Brani di vita/Libro primo/Il ritorno

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Il ritorno (all'esposizione)

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Libro primo - La Guida della Unione Velocipedistica Italiana Libro primo - Ottobre


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IL RITORNO

(ALL’ESPOSIZIONE)


Lasciamo in santa pace i letterati e la letteratura, che sarà meglio per tutti, e parliamo d’altro.

Ha mai provato Ella le sorprese e le disillusioni che si provano tornando in una città dopo una lunga assenza? I famosi sette dormienti, quelli che si destarono dopo cento anni di sonno, dovettero provare un effetto consimile rivedendo il mondo. Erano morti parecchi imperatori, le città avevano cambiato aspetto, non correvano più le monete di prima, la lingua stessa aveva subìto qualche modificazione. S’immagini un po’ se i poveri dormienti saranno rimasti a bocca aperta!

Io era partito da Torino con la capitale, e ci sono tornato senza la capitale, s’intende. M’è proprio capitato un risveglio come quello dei sette dormienti! Mi pare che siano passati cento anni di progresso sopra questa città carissima, dove per tanto tempo ho studiato poco e dove per la prima volta ho conosciuto i veglioni e le loro conseguenze. Sono [p. 152 modifica]partito quando Massimo d’Azeglio appassionava i buoni torinesi co’ suoi discorsi in Senato intorno al trasporto della capitale, e in ferrovia da Torino ad Alessandria non si parlò d’altro. Ieri, appena fuori dalla stazione, mi son trovato in faccia il monumento del cavaliere sans reproche. Quanto tempo è passato! Quanti monumenti invece degli uomini!

Dopo un giro a piedi, mi sono accorto che il mio Torino d’una volta me l’hanno cambiato tutto. I nomi delle insegne che m’erano rimasti nella memoria, non ci sono più. Sapevo che in quell’angolo doveva esserci un tabaccaio e c’è una modista. I tramways hanno sostituito gli omnibus, quei curiosi omnibus monumentali, dipinti di turchino, dove salivo con tanta disinvoltura e dove oggi non potrei salire che con precauzione, poichè ho cambiato un poco anch’io e non sono più magro e svelto come una volta. Dove sono i barbieri che facevano la barba per un soldo in piazza Castello, e l’orbo dalle canzonette, e la guardia nazionale, e lei? Anche lei se n’è andata chi sa dove! Ho alzato la testa passando sotto la sua finestra (abitudine antica), e in vece sua ho visto un portapanni con un vestito completo di signora in dosso e la barbara scritta: mode e confezioni. I sette dormienti devono aver provato di queste disillusioni.

Oh, i presagi tristi per l’avvenire di Torino che si facevano al tempo del trasporto della capitale! E li facevano i torinesi stessi, che per un momento perdettero la fiducia in sè medesimi. Pare invece che il perder la capitale sia stata una fortuna. Almeno [p. 153 modifica]questa ricchezza, questa operosità non sono artificiali, non sono dipendenti da uno stato di cose e da tutta una clientela variabili e mal fidi. Le capitali vogliono una ostentazione di lusso improduttivo che non è ricchezza, ma simulacro di opulenza, spreco di capitali, fumo senza arrosto: e Firenze informi. Torino invece, perdendo la capitale, s’è messo a cercare il lavoro produttivo, s’è dato al serio e, invece di perdere, ha guadagnato. Non sono i fiorentini che tengono del monte e del macigno, sono questi torinesi che non si sono lasciati scuotere da un temporale, forti proprio come il granito dei loro monti. Non solo, ma quando la capitale era qui, i letterati erano una colonia di forastieri. Li avevano tanto chiamati beoti questi poveri piemontesi, che avevano quasi finito col crederlo e non osavano di far sentire la loro voce nel concerto dei dotti e dei poeti qui convenuti da ogni parte d’Italia. Rimasti soli, si sono provati anche nell’arte, e ci si sono provati tanto bene che stanno più che al pari del resto. Questa loro forza i piemontesi non la conoscevano. Altro che beoti.... Bisogna far loro di cappello!

Lasciando stare le lettere, un popolo di beoti non produce tutte quelle opere d’arte che fanno onore al Piemonte nella Esposizione Nazionale. Certo ai piemontesi, si può dire ultimi arrivati in questo campo dove quasi temevano di scendere, non sono toccati gl’inni e le apoteosi; ma hanno mostrato di saper stare al pari degli altri anche qui, appunto nelle arti, che un pregiudizio sciocco faceva ritenere più ribelli alla loro indole. Benedetti piemontesi, sono [p. 154 modifica]davvero destinati a distruggere i pregiudizi e, se qualche imbecille ripetesse le antiche ingiurie, sono capaci di rispondere che anche Pindaro era beota!

Sono ritornato in questa città della giovinezza mia e l’ho trovata ringiovanita, appunto come io ho fatto il contrario. Ai miei tempi si vedevano tanti vecchi vestiti all’antica, coi capelli bianchi e il naso rosso; si vedevano tante donne con la cintura sotto le spalle e il busto senza forma umana. Ora i vecchi se ne sono andati, e i busti ben fatti costano due lire in tutte le botteghe. Non c’è più nulla che ricordi quella peritanza, quella gaucherie dei popolani e dei borghesi un po’ sbalorditi da tanta gente che pioveva qui con costumi e dialetti diversi. Le merciaie sotto i portici del Palazzo di Città non intendevano l’italiano e così un pochino se ne vergognavano e brontolavano intimidite. Ora parlano l’italiano con una lingua tanto spedita da stordire una merciaia di Mercato Nuovo, la timidezza è scappata e corre ancora, e tocca a noi vergognarci quando non c’intendiamo bene. Tutto insomma mi par che vada meglio, tutto, persino.... non so se lo debbo dire, persino le crestaie mi paiono più belle e meglio fatte di quelle che usavano a miei tempi. Che cosa c’è da ridere? Che bel gusto pensar subito a male ed a malizia! Non potrebbero aver fatto fortuna qui i sistemi della evoluzione, della selezione e che so io, ed esser migliorate le razze? Perchè devono essere i miei occhi che vedano tutto in meglio, anche le crestaine che salgono in tramway? Quanta malizia, Dio mio, quanta malizia c’è al mondo! [p. 155 modifica]

Giù poi per andare all’Esposizione c’è proprio un mondo nuovo, c’è il quartier gaio, vario, a giardinetti ed a terrazze, che mancava a Torino. Mi ricordo delle profonde malinconie che mi assalivano in ottobre al cominciare delle scuole, girando la domenica nei viali lunghi e monotoni della vecchia piazza d’armi. Le carrozze sfilavano in silenzio sotto agli ippocastani; due file di gente andavano e venivano seriamente come a processione. Di quando in quando le livree reali mettevano una nota rossa e allegra in tutto quel grigio, in tutta quella compostezza fredda dell’aria, delle linee, delle fisonomie. I primi venti gelidi che venivano dalle Alpi e attraversavano l’immensa e squallida spianata, mi davano i brividi, mi facevano pensare con doloroso desiderio al mio paese dove c’era meno freddo e meno serietà. In quelle noiose domeniche mi pareva veramente d’essere esiliato, e sentivo la solitudine, sentivo lo sconforto profondo dell’esser lontano da tutti quelli che mi volevano bene. Ora tutto è cambiato e, sullo stesso luogo delle malinconie, ho visto la gaiezza, alle volte troppo chiassosa, delle casine variopinte, dei boschetti fioriti e delle vie bizzarramente costruite. Qui non mi sarebbe sembrato d’essere in esilio e il vento delle Alpi deve esser meno freddo per coloro che passeggiano per le stesse vie tanti anni dopo di me. Non sono io che vegga con occhi mutati, è proprio Torino che ha fatto la pelle nuova e più allegra fisonomia. Strano! Con la capitale se n’è andata anche la noia.

Eppure Torino non ha rinunciato ad essere una [p. 156 modifica]delle città più serie, la più pratica forse delle città italiane. Per accorgersene, basta dare un’occhiata all’esposizione d’arte applicata all’industria, che poteva riuscir meglio, ma che così com’è mostra abbastanza quello che io Le volevo far vedere, cioè appunto la serietà pratica di quei bravi piemontesi. Quando s’è vista l’Esposizione di pittura e quella di scoltura, per la prima volta, si rimane intontiti per la continua tensione del cervello, abbarbagliati dalla forzata fissità degli occhi; e nella testa gonfia come un pallone si confondono in un trescone vertiginoso papi dalla barba bianca, odalische senza sottana, soldati a cavallo, navi a vele spiegate, i turchini del Michetti, il bianco delle statue. Tutti quei sempiterni bimbi che fanno rassomigliare la sala di scoltura ad un asilo infantile, non arrivano a riposare il disgraziato che vuol veder tutto in una volta, e ci sono dei momenti nei quali sembra di aver nel cranio la fontana centrale che salti, che spumi, che imperversi senza posa e senza fine. Arrivati a questo parossismo di stordimento nervoso, si passa davanti alle sale dell’arte applicata all’industria, senza entrare, o al più si mette la testa dentro per scarico di coscienza e si rimanda la visita ad un altro giorno che non viene mai. Così fa la gran maggioranza dei visitatori e, come quasi tutte le maggioranze, fa malissimo.

Vedrebbe infatti che, mentre dalle altre provincie italiane, specialmente da Venezia, sono venuti alla Esposizione lavori di puro lusso, dal Piemonte sono venute per lo più opere di uso pratico. Quel diavolo [p. 157 modifica]e quella diavolessa di legno intagliato per spaventare i bimbi, quei vasi ricchissimi di vetro, di porcellana e di maiolica, quei bassorilievi in legno o in porcellana, e i bronzi e le statue e i candelieri monumentali, sono bei lavori senza dubbio, ma non sono che lavori di ornamento. I piemontesi invece hanno esposto mobili, cancelli di ferro lavorato, porte, pavimenti, libri ed altri oggetti di uso vero e quotidiano e che rispondono veramente al concetto dell’arte applicata all’industria. Questo volevo notare, per farle vedere come il carattere di un popolo, di una provincia, di una città, salti fuori in tutto, lasci in tutto la sua impronta, anche nelle piccole cose. Dica ad un torinese e ad un fiorentino che espongano, mettiamo, un tavolino alla futura Esposizione di Milano. Il fiorentino le farà un lavoro squisito d’intagli e d’intarsi, qualche cosa di bello, di degno della eleganza toscana. Il primo pensiero del torinese sarà invece di farle un tavolino, comodo, magari che si scomponga e possa servire da sedia, da letto, da stipo, insomma un mobile a molti usi. Uno cerca il bello e l’altro l’utile. Uno segue Platone, l’altro Bentham. Uno emulerà gli ateniesi, l’altro gli inglesi; e questi caratteri così diversi, così opposti, sono tutti qui sotto uno stesso cielo, quasi sulla stessa terra, poichè da Torino si va a Pisa in otto ore. Questa nostra Italia è proprio la terra delle maraviglie.

E infatti, anche il fisico delle due ex-capitali mi ha sempre colpito. A Firenze si trovano le case eleganti col giardino fiorito ed ogni cosa abbellita dal[p. 158 modifica]l’arte, fino i martelli delle porte. A Torino le case immense, altissime, severe, sembrano tante caserme. Firenze, è vero, prese qualche cosa da Torino, e Torino ha preso molto da Firenze nelle nuove costruzioni di Piazza d’Armi, ma l’intonazione però rimane sempre quella: anzi non c’è che l’intonazione che non mi abbia dolorosamente colpito col suo cambiamento, Non ci mancherebbe altro che mi avessero cambiato il mio Torino fino a questo segno.

Ah, Torino della mia gioventù, dove sei andato? Oggi sono stato nel collegio dove passai alcuni anni. Il collegio è sempre quello, ed ho riconosciuto il posto che occupavo a tavola, nel dormitorio, nello studio. Mi sono ricordato di tutto, anche delle persone; ma quando ho interrogato la mia guida, mi pareva di esser Renzo che torna dopo la peste. Il tale? Morto. Il tal altro? Morto. Il rettore? Morto. Il cameriere? Morto....

Sono uscito di là pieno di tristi pensieri. Quanti morti, mio Dio! A un certo punto di via Doragrossa (allora si chiamava cosí) ho guardato ad una finestra chiusa, ad una finestra che m’ha visto alzare la testa tante volte. Quanti morti! Quanti morti! E lei, dove sarà?