Biografia di Paolo Costa

Da Wikisource.
Filippo Mordani

1840 Indice:Biografia di Paolo Costa.djvu Biografia di Paolo Costa Intestazione 4 settembre 2021 100% Da definire


[p. ritratto modifica]PAOLO COSTA


[p. 1 modifica]

BIOGRAFIA

DI

DESCRITTA

DA

FILIPPO MORDANI


FORLI

PRESSO ANTONIO HERCOLANI EDITORE

CON PERMESSO

1840.

[p. 3 modifica]

A

GIUSEPPE IGNAZIO MONTANARI

DA BAGNACAVALLO

PUBBLICO PROFESSORE

DI BELLE LETTERE

IN PESARO

FILIPPO MORDANI

IN SEGNO DI STIMA

E

DI MEMORE AMICIZIA

D.

[p. 5 modifica]


Paolo Costa fu prosatore, poeta, filosofo grande; e vuolsi assomigliare a que’ rarissimi ingegni che, nudriti di virile sapienza, non istettero contenti a lode volgare, ed aspirarono a sublime e durevole fama con opere di assai beneficio a’ mortali. Ond’è che Ravenna, la quale gli fu madre, anzi la Romagna tutta si onora del nome di lui; e noi crediamo che ’l raccontarne qui sommariamente i particolari più notabili della sua vita sarà caro a quelli fra’ nostri lettori, che più hanno in pregio tutto che torna a decoro di questa bella parte d’Italia,

„ Fra l’Adria e l’Appenin, la Foglia e ’l Reno;1 albergo vero di civiltà, di dottrina e d’ogni gentil costume.

Domenico di Nicola Costa nobile ravegnano tolse a sua donna la contessa Lucrezia Ricciardelli faentina, [p. 6 modifica]ed infra gli altri figliuoli ebbe di lei questo Paolo, di che ora ragiono; il quale nacque a dì 13 Giugno del 1771, un poco dopo la levata del sole. Lascio stare la puerizia di lui, chè rade volte quella età è degna di memoria, e dico solamente ch’egli era tenero fanciulletto quando fu posto nel collegio della patria, dove stette dieci anni; nel quale spazio di tempo poco altro fece che leggere le poesie del Frugoni e Virgilio recato nell’idioma italiano, avendo del latino pochissima conoscenza. Uscito poi del collegio, e preso amore alla poesía, si diede a far versi, che furono molto lodati dagli uomini di que’ dì; la qual cosa gli crebbe animo. Ma egli sentì tosto il bisogno di essere aiutato a ragionare dirittamente; perchè si volse a cercar le opere dei filosofi, e fu sua grande ventura che gli venisse alle mani la logica del Condillac, che con somma diligenza meditò; ed alla luce di quel vero parve che la sua mente tutta si rischiarasse. Poscia gli entrò in cuore un grande desiderio d’ire allo studio di Padova, allora fiorente d’uomini prestantissimi. Ed il buono e prudente padre, veduto che ’l figliuolo dava speranza di sè, fu contento che seguisse le inclinazioni avute dalla natura.

Ito dunque a Padova, fu ammaestrato dallo Stratico nelle cose della fisica, e udì eloquenza dal Cesarotti, che spiegando a’ suoi discepoli le bellezze di Omero e di Ossian, aveva levato grandissimo grido per le terre italiane. Dopo tre anni tornò a Ravenna, la quale si reggeva a popolo, essendo mutata per la venuta de’ francesi la forma dell’antico governo. La sua virtù gli aperse la via agli onori: fu fatto cittadino moderatore, e posto a sedere nello scanno de’ magistrati; le quali dignità tenne con decoro, e da uomo onesto e dabbene. Accadde indi a poco che le armi tedesche cacciarono i francesi di qua; onde Paolo si riparava a Bologna. Queste cose ho io raccolte da quel suo carme indiritto al conte Gio. Antonio Roverella, nel quale lasciò testimonio della sua vita; e piacemi di registrare gli stessi suoi versi, acciocchè chi non avesse ancor letto cosa di lui, vegga con quanta pulitezza e gagliardía di stile sapeva quest’uomo esporre i suoi concetti:

“...................... A magre scuole
Nudrii la mente; sette lunghi verni

[p. 7 modifica]

Porsi le orecchie pazienti indarno
Ai precettor latini, e a me trilustre
Parver Virgilio e Flacco arabi e goti.
In su l’april degli anni alto desío
Di gloria m’arse, e alle antenoree mura
Per vaghezza di lauro e mirto io corsi.
De’ Bardi il canto dagli euganei colli
Agli orecchi mi venne, e rozza lira
Temprai all’arpa caledonia. O folle
Pensier! squallide rupi, orridi boschi,
Precipitosi rapidi torrenti;
Ciel nubiloso, duri petti, atroci
Alme simili al loco, ond’ebber vita,
Obbietti son, che mal si affanno ai dolci
Campi, all’aer sereno, ai miti studi
Di questa molle Italia, e pur, lasciate
Le rive d’Arno, i giovanili ingegni
Correano insanamente a cercar fiori
Per la Scozia sassosa, ed io con loro
Opra e sudor perdea. Quando sull’Alpe
Spiegato all’aura il tricolor vessillo
Attonite mirar l’ausonie genti,
E sanguinosi il Pò, l’Adda, il Ticino
Abbeveraro i gallici cavalli.
Allor lascio la Brenta e al patrio Viti
Ritorno. Oh tempi miserandi! oh cieche
Umane menti! libertade è frutto,
Che per virtù si coglie: è infausto dono,
Se dalla man dello straniero è porto!
I depredati campi, i vôti scrigni
Piange il popol deluso: ira di parte
I petti infiamma: ad una stessa mensa
Seggon nemici il padre e il figlio: insulta
Il fratello al fratello: ascende in alto
Il già mendico e vile, e della ruota
In fondo è posto chi ne avea la cima:
A stranio ciel fuggon le muse; io piango
La mal concetta speme, e nel futuro
Leggo fatti più iniqui: indi i civili
Odii e della Romagna il tempestoso
Cielo fuggendo, qui, dove d’appresso
Della torre maggior la Garisenda

[p. 8 modifica]

S’incurva, in lieto e fido porto approdo.”

Ho detto che furono cacciati i francesi di qua: aggiungo ora ch’e’ vi tornarono in breve, e che ’l nostro Paolo fu da capo chiamato ai pubblici offici.

Poco innanzi a questo tempo, e nella fresca età di ventisei anni, condusse in moglie una giovane costumatissima della nobile famiglia de’ conti Milzetti, di nome Giuditta, dalla quale non ebbe consolazione di figliuoli. Era già cominciato il ristauramento delle lettere italiane, essendo manifesto a ciascuno com’elle nel passato secolo fossero scadute ed invilite. E questa lode della spenta barbarie della ravvivata gentilezza del dire è da concedere a que’ pochi, che primi entrarono la buona via. Nè ultimo fra questi fu ’l Costa, il quale avendo ripigliati gli studi poco fa interrotti, e stretta amistà cogli eccellenti ingegni del Palcani, dello Strocchi, del Giordani, del Montrone, accortosi dell’errore, si dipartì dal mal cammino de’ corruttori, e ponendo continuo studio nelle mirabili opere de’ nostri classici, acquistò sapere ed arte di scrivere. Fatto del collegio elettorale, fu a’ comizi cisalpini in Lione; e di là tornato a Bologna, ivi si usò negli studi, e venne a quella perfezione del senno e del giudicio, a che rade volte veggiamo giugnere gli uomini. Fu pubblico professore ne’ licei di Treviso e di Bologna: poi tenne cattedra nella propria casa; dove, per la fama della sua dottrina, e parte per guadagnarsi titolo d’allievi della sua scuola, si ragunavano i più nobili de’ giovani italiani. Infra i quali, a numerarne alcuni, fu ’l conte Antonio Papadopoli, che raccolse lo memorie della vita del suo maestro; e Cesare Mattei, che quanto vivo lo amò, tanto ora lo piange morto, e procaccia con tutto il suo potere di apparecchiargli splendido e durevole monumento.

Una delle poesie del Costa, che vuole essere qui ricordata per la prima, sono le stanze, con che descrisse le principali sculture insino allora compiute dall’immortale Canova; le quali furono impresse del 1809 per festeggiare lo sperato arrivo di quel grande nella città di Bologna. E tu veramente finzione poetica sì bene immaginata, e con descrizioni evidenti e versi nobilissimi, che quel sottile giudicio di Pietro Giordani ebbe a dire: “non essersi invano da lui invocato al suo cantare il [p. 9 modifica]genio dell’Ariosto.” Poi, tre anni appresso, allorchè il conte Giulio Perticari sposava in moglie la figliuola di Vincenzo Monti, levò al vero Giove un inno, che risplenderà lungo tempo fra le cose più belle dell’italiana poesia, anzi fra quelle che più sono vicine alla eccellenza de’ greci e de’ latini. E quando le statue antiche, già locate nel Museo di Parigi, furono restituite all’Italia, ei fece uscire il canto del Laocoonte, con che, entrando nel concetto dello scultore divino, mirò ad imprimere negli animi l’affetto del terrore e della compassione; e mirabilmente vi riuscì.

Intorno a questi tempi essendo il nostro Paolo preso da tanta noia e malinconia, che quasi voleva rompere in mezzo gli studi; per cagione della perversità di certi ignoranti invidiosi ed ipocriti, i quali facevano ogni sforzo di oscurare la chiarezza del nome suo; il Perticari, che aveva ripiena l’anima della sapienza di lui, e l'amava di verissimo amore, gli scrisse una epistola, nella quale sono queste parole di molto soave conforto: “Esci dalla tua tristezza: e pensa che devi vivere per la gloria, e non per questa maladetta canaglia di vivi, e degli avversarii d’ogni bene. Imitiamo gli antichi Cristiani, che si gloriavano nello scandalo della croce. Sono di presente gli studi lo scandalo degl’ignoranti. E noi gloriamoci in questo beatissimo scandalo, che ci frutterà il cibo della mente, che è il primo bene della vita: e la buona fama, che è una seconda vita dopo la morte. Tutte le altre cose sono misere, vili, minori a te: lasciale dunque, o guardale solo per ispregiarle: e ricordati che tu devi molto al tuo nome, e all’onore di questa povera Italia: e che sarebbe gran colpa, se ti rimanessi da’ tuoi studi. Non dar questo trionfo a gente che troppo ne riderebbe: e che la si debbe punire facendola rodere eternamente d’invidia. Chi vivea più travagliato del tuo Alighieri? Componiti a quello specchio: ed usa della tua bile non per morderti la lingua, e tacere, ma per versarne sulle carte quanta puoi, e quanta l'iniquità degli sciocchi il permette.” Così ’l Perticari. Onde Paolo si attenne al consiglio dell’amico, e scrisse poi alcune prose e poesie, in che le parole agguagliano lo sdegno della sua mente: ed è ira queste un sermone contro gl’ipocriti, che a me pare assai bel[p. 10 modifica]lo, e tengo opinione che s’egli avesse voluto mettere più di sovente l’ingegno in questa maniera di poetare, sarebbe gito del pari al Gozzi e agli altri più lodati maestri.

Trapasso alcune altre sue rime, che videro la luce in Firenze del 1830; le quali tutte per la bontà loro troveranno sempre grazia dinanzi a quelli che della poetic’arte hanno intelletto e sentimento. E vengo al suo pregevole libro della elocuzione; ragionato non da meschino retore, sì da filosofo profondissimo; nel quale l’autore s’è messo dentro le ragioni più intime de’ poeti e degli oratori, ed in poche carte ne ha dato precetti utilissimi cavati dall’indole dell’intelletto e del cuore umano: e può dirsi lui avere in questa sua opera i più nobili ingegni degli antichi non solamente pareggiati, ma superati. Le quali lodi come sieno vere lo mostra il pregio in che è tenuto questo suo libro appo i cultori delle buone lettere, e le molte edizioni che se ne sono fatte in parecchie città d’Italia.

Essendo poi ’l Costa intento sempre ai bisogni della sua nazione, e veggendo che le stampe del vocabolario italiano fatte dagli Accademici della Crusca e dall’Alberti e dal Cesari non avevano potuto appagare il desiderio comune, venne in pensiero di farne una ristampa egli stesso: e perchè la compilazione di un vocabolario è opera da molte menti e da molte braccia, tolse a compagno nell’ardua fatica il valente Francesco Cardinali; e senza punto sgomentare mise mano al lavoro, che fu intitolato all’illustre autore della Proposta, Vincenzo Monti. Questa opera, partita in sette volumi, ebbe cominciamento nel giugno del 1819, e fu compiuta nel luglio del 1828; e noi diremo per amore del vero ch’ella riuscì migliore delle precedenti, essendo che assai ammende vi furono fatte sì nelle definizioni e sì ne’ vocaboli, molti de’ quali, specialmente pertinenti alle scienze e alle arti, furono per la prima volta notati: ma è lontana dalla desiderata perfezione, come lo stesso Costa con ingenua schiettezza confessò.

A questi gravi lavori (dilettando anche nelle cose degli studi ’l variare) altri ne interponeva di più ameno argomento, traducendo a gara con quella anima gentilissima del conte Giovanni Marchetti le odi di [p. 11 modifica]Anacreonte. Ventidue sono le odi volgarizzate dal nostro autore con maestria non picciola; e la quarta parve al ch. Salvator Betti incomparabile versione, anzi „la più bella e perfetta cosa che abbiano dettata le grazie italiane a concorrenza di ben tradurre le greche.„ E poichè siamo a dire delle traduzioni di lui, e da aggiugnere ch’egli ebbe recato in politi versi italiani la Batracomiomachía, poema antichissimo, che per la bontà dello stile fu riputato da molti opera di Omero. Tradusse similmente il canto decimo delle Metamorfosi di Ovidio, quasi perchè si vedesse ch’egli avrebbe saputo dare all’Italia una versione pari in bellezza alle lodatissime del Caro, dello Strocchi e del Monti.

Distese in prosa una commedia, il cui subietto è tolto da una novella narrata nel Gil Blas, romanzo celebre del Le Sage, e fu rappresentata nel teatro di Ravenna la notte de’ 24 novembre 1825: nella quale rise la stoltezza di coloro

„ ...... che van di non sua laude alteri,
E il gran nome di loro antica gente
Vantan plebei nell’opre e ne’ pensieri.„2

Compose in egual modo la Properzia de’ Rossi, azione tragica, posta pur essa su le scene ravegnane a’ 25 agosto del 1828. E verseggiò una tragedia, formata alla similitudine del Don Carlo dello Schiller, di quello Schiller, che, a giudicio dello Schlegel, è ’l vero fondatore dell’alemanno teatro.

E continuando le sue fatiche, comentò la divina commedia dell’Alighieri, di cui scrisse pure la vita: e questo suo comento raccoglie tutto che di buono nelle altrui chiose si trova: chiarisce alcuni luoghi, che rimanevano oscuri: è scritto con brevità ed eleganza, nè raffredda l’animo di chi legge con amore il sacro poema. Dettò l’elogio del Perticari, e fece una novella appellata Demetrio di Modone „esemplari (così ’l ch. B. Gamba) di favella culta e immacolata.„ Ma con che degne lodi potrò io ricordare il suo discorso della sintesi e dell’analisi? Avevano di questa materia scritto molto oscuramente gl’ideologi prima di lui, ed egli [p. 12 modifica]seppe ordinare i suoi pensieri, ed esporli con tanta chiarezza, che certo questa aurea scrittura (che anco i francesi3 hanno voluto recare nella loro favella) durerà sempre come testimonio del suo sottile ingegno, e della lucidezza della sua mente nelle cose più astruse della filosofia; e sarà di non piccolo giovamento a coloro che studiano alle scienze astratte. Con queste opere aveva il nostro ravegnano fatto celebre il suo nome dentro l’Italia e fuori, quando giunse l’anno 1831. È noto quali politiche vicende avvenissero in Romagna a questo tempo, e come alcuni fossero mandati in esilio dalle patrie loro. Fu di questi Paolo Costa, il quale nell’età di presso a sessanta anni, ed afflitto dal male della pietra, si partiva d’Italia con infinito dolore; ed imbarcatosi con la donna sua, prese il cammino per la volta di Corfù, dove in pochi giorni approdava. Essendo il suo nome giunto anche in quelle regioni, vi fu accolto da tutti gl’isolani con indicibile allegrezza; ed i più notabili cittadini, anzi i magistrati del luogo, furono alla casa di lui in segno di animo riverente. Ivi prese ad instruire i giovani in quella filosofia, alla quale per assai lungo spazio della sua vita aveva dato opera; e lasciò scritto ch’ei si riputerebbe fortunato se venisse giorno che i discepoli della sua scuola potessero “coll’esempio delle virtù loro far vergognare que’ ciechi, che il male generato dall’ignoranza e dall’errore attribuiscono alla sapienza.” Ed a questa novella [p. 13 modifica]patria, a questa antica madre dell’italico sapere, che di sicuro e lieto ricovero gli fu generosa, lasciò un testimonio durevole del suo tenero affetto, intitolando alla gioventù delle isole ioniche l’ideologia, composta da lui alquanti anni prima del suo sbandimento. Nella quale mostrò l’origine d’ogni sorta d’idee: dichiarò la natura del ragionamento, e fece conoscere qual sia il suo potere, e quale il suo limite: procacciò d’indicare il modo, onde si possono aiutare ed accrescere le forze mentali, sì per lo conoscimento del vero, sì per l’esempio delle arti. E tutta questa dottrina da lui stabilita è della scienza ideologica solido e verace fondamento4.

Nel mentre che questa sua grande opera si veniva stampando, fosse che quell’aria non gli conferisse molto, o ’l sostenuto disagio del navigare avesse accresciuta la sua mala disposizione, infermò; e come potè riaversi alquanto, desiderò di rivedere l’Italia, tenendo a somiglianza dell’Alighieri per incomportabile cosa l’esilio: onde scrisse agli amici, i quali si adoperarono in modo, che gli ottennero il ritorno. Quando seppero i corfioti ch’ei si partiva, molto se ne dolsero: lo ricercarono che gli piacesse di rimanere con esso loro, ed a ritenerlo gli offerirono onori e cattedre con la provvisione annuale di settecentoventi scudi. Egli mise innanzi a tutto la sanità sua, e piuttosto convalescente che sano, montato in nave, salpò. A’ 24 maggio del 1832 era in Ancona; e di qui scrisse alla madre ch’ei tornava per riposarsi alla sua villa (che aveva in luogo ameno, detto il Cipresso, non molto lungi da Bologna) ed ivi attendere con pace agli studi sino alla morte. In altra [p. 14 modifica]lettera de’ 17 giugno, inviata alla sorella, sono queste parole: “Il mio esilio è stato un vero trionfo, poichè, come dissi a nostra madre, sono stato onorato da tutta la Grecia in modo particolare.....5. Io ne ringrazio Iddio che ha voluto premiare la purità delle mie intenzioni, e le fatiche che ho durate negli studi. Ora mi sono messo in riposo, e penso soltanto a ricuperare la sanità, e le mie cure non sono inutili, perciòcchè..... l’appetito è ritornato, e coll’appetito le solite forze e il buon colore del volto, che era sparuto e magro. Questi cibi, quest’aria, la vista lieta di questi colli, la compagnia degli antichi amici hanno operato ciò che non poterono le medicine; e anche di questo ne ringrazio Iddio.”

Quando nel suo campestre ritiro, e quando nella città conduceva Paolo i suoi ultimi anni; e perchè quel suo ingegno, nè per la età nè pel malore che ’l cruciava di continuo, non erasi punto indebolito; anzi pareva pigliar forza e vigore; compose parecchi opuscoli, che tutti vennero in fama. Scrisse del mesmerismo, e l’ebbe per una vanissima superstizione. De’ moderni classici e romantici le buone e male qualità dimostrò. Ne’ colloquii con Aristarco confutò una opinione dell’ab. La Mennais; ed intorno a questa operetta così leggesi in una sua lettera al march. Antonio Cavalli, concittadino ed amico suo dolcissimo: “Io non scrivo per adulare alcuno: scrivo per la verità. Dica il mondo quello che vuole: la mia coscienza è pura, e le mie ragioni sono di tal peso, che saranno, quando che sia [p. 15 modifica]per essere, conosciute.” Combattè alcuni principii sovra i quali sono fondate le teoriche dell’Hume, del Reid, del Kant e di altri filosofi. Fece un’appendice alla ideologia, nella quale disse contro la sentenza dell’ab. Rosmini, che aveva tolto a screditare le dottrine del Locke e del Condillac, ed a recare a nuova vita il sistema delle idee innate6. Per voler esser breve taccio le lettere al Ranalli al Biondi, al Rusconi; ma non posso passare sotto silenzio l’epistola a Cesare Mattei, nè i quattro sermoni sovra l’arte poetica dedicati a Giordano de’ Bianchi marchese di Montrone; nelle quali poesie è vivezza d’immagini, verità di precetti, leggiadria di stile, armonia maravigliosa.

In questo mezzo Pietro Fiaccadori tipografo aveva preso a stampare in Parma le opere tutte del nostro autore, da lui stesso emendate; e n’erano già usciti tre volumi contenenti le cose di filosofia, allorchè ’l mal suo inveterato non gli lasciando più pace, ed avendogli presso che consumate le forze, si mise in letto, dove assalito da punture atrocissime statuì di farsi cavare la pietra, e finir quel dolore o la vita. Il dì 20 decembre del 1836 scrisse dal letto una lettera alla sorella, nella [p. 16 modifica]quale dice della sua deliberazione; e ch’ei s’è acconcio dell’anima, e messo totalmente nella clemenza di Dio; ed infine soggiunge: „o ci vedremo presto nel material corpo in Ravenna, o in ispirito in Paradiso." Il dimani, verso le dieci ore del mattino, venuto il chirurgo, non diè Paolo alcun segno di turbamento, così che quelli che in lui conobbero sempre una certa natura timida e paurosa, forte maravigliarono. E mentre il ferro entrava nelle carni, non disse una parola, non mise un lamento, non gittò un sospiro; ma la ferita fu così acerba, che ’l fe cadere in deliquio. Soccorso, tosto si riebbe: domandò più volte e volle vedere la pietra, ch’era di straordinario volume.

Tutti furono presi da grande allegrezza che ’l taglio fosse stato così felice: ma ohimè ch’ella tornò subito in pianto! Un mortifero sopore si diffondeva in quel corpo caduco e sfinito, nè giovavano più gli aiuti nè i ristori dell’arte salutare. Insin ch’egli non perdette il conoscere, porgeva conforto a’ congiunti agli amici a’ discepoli, che stavano taciti e mesti intorno al suo letto. Li pregava: tenessero memoria di lui non dolorosa, ma lieta: avessero in pregio le più sante fra le cristiane virtù. Così diceva, quando ad un tratto gli venne manco la voce, e parve rapito nelle sue profonde speculazioni. Il dotto padre Venturini, che l’amico suo non aveva abbandonato mai, rinforzò la parola, raccomandandogli lo spirito al Signore chè l’accogliesse nella sua pace. Suonava l’ora undecima della notte, ed egli era già entrato nella eternità. Allora si levò un pianto per tutta la casa: la moglie di lui in tanto dolore, in tanta afflizione, in tante lagrime rimase, che forse non sarà mai più consolata. Il suo corpo fu con modestissima pompa condotto alle esequie, e traportato al pubblico cimitero, dove ebbe riposo.

Tale si fu la vita di Paolo Costa, sostenitore delle lettere e degli studi italiani, maestro sommo della razionale filosofia. La natura lo aveva dotato di forte e facondo ingegno; lo studio gli diede la dottrina; l’osservazione de’ buoni autori ’l giudicio, l’esercizio lo stile. Fino alle estreme giornate della sua vita e con le parole e con gli scritti si adoperò di mettere nel cuore degli uomini l’amore della sapienza, l’odio dell’errore; [p. 17 modifica]ed in piccioli volumi diede all’Italia grandi e pregevoli cose. Teneva essere ufficio principalissimo del filosofo cercare il vero, purgare i costumi, indirizzare le volontà umane al vivere onesto e pacifico. Fu da alcuni incolpato di essere nemico del buon nome italiano, e di tarpar l’ali al genio, cioè agl’ingegni, per aver lui voluto addimostrare che la ragione umana è prescritta fra certi confini. Questa cosa gli cagionò affanno e travaglio grandissimo; se non che la speranza di far giovamento all’universale gli era di molto conforto nelle sue tabulazioni, e sclamava sovente: verrà tempo che ’l vero sarà manifesto, e si dirà ch’io ebbi combattuto l’errore.

Le grandi qualità di quest’uomo furono accompagnate da alcun difetto: non era forte abbastanza da mantenersi sempre quello in tutti gli avvenimenti: ne’ domestici ragionari sentenziava alle volte inconsideratamente, e provocato a disdegno usciva in troppo acerbe parole. Con tutto questo però la sua mente fu sempre lontana da invidia, da odio, da ogni malvagio desiderio. Fu ascritto nell’accademia della Crusca e nella Palermitana di scienze e belle lettere; e chiesto a professore da città precipue della Grecia e dell’Italia. Ebbe bel numero di onoratissimi amici: sovra gli altri portò singolare affezione al Perticari, al Marchetti, al Borghesi, al Niccolini, al Cassi, al Palagi, al Farini, all’Angelelli, al Cavalli, al Tanari, al Cappi, al Valorani, ed a que’ lumi delle romane lettere Betti, Biondi, Odescalchi, Muzzarelli. Fu di giusta statura, di membra robuste e nervose, di volto non bello, ma avente un che di ragguardevole, come può vedersi nella effigie che ci è rimasta di lui7. Le sue lodi sono state raccolte da Ferdinando Ranalli8 in un elogio breve schietto elegante, il quale assai meglio che queste mie umili e [p. 18 modifica]disadorne parole farà vie più chiaro il suo nome nella lunghezza del tempo avvenire.


[p. - modifica]




Forolivii 14. Martii 1840.
IMPRIMATUR
Fr. ALOSIUS T. FERRARINI Ord. Praed.
Vic. S. Off.



Forolivii 16. Martii 1840.
IMPRIMATUR
MARIANUS VENTURI
Vic. Generalis.


Note

  1. Verso del ch. cav. B. Borghesi. Vedi le parole che vanno innanzi alla bellissima Tragedia Francesca da Rimino, scritta dal celebre romagnuolo conte Eduardo Fabbri.
  2. Versi dello stesso Costa. Vedi le sue Poesie stampate in Firenze del Cardinali nel 1830, a car. 99.
  3. Il traduttore francese di questa preziosa operetta del Costa è stato Mr. Alary Maître d’Ètude au Collège de Moulins, dottissimo uomo, il quale ha in grande stima il filosofo ravegnano, secondo che si raccoglie da queste sue parole: “Paul Costa est un des écrivains les plus distingués de l’Italie moderne. Professeur habile, et plein de goût; poëte élégant et harmonieux: voilà les titres qui le recommandent aux amis des lettres. - Le discours sur la Syntbése et l’analyse, sujet si souvent traité par les philosophes, et sur lequel on est pourtant si peu d’accord, se distingue, à mon avis, par cette clarté, et cette précision de style, cette solidité de raisonnement si nécessaires dans toute discussion philosophique. On voit que l’auteur a approfondi son sujet pour le pouvoir traiter en maître. Il est possible que sa manière de voir n’ait pas l’approbation de tous ceux qui s’occupent de matières philosophiques; c’est tout naturel; il combat des Systèmes qui ont et qui auront longtems encore des nombreux partisans; mais avant de juger il faut entendre, et pour cela se depouiller de toute opinion faite d’avance.” Vedi la terza pregevolissima edizione dell’opera del Costa Del modo di comporre le idee, ec. fatta in Firenze per Ricordi e Compagno nel 1837; a car. 4. 5.
  4. Il ch. prof. Giuseppe Caleffi nel suo bel Discorso storico-critico sulle vicende della Filosofia, ec. stampato in Firenze nell’1837, così ragiona a cart. 67. 68. della Ideologia del Costa. “Il libro che senza pertinacia di sistema e senza entusiasmo di singolarità, ma per solo desiderio di essere utile alla gioventù, pubblicò questo illustre ideologo intorno al Metodo di bene comporre le idee, di bene scomporle, e di significarle con vocaboli di preciso valore, ec., è particolarmente destinato a preservare gli studiosi dagli errori ne’ quali caddero i filosofi del secolo andato per non aver bene osservati i fatti, e secondo l’ordine loro composte le idee, e a far evitare quelli ne’ quali cadono i moderni, che volendo colla sola forza della ragione travalicare il confine posto dal Creatore all’umano intendimento, si sforzano, per dirlo con le espressioni medesime dell’autore, di ricondurre gli uomini pel regno delle chimere.”
  5. Intorno le onorevoli accoglienze fatte dai greci al nostro Costa mi piace di recare qui anche un brano della lettera ch’egli scrisse al suo illustre amico, il march. Luigi Biondi, a’ 23 giugno del 1832. “Durante la mia dimora in Corfù stimai cosa prudente l’astenermi dallo scrivere a voi ed agli altri amici di Roma; ma mi pensai che la contessa Sampieri vi avesse data notizia di me. Che se ciò fosse avvenuto, non sareste stato in pena per me: perciocchè avreste saputo con quanta ospitalità, con quanta cortesia io sia stato accolto dagl’Inglesi e dai Corciresi, e dagli altri isolani di Cefalonia e del Zante, che mi proferivano larghi premi per avermi professore nei loro licei. Probabilmente sarei rimaso in Corfù, dove il governo mi aveva proferta la cattedra di filosofia: ma una infermità, che da sei mesi mi affliggeva, mi costrinse a rivolgere le vele alla nostra Italia, dove appena giunto mi sono sentito a rinascere.... In Corfù ho stampata la mia opera ideologica col favore di quel governo, che ha pagato un terzo della spesa. ec.”
  6. Un certo sig. V. T. non si è vergognato di asserire che il “nuovo ideologo (il Costa) fece una ritrattazione della sua dottrina materialistica ed arretrata d’un secolo, appena il Rosmini gliene mostrò l’assurdo ed il vano.” A questa temeraria ed ingiusta accusa ha fatto convenevole risposta il prof. Caleffi nel citato suo Discorso a car. 74. 75., e non sarà forse discaro a chi legge ch’io riferisca qui le sue stesse parole. “Quanto poi alla supposta ritrattazione che si pretende aver fatta delle proprie dottrine, appena il Rosmini gliene mostrò l’assurdo ed il vano, basterà l’avvertire, giovani amici, che il prof. Costa era per le lunghe e gravi fatiche durate nello studio dell’uomo troppo convinto della solidità de’ suoi principii per non lasciarsi imporre dall’autorità di uno scrittore, d’altronde di molto merito, il quale vorrebbe aborriti e proscritti Locke, Condillac e tutta la sua scuola per sostituire ad essi nel pubblico ammaestramento la vecchia filosofia scolastica, il misticismo esaltato, e un illimitato teocratismo. E a comprovare maggiormente l’assurdo di tale pretesa vi concorre eziandio un incontrastabile fatto, e questo si è che oltre le correzioni, le note e le aggiunte colle quali decorò il Costa la seconda edizione della sua opera, all’oggetto di accrescere luce e vigore alle sue dottrine, egli collo stesso intendimento pochi dì innanzi che il termine toccasse della sua nobile carriera altre ne somministrò al sig. Ricordi, il quale lodevolmente conciliando le sue tipografiche speculazioni con quanto può tornare ad utile e ad onore d’Italia, ne intraprese e compi di recente in Firenze la terza edizione ec.”
  7. Qui si parla della effigie del Costa fatta in litografia a Bologna nel 1837, dalla quale è stato delineato il ritratto posto innanzi a questa biografia.
  8. Mi gode l’animo di poter qui aggiugnere, essere venuti in luce, dopo l’Elogio del Ranalli e questa mia Biografia, altri scritti che hanno saputo raccogliere molto bene le lodi del Costa: ricordo solo i Cenni intorno la vita e le opere del nostro autore stampate in Bologna, e gli Elogi composti dal prof. G. Fr. Rambelli e dall’ab. Fruttuoso Becchi e dal prof. G. I. Montanari. Anche l’amico mio prof. Domenico Vaccolini bagnacavallese ha onorato la memoria di Paolo con un suo Discorso recitato nell’Accademia Tiberina a’ 19. giugno del 1837, e pubblicato nel Giornale Arcadico.