propaga di padre in figlio insieme col sangue»19. Ma la stessa implacata persecuzione dei papi contro la sua famiglia fu incitamento a Corradino a tentare l’impresa; cosicchè quando alcuni principali fuorusciti di Sicilia andarono fino in Germania a fargli calde esortazioni e ad offerirgli denaro, e gli rappresentarono i capi di parte ghibellina di Lombardia, di Toscana e di Romagna, pronti a insorgere colle loro plebi in favore dell’impero, e fallacemente gli promisero essere la sua discesa in Italia facile, gloriosa e desideratissima, trovarono l’animo di lui preparato ai rischi, e viepiù l’accesero. Corradino cedette tosto a quei disastrosi consigli; e s’apparecchiò, con la balda confidenza della giovinezza, a passare le Alpi dichiarando (in una lettera patente agl’Italiani, della quale parla lo Cherrier)20 di venire, coll’appoggio dei magnati dell’impero, a ricuperare il suo patrimonio, e a rialzare l’onore d’Italia e la dignità del nome tedesco. Con questo e con altri atti manifestò l’essere suo schiettamente ghibellino; volle, prima d’ogni altra cosa, farsi restauratore in Italia delle ragioni dell’impero; e per amore di queste vituperò, colla taccia d’usurpatore, la gloriosa memoria di suo zio Manfredi, unico di casa sveva, che avesse sangue e cuore italiano. Tali intendimenti non potevano giovare alla buona riuscita della sua impresa, già di per sè stessa arrischiatissima: pur non ostante i primi fatti, ordinati e condotti con vigoria, ebbero un felice successo. Imperocchè nello stesso tempo che Corradino si faceva riconoscere dai signori di Lombardia, Galvano Lancia lo precedeva a Roma, portandovi, tra le acclamazioni popolari, il nome e la bandiera di Svevia, e d’accordo con Enrico di Castiglia senatore, iniziava la lega ghibellina. Ribellavansi intanto i Saracini di Lucera, i quali, comecchè dopo la battaglia di Benevento facessero atto di sottomissione al vincitore, [p. 278 modifica]«mostrarono sempre restii al governo di re Carlo»21; altri moti di ribellione manifestavansi in più parti del regno; e la flotta pisana li fomentava, facendo scorrerie lungo le coste, sotto la condotta di Federigo Lancia, dei Capece, dell’infante Federigo di Castiglia e di altri valorosi partigiani di casa sveva. Su questi fatti pubblica il signor Del Giudice vari documenti: tra i quali panni degno di speciale menzione un esame de nominibus proditorum domini nostri regis Karoli (fatto negli ultimi del 1268, dopo il supplizio di Corradino) dove si narrano i fatti avvenuti in Ischia nell’agosto 126S, quando vi sbarcarono i ghibellini della flotta pisana (II, 54). Racconta uno dei testimoni, esaminati, che a bordo delle galee nemiche erano il conte Enrichetto, Federigo Lancia, Riccardo Filangeri, Marino Capece, ed altri «traditori del re»; i quali, coi loro seguaci, scesero a terra, gridando le lodi di Corradino, e poichè non ebbero veruna risposta dagli uomini di quell’isola alzarono le forche sulla spiaggia, per appendercene alcuni: onde i terrazzani, spaventati, quando quei delle galere gridarono nuovamente laudem Corradino, risposero amen, comecchè ritenessero in cuore (per quanto afferma il testimone) la fede di re Carlo. E allora l’università di detta terra ricevette il vessillo di Corradino e lo pose sulle mura: ma appena le galere pisane si allontanarono, gettò giù quel segno di ribellione, e tornò all’ubbidienza del re. Altre consimili inquisizioni si contengono nel documento 56 del voi. II, e nelle annotazioni apposte al medesimo; e se ne ricavano notizie curiose sopra fatti di ribellione avvenuti in vari luoghi del regno all’avvicinarsi di Corradino. Riccardo di Rebursa barone d’Aversa fa ribellare questa città. Il conte Corrado di Caserta, figliuolo del fu Riccardo, si dichiara capitano di Terra di Lavoro in nome di Corradino. In Nola i ribelli, capitanati da Marino Capece, gridano: Quicumque non vult dominationem regis Corradini, moriatur. Palma è fatta insorgere da Guglielmo barone di Palma, e i ribelli entrativi [p. 279 modifica]ne chiudono le porte, e proicientes lapides et guarrellos, la difendono per alcun tempo: poi, datisi alla fuga, l’abbandonano al maresciallo del re Carlo. - Sulla lega ghibellina si pubblica un documento, già stampato dal Gregorovius e dal Saint Priest, ch’è la deliberazione del Consiglio speciale e generale di Roma, di entrare in lega perpetua colle città ghibelline di Toscana (II, 18*; 18 novembre 1267); e altri se ne citano in nota, gli originali dei quali si conservano nell’Archivio di Stato in Siena. Dei documenti che si riferiscono al senatore Enrico, capitano generale di questa lega, dirò più appresso.

Papa Clemente e re Carlo, sorpresi da questo subito ridestarsi di parte ghibellina in Italia e da’ felici successi delle armi tedesche, non se ne lasciarono bensì sgomentare; ma apparecchiaronsi di comune accordo a una valida e pronta difesa. Appena inteso l’arrivo di Corradino in Pavia, re Carlo, che trovavasi allora in Lucca, ne scrisse a Ostendardo suo vicario in Lombardia, una lunga lettera (II, 22*; febbraio 1268); dove l’esortava a difendere i luoghi e i passi posti sotto la sua custodia, manifestandogli anche il proprio intendimento di dar battaglia al suo avversario, nel caso che questi uscisse di Pavia, affine d’impedirgli d’entrare in Toscana22. Ma per le sopravvenute ribellioni nel Regno e per le esortazioni del papa (II, 20*), Carlo d’Angiò dovette por da banda questo suo disegno di fare resistenza ai confini toscani; e, tornato in fretta nei suoi stati, pose assedio alla città di Lucera, fatta insorgere dai Saracini, e vi stette dal 20 maggio al 12 giugno (II, 47-50). Il papa intanto aiutavalo cogli argomenti spirituali, e nella strettezza del pericolo gli dava ogni più larga autorità. Così, con lettera del 15 febbraio 1268, gli concesse il titolo e l’ufficio di vicario generale dell’impero in Toscana, parendogli non più efficace quello già datogli di paciere, imperocchè avesse a fare con gente «turbolenta» (II, 28*): scrisse poi, a’ 2 di maggio, a Guglielmo de Tuningo, [p. 280 modifica]dell'ordine dei predicatori, annunziandogli di avere eletto al sopraddetto ufficio Carlo d’Angiò come«principe cristianissimo e guerriero indefesso di Cristo»; e commise a quel frate di andare in Toscana, e di porsi d’accordo col maresciallo del re (che teneva per lui ufficio di paciere in questa provincia) per ridurre alla via della salute i perturbatori, prima cogli ammonimenti, poi collo censure ecclesiastiche23. Sotto la protezione di re Carlo si costituì allora in Toscana la lega guelfa; ed egli ne fu naturalmente il capo, e seppe ritrarne, più che armi, aiuto di denari, secondo i suoi bisogni. Un documento dell’ll febbraio 1268 (II, 22) contiene la tassagione imposta alle città della lega pro opere arcis Podii Bonizi, nelle seguenti somme: Firenze, lire 992; Pistoia, 564; Prato, 216; Sangimignano, 216; Colle di Valdelsa, 120; Volterra, 216; Arezzo, 540; Cortona, 72; Borgo San Sepolcro, 168; Montepulciano, 36; Città di Castello, 24; e la parte guelfa dei Senesi, 264. Altri documenti si riferiscono a nuove esazioni a carico di quei comuni pei bisogni della regia camera (II, 30, 33); altri alla elezione del potestà di Prato, per parte di Carlo d’Angiò, nella sua qualità di vicario generale (II, 66, e note).

Un ufficio anche maggiore presentavasi a Carlo per la ribellione d’Enrico di Castiglia: quello cioè di senatore di Roma, al quale, due anni innanzi, quando fu investito re, egli aveva dovuto rinunziare, per compiacere alla santa sede. Era codesta magistratura, com’è noto, l’ultimo simulacro di libertà che rimanesse al comune di Roma; nemica ai pontefici per tradizione, e per necessità di difesa contro le usurpazioni loro, e tanto più temibile, se venisse in mano d’un re valoroso e potente. Ma nella strettezza del pericolo Clemente IV s’adattò alla possibilità d’una rielezione di Carlo d’Angiò per parte del popolo romano, procedendo bensì, verso il re, anche in questo fatto con tale prudenza, da mostrare che la chiesa (come dice l’Amari) «il volea potente sì, ma non tale da soverchiare lei stessa»24. E difatti, da principio, papa Clemente fece pratiche presso Enrico di Castiglia medesimo, affine di mantenerlo nell’ubbidienza della chiesa, e ridurlo a [p. 281 modifica]un accordo con re Carlo: dicendogli ch’e’ non potrebbe fare cosa «più grata a Dio e più utile alla repubblica» (II, 7*; 1267, luglio 2); e quantunque le sue esortazioni non ottenessero alcun effetto, pure si ristette per alcun tempo dal punirlo, sperando ch’e’ non volesse perseverare nella sua contumacia (II, 8 *). Ma Enrico, mentre rispondeva al papa belle parole, non dava segno di cessare dalle macchinazioni contro il re25; e gli si rivelò poi francamente contrario, quando accolse in Roma Galvano Lancia, e spiegò il vessillo di Corradino. Dopo il quale fatto, il papa, non potendo più oltre tollerare una così aperta ribellione, con lettera del IO novembre 1207, dichiarò colpevole Enrico d’essersi volto contro la madre chiesa, dimentico «della reale mansuetudine e dei generosi costumi»; lo destituì dall’ufficio di senatore romano, e annullò tutti i suoi atti (II, 17*). Enrico rimase ciò nonostante senatore, finchè l’armi di Corradino si sostennero; ma intanto Clemente, per opporgli un valido competitore e anche per la speranza che tale minaccia lo facesse recedere dalla ribellione, concesse a Carlo d’Angiò la facoltà di accettare dai Romani, quando gliel’offerissero, il governo di Roma per dieci anni; nonostante l’obbligazione contratta da Carlo verso la chiesa di non assumere mai più codest’ufficio: ben inteso però che finito il decennio egli dovesse irrevocabilmente lasciarlo (II, 42*).

Tocchiamo brevemente degli ultimi fatti di Corradino, generalmente noti. Uscito di Roma circa alla metà d’agosto, incontrò re Carlo, a’ 23 del mese stesso, ne’ campi Palentini, e n’ebbe quella sanguinosa sconfitta, a cui la storia ha dato nome di battaglia di Tagliacozzo. Tanta e così smodata letizia ne provò l’Angioino, che la sera stessa della vittoria, scrivendone al pontefice, con derisione crudele verso i vinti, gli dice che sorga e si cibi allegramente della caccia del figliuolo suo (II, 57 *). Corradino, tornato a Roma come fuggiasco, ne dovette ripartire poco appresso per paura di quella [p. 282 modifica]stessa plebe che pochi giorni innanzi l’aveva levato a cielo; e mentre faceva disegno di passare in Sicilia, da un Frangipani signore d’Astura, nel quale erasi confidato, fu tradito con i suoi compagni all’ammiraglio di re Carlo. In que’ medesimi giorni (settembre 1208) il vincitore entrò trionfante in Roma; e dal solito popolo, amico sempre di chi vince, vi fu proclamato senatore: il quale ufficio egli accettò, come gli venne conferito, avita (II, 67, 70*); dimentico forse, nella soddisfazione del trionfo, delle riserve impostegli dalla chiesa. Ma bene seppe papa Niccolò III, scaduto il decennio, ricordargliele, e costringerlo «a rassegnare l’ufficio di senatore, richiamando da Roma i suoi ufficiali, e consegnando le castella ed il Campidoglio in mano del popolo romano»: di che il signor Del Giudice promette di pubblicare a suo tempo gli opportuni documenti (II, pag. 208).

La fine di tutti i più illustri prigionieri di Tagliacozzo (se ne togli Enrico di Castiglia, che per la sua parentela con re Carlo ebbe grazia della vita) fu sul patibolo: Galvano Lancia26 e il suo figliuolo furono decapitati in Roma o in Genazzano (la quale cosa per le cronache e per i documenti non è ben chiara); Corradino, con Federigo d’Austria e altri compagni27, nella piazza del mercato di Napoli, a dì 29 di ottobre 1208. Hanno i cronisti e le tradizioni popolari colorito quest’ultimo fatto, già nella sua nuda verità lacrimevole, con pietose novelle; ma la critica storica, fondandosi sui documenti e su testimonianze autentiche, le ha in gran parte rifiutate. Così si è narrato che al protonotaro del regno, che lesse pubblicamente la sentenza, resa contro Corradino da una curia generale di giureconsulti appositamente convocata, Roberto di Fiandra, genero del re, «diede d’uno stocco, «dicendo che a lui non era licito di sentenziare a morte sì grande e gentile uomo; del quale colpo il giudice, presente [p. 283 modifica]«lo re, morì»28; mentre i documenti hanno poi dimostrato che il protonotaro viveva anni dopo29. Ora poi il signor Del Giudice revoca in dubbio il fatto stesso della convocazione della curia generale, e conseguentemente l’altro, che in quell’adunanza il solo Guido di Suzara avesse cuore di parlare a viso aperto in favore dello sciagurato giovinetto.

Senza dar giudizio intorno a questi dubbi proposti dal signor Del Giudice, dirò che essi hanno un certo peso, per una lettera di re Carlo, del 29 ottobre 1268, ora per la prima volta pubblicata (II, 80); nella quale si ordina al Segreto delle province di Principato, Terra di Lavoro e Abruzzo, di pagare a Guido di Suzara, professore di giure civile, cento once d’oro da computarsi sul suo salario. Ora con ciò è dimostrato non essere vero, come hanno affermato il De Cesare ed altri, che Guido di Suzara fosse indipendente da re Carlo, e potesse perciò dire liberamente la sua opinione; e pare poi strano che «appunto nel 29 ottobre, giorno, come si crede, dell’esecuzione di Corradino, re Carlo facesse pagare all’ardito giureconsulto, cento once d’oro quasi «in premio della sua libertà di pensare». Del rimanente, seguita a dire il signor Del Giudice, se tale fatto è vero, «cresce oltre modo la virtù e la fermezza di Guido»; ma rimane sempre l’altro dubbio, che veramente fosse convocata in tale occasione una curia di giudici e di giureconsulti; dappoichè (dice l’ed.) «nell’Archivio di Napoli, ed in quei regesti di Carlo che tanta notizie contengono della sua amministrazione e dei fatti di quei tempi, non mi è riuscito di trovare alcun diploma che accennasse a processo, a riunione di giureconsulti, a parlamento e curia qualunque per giudicare Corradino e alcuno de’ principali ribelli» (II, pag. 232).

E veramente le persecuzioni di Carlo d’Angiò contro i ribelli furono senza freno e senza legge. «Costoro si mandavano a morte, si afforcavano, si tormentavano, si accecavano, si traevano a coda di cavallo, per solo ordine del re che mandava ai giustizieri e ad altri suoi ufficiali» (II, pag. 232). Intorno a questi procedimenti pubblica il signor Del [p. 284 modifica]Giudice varie lettere regie, delle quali credo utile far ricordo. Una lettera, del 22 settembre 1268, dal Campidoglio, ordina a Oddone di Luco, sotto pena della persona e della perdila dei suoi possessi, di consegnare, senza indugio nè scusa, nelle mani degli ufficiali del re i ribelli Manfredi Maletta e Giovanni da Procida, ai quali dicevasi avere egli dato ricetto nelle terre da lui possedute nel distretto di Roma (II, 65): la quale lettera non ebbe poi verun effetto, essendo quei due riusciti a porsi in salvo dalle vendette dell’Angioino. Ma così non accadde al ribelle Gervasio di Matina; il quale essendo stato preso e menato nella carcere del castello di Brindisi, venne ordine del re (16 novembre) che fosse sottoposto ai tormenti, per trargli di bocca la verità sul tradimento suo e del suo figliuolo, poi trascinato vergognosamente per la città, e appiccato (II, 86). Così Carlo d’Angiò, prima che i giudici inquisissero e sentenziassero, condannava; e incitava ogni dì più con ordini nuovi lo zelo dei tanti ufficiali da lui posti nelle varie province del Regno alla ricerca e alla punizione dei ribelli. Di tal fatta è la lettera sua del 21 ottobre 12(38, che ordina ai giustizieri di far prendere tutti i figliuoli e le figliuole dei ribelli, così baroni, come cavalieri e borghesi (baronum, militum, burgensium), e di tenerli in istretta custodia (II, 75); e l’altra del 25 d’ottobre, colla quale s’impone ai giustizieri medesimi di non lasciarsi sfuggire u mandare liberi proditores et inturbatores aut quoscumque alios captivos, senza speciale licenza del re, sotto pena d’incorrere essi medesimi nelle pene comminate ai ribelli e traditori (II, 78). Infine, morto Corradino, morti e dispersi i principali autori di quella sciagurata ribellione, re Carlo, per mostra di pietà, emanò decreto di sicurtà e di perdono «a favore di tutti gli abitanti delle terre che, ribelli al tempo di Corradino, erano poi ritornate umilmente all’obbedienza»; concedendo in pari tempo agli uomini delle dette terre che se n’erano allontanati per paura, facoltà di ritornarvi liberamente e sicuramente, dentro certo termine, purchè non fossero stati de principalibus factionis (II, 91*; 4 dicembre 1208). Ma pochi giorni dopo questo decreto, accortamente benefico verso la plebe . si pubblicò uno statuto severissimo contro i ribelli; per il quale venne stabilito che i [p. 285 modifica]beni loro fossero tutti applicati alla regia camera; che quelli che s’erano fin allora mantenuti nascosti, se venissero presi, fossero appiccati senza indugio, incorrendo nella stessa pena i loro fautori e ricettatori; che coloro i quali ricettassero figliuoli dei ribelli o dessero loro aiuto o consiglio, fossero gravemente puniti, ad arbitrio del re; e in ugual modo andasse punito chi avendo alcuna notizia dei ribelli, non la riferisse subito ai regi ufficiali (II, 93.*; 15 dicembre 1268).

Con questo diploma, ch’è il terzultimo del II volume, termina la serie dei documenti concernenti ai fatti della guerra contro gli Svevi e della fondazione della dinastia angioina nel reame delle due Sicilie. Noterò infine che in questi due primi volumi si contengono altri molti documenti, i quali non si riferiscono propriamente a codesti fatti, ma bene illustrano i primi anni del regno di Carlo d’Angiò, e la natura di quel re e di quella corte; come ad esempio, decreti e mandati relativi alla costituzione e alle spese della casa del re; ordinamenti nuovi di uffici; privilegi in favore degli studi di Roma e di Napoli; decreti crudelissimi contro gli eretici, che si abbandonavano senza difesa nelle mani dell’inquisitore ecclesiastico, con iscapito della stessa autorità del re (il quale bensì si riserbava il diritto di incamerare a beneficio proprio i beni confiscati a quegli sciagurati); ricompense a soldati valorosi e a sudditi devoti; e altri documenti spettanti a fatti particolari, che aggiungono notizie alla storia paesana, o rettificano errori di cronisti.

Siena, nel febbraio del 1871.
Cesare Paoli.               


Note

  1. Il primo volume ha due Appendici: la prima delle quali contiene ventisette documenti del tempo dei Normanni; la seconda, otto documenti relativi a Carlo conte di Provenza e a sua moglie Beatrice, anteriormente alla conquista di Sicilia, e uno statuto per le castella del regno di Napoli, del 1269. Due Appendici ha pure il secondo volume: la prima, di ventisette documenti relativi ad Arrigo di Castiglia, Corrado di Caserta, Riccardo di Rebursa e ad altri partigiani svevi; la seconda, di tre documenti relativi alla fine di Corradino, e di undici, riferentisi alle inquisizioni contro eli eretici.
  2. Un prezioso documento del 1284, pubblicato ora per la prima volta (Vol. II, a pag. xxxvii-xliv), contenente la quietanza, fatta da re Carlo I al capitano Lodovico dei Monti, dei libri della regia cancelleria, spediti da questo alla regia curia sedente in Bari, ci fa conoscere com’erano originalmente ordinati quei registri e quaderni. Ciascuno d’essi aveva un titolo diverso, secondo la materia dei documenti in esso contenuti, e comprendeva generalmente un anno, da una ad un’altra indizione (di che si dirà in altra nota). Fa seguito a questo documento un Notamento, compilato dal signor Del Giudice, de’ Registri di Carlo I, quali si osservano nel Grande Archivio di Napoli; dove, in tre colonne, si riferisce «la intitolazione antica scritta sul dorso dei registri, quale è citata dagli scrittori»; il « numero d’ordine, aggiunto recentemente»; la «epoca vera de’ documenti, che si contengono in ciascun volume, secondo le diverse indizioni, anni del sovrano, e Luogo dato il diploma».
  3. Cito con numeri romani i due volumi del codice diplomatico; con nume i documenti di ciascun volume aggiugendo un asterisco a quelli già editi in altre raccolte.
  4. Nell’Arch. Stor. It. . Serie II, Tomo XVIII, Parte II, pag. 86.
  5. È tratto da! codice degli statuti della città di Benevento, che si conserva nell’Archivio comunale di quella città.
  6. È questo il più antico documento tratto dai registri angioini. L’editore l’ha rinvenuto «dopo non lieve fatica» nel registro segnato dell’anno 1269.
  7. Da un diploma del re, del 2 dicembre 1266 (I, 64), si ha notizia che alcuni mercanti fiorentini, i quali avevano prestato a Carlo 1100 lire tornesi, mentre egli era tuttora in Francia, non ne avevano ancora ricevuta la restituzione, quantunque il termine fosse già scaduto.
  8. Acta Imperii selecta, raccolti dal Böhmer, pubbl. dal Ficker, pag. 684. Documento del 7 giugno 1265.
  9. Vedi Amari, Guerra del Vespro Siciliano, cap. II.
  10. Secondo la Cronaca di Gio. Villani (VII, 6) ciò avvenne a’ 10 di febbraio 1266.
  11. Gio. Vill., Cron., VII, 5.
  12. Con non minore sollecitudine, Tommaso d’Aquino conte d’Acerra, altro cognato e confidente di Manfredi, abbandonò il suo re, insieme con tanti altri, tosto che ne vide certa la rovina, e si sottomise al vincitore. Al quale, a dir vero, mantenne poi sempre fede: di che la testimonianza una lettera di re Carlo del lo febbraio 12G7 (I, 91), che gli concede, in riiiiii . della sua provata fedeltà, di uscire dal Regno per recarsi alla presenza del papa e a visitare alcuni pii luoghi, pro suorura remissione peccatorum, quantunque il re conosca, ab experto, essere la presenza sua ad gerendo negotia regni fructuosam et utilem: e gli promette, durante la sua assenza, e finchè egli rimanga nella devozioni; della chiesa e del re, di proteggere e difendere la moglie e i figliuoli di lui, non che i beni e i familiari.
  13. Vedi la nota del Del Giudice al citato documento (II, pag. 112); e Cherrier, Histoire de la lutte des papes et des empereurs de la maison de Souabe (Paris, 1859, 2. «ed.), tom. III, pag. 205.
  14. Hist. de la conquête de Naples par Charles d’Anjou (Paris, 1849, nouv. ed.), tomo II, pag. 230 e seg.
  15. Nota il Del Giudice (tomo I, Pref., a pag. xxv), che i registri " della cancelleria angioina di Napoli comprendevano per lo più un intero anno secondo l’indizione costantinopolitana, cioè dal l.o di settembre di un anno al 1.° di settembre dell’altro anno. Imperocchè, quantunque nelle carte di cancelleria sovrana degli Angioini presso che sempre non si nota che l’anno volgare a circumeisione (non trovandosi quasi nessun diploma segnato coll’anno pisano o fiorentino), pur tuttavia l’anno civile, per dir cosi, cominciava dall’indizione; e quindi i conti dei giustizieri, erarii. ed altri ufficiali, davansi dal l.o settembre in poi, le gabelle dal l.° settembre di ciascun anno si esigevano, e dal 1.° settembre s’iniziavano i pagamenti coi mandati del re e dei grandi dignitari dello stato».
  16. Vogliamo pure citare i due seguenti documenti, relativi a riscossioni di crediti: - 1266, dicembre 17. Il re costituisce due procuratori a riscuotere dal comune di Roma salem et alla bona nostra que in discessu nostro de Urbe remanserunt ibidem, et que detinet dictum comune (I, 75) – 1266, dicembre 23. Il re fa incamerare i castelli e beni del conte di Molise ed Alba, debitore di diecimila once d’oro alla camera regia (I, 79).
  17. Stor. delle rep. ital, cap. xxi.
  18. G. Vill., Cron., VII, 15. Questo e gli altri cronisti fiorentini dicono che Carlo ottenne la signoria di Firenze per dieci anni: ma il sig. Del Giudice crede, e non a torto, ch’essi abbiano fatto tutt’una cosa della potesteria conferitagli dal popolo, e del vicariato generale di Toscana, concessogli per dieci anni dal papa; e lo prova con l’autorità della lettera pontificia del 10 maggio 1267 (docum. 3 del vol. II, citato sopra) e con estratti di altri documenti che riferisce in nota. (Vedi l’annot. 3, a pagina 29-30 del vol. II.)
  19. Acta Imperii selecta, pag. 681-82. Documento senza alcuna data, attribuito dall’editore all’anno 1262.
  20. Op. cit., pag. 232.
  21. Così nota Del Giudice, a pag. 304 del I volume. Il documento, a cui pi riferisce questa nota, è una lettera del re del 22 marzo 1267, che dà in custodia Iacopo di Gandelmo, giustiziere di Capitanata, dodici de Sarracenis civitatis Lucerie servis nostris, quos universitas eiusdem civitatis excellentie nostre nuper dedit in obsides (1, 108).
  22. In quei medesimi giorni (8 febbraio 1268) re Carlo commise al vescovo d’Albano e a Raimondo di Toro suo siniscalco in Lombardia, di aprire pratiche di lega con la città d’Asti (II, 25); pratiche così nota il Del Giudice) che. «ritardate per gli avvenimenti posteriori, furono riprese nel 1270».
  23. Acta Imperii selecta, pag. 691-92.
  24. Guerra del Vespro siciliano, cap. II.
  25. Una lettera di pp. Clemente, finora inedita, al regio capitano Guglielmo de Modiobladi, si esprime in questo modo a proposito del senatore Enrico: Nondum certitudinem habere possumus super proposito.... senatoris, quia sepe mutantur Consilia, que carent solido fundamento (II, 10; 26 agosto 1267).
  26. Di Galvano Lancia il signor Del Giudice pubblica, in nota al documento 70 del vol. II, una sentenza (ch’egli crede inedita) «da lui resa nel 1257, quando era capitan generale del Regno al tempo di Manfredi, importante per le forme giudiziarie di quei tempi. Nell’originale esistente nell’Archivio si vede la firma originali: di questo famoso ghibellino».
  27. Lo Cherrier, nella cit. op. III, pag. 275, dice che erano dodici in tutti.
  28. G. Vill. Cron., VI.
  29. Cherrier, Op. cit., III, pag. 281.