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Piccolo Comento al Canto V del Purgatorio

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Piccolo Comento al Canto V del Purgatorio
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PICCOLO COMENTO

AL CANTO V DEL PURGATORIO


Il Poeta, lasciato il luogo dove purgano le peccata loro i negligenti e i pigri cheindugiarono a pentirsi fino all’ultima ora, lasciato l’accidioso Belacqua che oggi si manderebbe al Manicomio e non al Purgatorio, come demente abulico e degenerato, seguita a salire l’antipurgatorio e incontra le ombre di coloro che, sorpresi da morte violenta, poterono, prima di spirare, pentirsi perdonando. Le ombre si maravigliano che il Poeta non sia permeabile ai raggi, rotti, come apparivano, dal corpo suo.

Io era già da quell’ombre partito
     E seguitava l’orme del mio Duca,
     Quando, diretro a me, drizzando il dito,
Una gridò: Ve’, che non par che luca
     Lo raggio da sinistra a quel disotto
     E come vivo par che si conduca.
Gli occhi rivolsi al suon di questo motto
     E vidile guardai per maraviglia
     Pur me, pur me e ’l lume ch’era rotto.


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Le ombre si maravigliavano dunque solo della saldezza corporea del Poeta. I raggi attraversavano dunque Virgilio che non era cosa salda ed altrove Chirone si maraviglia che il Poeta movesse ciò che toccava

così non soglion fare i piè dei morti


ma non dice così di Virgilio. Questo dunque era ombra vana fuor che nell’aspetto, ombra non uomo certo, ed altri esempi se ne potrebbero addurre. O come va dunque che nel decimosettimo dell’Inferno, sulla groppa di Gerione, Virgilio sostiene Dante perchè non cada?

Con le braccia mi avvinse e mi sostenne.


E ancora, sapete che il Poeta più indietro tentò inutilmente di abbracciare l’ombra di Casella.

O ombre vane fuor che nell’aspetto!
     Tre volte dietro a lei le mani avvinsi
     E tante mi tornai con esse al petto.


Virgilio dice più innanzi a Stazio

               .... tu se’ ombra ed ombra vedi.


E Stazio si scusa d’aver scordato

                                             .... nostra vanitate,
Trattando l’ombre come cosa salda.


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O come dunque nel decimoquinto dell’Inferno Brunetto Latini prende il Poeta pel lembo del vestito:

Fui conosciuto da un che mi prese
Per lo lembo...


O come mai, nel trentesimosecondo dell’Inferno, Dante afferra Bocca degli Abati

Allor lo presi per la cuticagna
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
Io avea già i capelli in mano avvolti —?


Insomma queste ombre che sono ora tangibili ed ora no, che cosa sono veramente?

Una ingegnosa ipotesi vorrebbe che le anime dotate di una tal quale saldezza nell’Inferno, di mano in mano che il Poeta sale, si volatilizzino e diventino progressivamente più diafane ed impalpabili. Ma a ciò contrasta quel che dice lo stesso Poeta, proprio al principio dell’inferno,


Noi passavam su per l’ombre che adona
La greve pioggia e ponevam le piante
sopra lor vanità che par persona:


e si noti la corrispondenza persino verbale di questa vanità dell’Inferno colle ombre vane del Purgatorio.

Come si concilia dunque la palmare contraddizione di questi due concetti sulla essenza vera delle ombre? [p. 180 modifica]

Io direi che non si concilia perchè altro è il poema scaturito dalla fantasia libera, altro il trattato di calcolo in cui debbono essere esatte anche le frazioni infinitesime. L’Ariosto fa morire alcuni personaggi che tornano in scena pochi canti dopo. In quel glorioso poema di bronzo che sono le porte del bel San Giovanni, troverete nella stessa formella gli stessi personaggi rappresentati in episodi, in casi diversi, senza alcuna cura di cronologia o di verisimiglianza. Certo che nella mente di questi maravigliosi artisti era già tracciato il piano, l’architettura dell’opera, ma volerla misurare, come fecero troppi comentatori per la Comedia, voler calcolare palmo per palmo, centimetro per centimetro, la lunghezza di un girone o la superficie d’una bolgia, mi pare, a dir poco, esagerazione. In un quadro così enorme, il pittore trascura le minuzie. Michelangelo, nel Giudizio, non cura i particolari, non rende i peli e le rughe come un pittore olandese, come il Meissonnier, come la fotografia, e così Dante può bene aver fatto le ombre ora più, ora meno salde, come gli talentava, come gli giovava meglio per l’effetto che voleva ottenere, e quando noi gliene chiediamo conto, come se la Comedia fosse un libro mastro in cui debbono essere giustificati sino i centesimi, mostriamo forse più scioperataggine che saviezza.

Comunque sia di tutto questo, il Poeta che, viaggiatore curioso ed intelligente, si fermava o rallentava il passo per vedere o per ascoltare, è rimbrottato secondo il solito dal Maestro, il quale voleva far presto a compiere la sua missione: [p. 181 modifica]

Perchè l’animo tuo tanto s’impiglia,
     Disse il Maestro, che l’andare allenti?
     Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro me e lascia dir le genti:
     Sta come torre ferma che non crolla
     Giammai la cima per soffiar de’ venti.
Che sempre l’uomo, in cui pensier rampolla
     Sovra pensier, da sè dilunga il segno
     Perchè la foga l’un dell’altro insolla


cioè debilita.

E non è da notare qui altro che alcuni comentatori, Benvenuto da Imola per es., attribuiscono a questo passo un senso recondito di allegoria morale, poichè Virgilio redarguirebbe qui Dante di vanità e lo inciterebbe a maggior modestia, il che mi par troppo voler cercare sensi riposti dove facilmente non ce ne sono. Il terzetto della torre che non crolla è diventato oramai uno di quei luoghi comuni per indicare la fortezza e la costanza, che non occorre insisterci, se non per ricordare che le alte torri, percosse da un vento forte, trepidano, oscillano e crollano il capo in modo misurabile e misurato dagli strumenti. Ma questo al tempo di Dante non si sapeva.

E il poeta, docile all’ammonimento del Maestro segue:

Che poteva io più dir se non — I’ vegno?
     Dissilo, alquanto del color cosperso
     Che fa l’uom di perdon talvolta degno.


Ed ecco [p. 182 modifica]

Intanto per la costa di traverso
     Venivan genti innanzi a poco a poco
     Cantando Miserere a verso a verso.


Miserere! Questa parola e questa idea pervadono tutto il Purgatorio. Benchè il concetto di un luogo di attesa dove si scontino le pene dei peccati seguiti da pentimento sia nato tardi nel cattolicismo, poichè S. Agostino e molti dei primi Padri non ne parlano, pure Dante l’accettò dalla comune credenza del suo tempo, secondo la quale, il riscatto delle pene provvisorie poteva ottenersi per preghiere o per offerte e l’abuso di queste condusse in gran parte al grande scisma di Lutero. Così le anime vanno pregando e si raccomandano al vivo viaggiatore perchè rinfreschi nella memoria dei congiunti le preci espiatorie delle quali le donne specialmente pare avessero poca cura, e così Manfredi si raccomanda a Costanza e più avanti Buonconte si duole di Giovanna.

Di qui il desiderio nelle ombre penanti di farsi conoscere come accade di rado nell’inferno, e da questa credenza che qui per quei di là molto s’avanza viene forse il pietoso raccomandarsi della Pia: Ricorditi di me.

Ma le ombre

Quando s’accorser ch’io non dava loco
     Per lo mio corpo al trapassar dei raggi,
     Mutar lo canto in un O lungo e roco.
E duo di loro in forma di messaggi
     Corsero incontra noi a dimandarne:
     Di vostra condicion fatene saggi.


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E qui Virgilio, dimenticata la severità di prima e il rimprovero: Che ti fa ciò che quivi si pispiglia? quasi superbo di esporre un miracolo alle turbe accorrenti, risponde:

E ’l mio Maestro: Voi potete andarne
     E ritrarre a color che vi mandaro
     Che ’l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la sua ombra ristaro,
     Com’io avviso, assai è lor risposto:
     Facciangli onore ed esser può lor caro.


può cioè esser di piacere e di utile a loro, perchè, tornato al mondo, ricorderà ai parenti i suffragi che le anime attendono.

E i messaggeri partono sollecitamente.

Vapori accesi non vid’io sì tosto
     Di prima notte mai fender sereno
     Nè sol calando nuvole d’agosto.
Che color non tornasser suso in meno,
     E giunti là, con gli altri, a noi dier volta
     Come schiera che corre senza freno.


Questo terzetto dei vapori accesi, veramente un po’ intricato, tormentò molto gli interpreti. Come si interpunge? Deve leggersi: Nè sol — calando nuvole d’agosto... o: Nè — sol calando — nuvole d’agosto? — L’indice della rapidità è dato nell’ultimo verso sempre dai vapori accesi, che sono le stelle cadenti, o dai raggi del tramonto che fendono le nubi? Si volle anche correggere il testo e leggere solcar lampo o solca lampo in luogo di sol calando, si volle leggere al [p. 184 modifica]suol calando, ma i copisti hanno già troppi peccati da purgare senza gravarli anche di questi.

Non è qui luogo da sottili disquisizioni. A noi basti che, se la lezione è intricata, il senso, quel che più importa, è chiarissimo, ed è che i messaggeri tornarono ai loro con una rapidità così fulminea, con una istantaneità così maravigliosa, che il Poeta se ne sorprese.

Virgilio quindi, rabbonito, concede a Dante di ascoltare le anime, ma senza fermarsi.

Questa gente, che preme a noi, è molta
     E vengonti a pregar, disse il Poeta,
     Però pur va ed in andando ascolta.


Parlano le ombre:

O anima che vai per esser lieta
     Con quelle membra con le quai nascesti;
     Venian gridando, un poco il passo queta.
Guarda se alcun di noi unqua vedesti,
     Sì che di lui di là novelle porti.
     Deh, perchè vai: Deh, perchè non t’arresti?
Noi fummo tutti già per forza morti
     E peccatori infino all’ultim’ora:
     Quivi lume del ciel ne fece accorti
Sì che pentendo e perdonando, fuora
     Di vita uscimmo a Dio pacificati
     Che del desio di sè veder, ne accora.


ci affligge cioè col desiderio vano di poterlo vedere.

E in questi versi è esattamente stabilito tutto quel che riguarda questi penitenti. Prima che siano [p. 185 modifica]stati uccisi — per forza morti — poi che abbiano avuto il tempo di pentirsi e perdonare nell'ultim’ora; ed occorre ritenere bene in mente queste due condizioni.

E Dante segue:

.... Perchè ne’ vostri visi guati
Non riconosco alcun....


Eppure Jacopo del Cassero e Buonconte da Montefeltro avevano avuto parte, di qua e di là, nella guerra aretina cui Dante assistette

Corridor vidi (notate vidi) per la terra vostra
o Aretini....


e se è controverso che fosse a Campaldino, come afferma Leonardo Aretino, vide certo, e lo dice lui, quelle scorribande e quelle gualdane, che erano vere e proprie razzie, come ora si fanno dagli eserciti della Kultur.

E poi la controversia della presenza di Dante a Campaldino non può essere risoluta se non si trovano documenti nuovi, il che è difficile. Il compianto Bartoli negava, perchè Dante non dice nulla di un fatto che pure doveva avere per lui così grande importanza; e l’illustre del Lungo rispondeva “a quante altre cose fu che non disse!” Infatti l’argomento ex silentio è fallace. Vedete: il Bassermann, non minimo dantista, nega che Dante abbia mai salito la Falterona, od almeno ne dubita, perchè nella Comedia non è detto. Sicuro! Nella Comedia non è detto, ma è [p. 186 modifica]detto nel Convivio. “Veramente io vidi lo luogo nelle coste di un monte in Toscana, che si chiama Falterona, dove il più vile villano di tutta la contrada, zappando, più di uno staio di santelene d’argento finissimo vi trovò”: e la cava degli idoli, come la chiamano, è ancora presso la vetta della Falterona e Dante ci fu. Io vidi, ci ha detto e l’argomentazione per preterizione è spesso falsa o negligente.

Il Poeta però non riconobbe nessuna delle ombre accorse:

     Non riconosco alcun, ma s’a voi piace
     Cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
Voi dite ed io il farò per quella pace
     Che dietro a’ passi di siffatta guida
     Di mondo in mondo cercar mi si face.


E così finisce, come chi dicesse il prologo di questo maraviglioso canto che prosegue con una chiarezza, una plasticità di rappresentazione che non abbisogna di comento, o quasi.

Ed uno incominciò: ciascun si fida
     Del beneficio tuo senza giurarlo


cioè senza che tu lo giuri

Purchè il voler nonpossa non ricida


purchè il non potere non si opponga al tuo buon volere; e questo nonpossa sostantivato sta a riscontro del cosa ch’io possa di poco fa. [p. 187 modifica]

Ond’io che solo innanzi agli altri parlo
     Ti prego, se mai vedi quel paese
     Che siede tra Romagna e quel di Carlo


(cioè la Marca, che sta appunto tra la Romagna e la Puglia, signoreggiata da Carlo d’Angiò)

Che tu mi sie de’ tuoi prieghi cortese
     In Fano sì, che ben per me s’adori,
     Perch’io possa purgar le gravi offese.


Notisi offese gravi; e nel concetto del Poeta non è che queste ombre purganti siano punite per peccati veniali o da poco, ma per gravi offese e Manfredi aveva già detto “orribil furon li peccati miei”.

Ma non è più da interrompere Jacopo del Cassero da Fano che seguita:

Quindi fui io (cioè di Fano) ma gli profondi fori
     Ond’uscì ’l sangue sul quale io sedea
     Fatti mi furo in grembo agli Antenori,
Là dov’io più sicuro esser credea.
     Quel da Esti il fe’ far che m’avea in ira
     Assai più là che il dritto non volea.
Ma s’io fossi fuggito in vêr la Mira,
     Quand’io fui sovraggiunto ad Oriamo,
     Ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al padule e le cannucce e ’l braco
     M’impigliar sì, ch’io caddi; e lì vid’io
     Delle mie vene farsi in terra laco.


La migliore, od almeno la più particolareggiata illustrazione a questo passo, ci è data dal comentatore Cassinese, il quale pare che di questi fatti fosse minutamente informato. Traduco il suo barbaro latino: [p. 188 modifica]

“È da sapere che il Marchese Azzo da Este, signore di Ferrara, tentava con ogni suo potere di insignorirsi di Bologna ed aveva in quella città molti trattati. Il popolo bolognese, considerato ciò elesse per suo Podestà Jacopo del Cassero da Fano il quale, entrato in ufficio, fece prendere molti amici del detto Marchese, cittadini bolognesi che erano entrati in questi trattati e alcuni ne bandì, altri ne fece decapitare, usando sempre parole ingiuriose e grosse contro il detto Azzo: e diceva specialmente che aveva commercio colla matrigna, che era figlio di una lavandaia ed altre cose di obbrobrio. Perciò sempre di poi, il detto Marchese, cercò di farlo assassinare. Finalmente essendo Jacopo eletto da Maffeo Visconti signor di Milano come Podestà della città stessa ed avendo egli accettato, per andare al detto ufficio, partì da Fano e andò per mare sino a Venezia. Di là, volendo andare a Padova, fu ucciso dagli assassini presso una certa villa che si chiama Oriaco, nel distretto di Padova, e il testo dice come fu morto, poichè Marcone da Mestre, del contado di Treviso, lo assassinò e con un roncone gli tagliò la coscia coll’anguinaglia, così che vide il sangue sul quale sedeva, cioè il sangue della coscia e dell’anguinaglia, oppure sul quale sedeva, perchè si dice che l’anima risieda nel sangue. O dirai, e forse con maggior verità, che mentre i bolognesi erano in guerra col Marchese Azzo, Jacopo si trovò ad essere Podestà di Bologna, nel quale ufficio gli fu necessario fare e dire molte cose che il predetto signore ritenne ingiuriose”. [p. 189 modifica]

Resta dunque che Jacopo, durante il suo ufficio di Bologna aveva offeso il Marchese, e che questo l’aveva in ira, assai più là che il dritto non volea, e che quando, per andare a Milano, il disgraziato aveva scelto la via di Venezia per evitare il territorio di Ferrara, per opera del Marchese su quella via là dove più sicuro esser credea, fu assassinato.

A quei tempi il canal di Brenta, che era allora un ramo principale del fiume e sboccava a Fusina, impaludava a sinistra; e l’infelice, invece di correr diritto alla Mira, sperando di salvarsi, deviò verso al padule dove fu raggiunto e finito, non senza però aver visto il sangue scorrere dai profondi fori in quel tragitto in cui ebbe tempo di pentirsi e perdonare. Oggi quelle paludi sono bonificate e fertili, ma sopra un muro, credo del Municipio, di Oriago, le terzine di Dante sono incise e quei terrazzani se ne onorano, come fanno quasi da per tutto gli abitanti dei luoghi ricordati dal Poeta. Omaggio e vanto gentile, tanto sacre sono le parole di chi raccolse nel Poema divino le lacrime d’Italia!

Segue un’altra ombra le cui parole sono così evidenti che non abbisognano quasi di chiose. Basta leggerle:

Poi disse un altro: Deh, se quel disìo
     Si compia che ti tragge all’alto monte
     Con buona pïetade aiuta il mio.
Io fui di Montefeltro: io son Buonconte.
     Giovanna e gli altri non han di me cura,
     Perch’io vo tra costor con bassa fronte.


[p. 190 modifica]Prima una osservazione di prosodia. Qui Dante fa pietade di quattro sillabe. Altrove, come nel V dell’Inferno, di sole tre

L’altro piangeva sì che di pietade:


ricordo a quelli che cercano troppo minutamente nel Poema la impeccabilità fino nei minimi particolari e a quelli che nei versi danno la caccia alle dieresi senza badare al contenuto. Dante, e colla saldezza delle ombre e coll’uso delle dieresi fece il suo comodo.

Giovanna fu la moglie di Buonconte e pare che dimenticasse troppo presto il marito, tanto che questi versi suonano per lei come duro rimprovero.

Ma è da seguitare.

Ed io a lui: qual forza o qual ventura
     Ti traviò si fuor di Campaldino
     Che non si seppe mai tua sepoltura?
Oh, rispos’egli, a piè del Casentino
     Traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano
     Che sopra l’Ermo nasce in Apennino.
Là dove il nome suo diventa vano
     Arriva’ io, forato nella gola,
     Fuggendo a piede e insanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola
     Nel nome di Maria finii e quivi
     Caddi e rimase la mia carne sola.


La rotta dei Ghibellini a Certomondo fu sanguinosa, e di Buonconte, uno dei capi, non si trovò nemmeno il cadavere. [p. 191 modifica]

Se, come par vero, dopo la battaglia si scatenò un temporale e l’acquazzone di giugno fece correr pieni i torrenti e il fiume, l’ipotesi colla quale il poeta spiega lo smarrimento del cadavere si doveva affacciare ovvia alla sua mente. Ed è anche da notare che dal piano di Campaldino alla foce dell’Archiano intercorrono sei o sette chilometri che Buonconte, scavalcato e ferito nella battaglia, percorse a piedi, sì che ebbe assai tempo da pentirsi e perdonare veggendo scorrere il sangue suo.

E segue:

Io dirò il vero e tu il ridì tra i vivi.
     L’angiol di Dio mi prese e quel d’Inferno
     Gridava: o tu, dal ciel, perchè mi privi
Tu te ne porti di costui l’eterno
     Per una lagrimetta che ’l mi toglie,
     Ma io farò dell’altro altro governo
Ben sai come nell’aere si raccoglie
     Quell’umido vapor che in acqua riede
     Tosto che sale dove il freddo il coglie.
Giunto quel mal voler, che pur mal chiede,
     Con lo intelletto, ei mosse il fumo e il vento
     Per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come il dì fu spento.
     Da Pratomagno al gran giogo coperse
     Di nebbia e il ciel disopra fece intento,
Sì che il pregno aere in acqua si converse:
     La pioggia cadde ed ai fossati venne
     Di lei ciò che la terra non sofferse.
E come a’ rivi grandi si convenne,
     Vêr lo fiume real tanto veloce
     Si ruinò, che nulla la ritenne.

[p. 192 modifica]

Lo corpo mio gelato in su la foce
     Trovo l’Archian rubesto, e quel sospinse
     Nell’Arno, e sciolse al mio petto la croce
Ch’io fei di me quando il dolor mi vinse:
     Voltommi per le ripe e per lo fondo
     Poi di sua preda mi coverse e cinse.


Versi troppo chiari e di evidenza tale che non abbisognerebbero di chiose. Per chi scende dalla Falterona e segue l’Arno che stroscia ancora stretto nella valle, il Pratomagno, catena di monti brulli nella faccia casentinese, è a destra, e il gran giogo, cioè la catena vera e boscosa dell’Apennino, è a sinistra. Le nubi, suscitate dal demonio, coprirono come un tetto la valle del Casentino e gonfiarono gli affluenti dell’Arno, specie quelli che scendevano dal gran giogo come l’Archiano, che trascinò poi il cadavere. Tutto è evidente, tutto è preciso, sino al vocabolo proprio, traversa, perchè l’Archiano e il Corsalone traversano appunto l’alto Casentino nei pressi di Bibbiena. E si noti anche come ci sia una rispondenza notevole tra questo contrasto del demonio coll’Angelo al capezzale dei morti (così comune nella letteratura del medio evo e rimasto fino a noi nelle stampe popolari) e quello di San Francesco col diavolo nel vigesimo settimo dell’Inferno, dove Guido da Montefeltro e Francesco sono vinti dal diavolo loico che se ne porta l’anima del padre appunto di Buonconte. Il dramma è lo stesso, ma l’epilogo è diverso. Là vince il diavolo che guadagna l’anima ingannata dal principe de’ nuovi farisei, qui vince l’Angelo perchè Buonconte muore pentito e per[p. 193 modifica]donando. Ma ripeto, l’ossatura del dramma è la stessa pel padre e pel figlio e, dal tutto insieme, si ha l’impressione di una tal qual simpatia del Poeta per i ghibellini feltreschi. Non già che il ghibellinismo fosse la causa delle sue simpatie. Gli Estensi, ghibellini, gli sono antipatici e li tratta male. Da altre ragioni movevano i giudizi di Dante che non fu nè guelfo nè ghibellino, ed è strano che si sia voluto cercare e ragionar tanto per sapere di che parte fosse, quando lo disse lui, proprio lui, per bocca di Cacciaguida:

                                   a te fia bello
L’averti fatta parte per te stesso.


E consentitemi la gioia di un ricordo. Il ricordo di un sereno meriggio, saettato dal sole, goduto appunto sulla foce dell’Archiano, col Pratomagno severo in faccia, gli alti pioppi dell’Arno, i tremuli salici del torrente, il silenzio appena interrotto dal fruscìo dell’acqua chiara sui sassi e dal canto degli uccelli, mentre una voce, a me cara, ripeteva questi versi immortali. Dolce ora vissuta bene, nella quale i pioppi e i salici e gli uccelli mi dissero che la parola di Dante aveva consacrato la foce deserta alla eternità e che il genio della razza latina era passato di là, ed aveva lasciato il suo segno, con pochi versi più saldi e duraturi che un monumento di bronzo.

Ed eccoci alla Pia, a questa figura velata da un mistero ancora impenetrato, che canta in tono minore quel lamento che nessun’anima pietosa ignora, [p. 194 modifica]tanto che sarebbe quasi inutile ripetere quei versi che tutti sanno:

Deh, quando tu sarai tornato al mondo
     E riposato della lunga via,
     Seguitò il terzo spirito al secondo
Ricorditi di me che san la Pia.
     Siena mi fe, disfecemi Maremma:
     Salsi colui che inanellata pria
Disposando m’avea con la sua gemma.


Versi di una musicalità commossa che ci mostrano come il poeta sapesse adattare l’armonia delle parole, la melodia della frase, ai sentimenti che voleva cantare. Altrove le rime aspre e chioccie, qui invece delicatamente modulate in una tonalità malinconica, quasi colla sordina. E il fantasma ci parla basso; nascondendo il volto enigmatico, non che a noi, forse allo stesso Poeta.

Infatti quel che Dante ne dice è ben lungi dal soddisfare la nostra curiosità. Non ne dice il cognome, tace il nome del marito. Il salsi colui, sembra notare che solo il marito seppe il modo e il perchè della morte e che nemmeno il Poeta lo conobbe bene.

Resta solo che nacque a Siena e morì in Maremma, nient’altro. Le ricerche degli eruditi, le carte degli archivi esumate, non fecero che arruffar di più la matassa e i comentatori si contraddicono. Chi, e sono i più, la volle dei Tolomei, chi dei Salimbeni, chi dei Guastelloni, ma le carte mostrano che, di quei tempi, nessuna Pia nacque o fu nella fa[p. 195 modifica]dei Tolomei. Nello della Pietra, che ne sarebbe stato il marito assassino, risulta per l’atto pubblico del suo testamento che ebbe due mogli, donna Nera e donna Bartala, ricorda le figlie, persino una bastarda, ma di una terza moglie che sarebbe stata la Pia, nessun accenno anche là dove, acconciandosi l’anima, provvede ai piccoli torti che fece, e condona i debiti. I notai che erano rogati dell’atto, conoscevano bene questo Nello dei Pannocchieschi, un po’ guerriero, un po’ magistrato e un po’ ladrone; ma delle conseguenze di un suo preteso matrimonio con una Pia, non si ha parola, nè per l’anima, nè pel corpo, mentre appunto il testatore provvedeva all’anima ed agli interessi mondani. Nello, dunque, non sposò alcuna Pia nè vedova nè ragazza, e morì dopo l’Alighieri. Una Pia Guastelloni entrò in casa de’ Tolomei, ma come i documenti provano, viveva ancora nel 1318, quando, certo, il V del Purgatorio era già fatto e non poteva essere l’assassinata. Viluppo inestricabile se documenti nuovi non soccorrono, tanto più che un erudito ricercatore ha trovato ora un altro Nello, cugino e contemporaneo dell’accusato, il quale però, che si sappia, non sposò alcuna Pia. Tutto adunque è buio pesto, tutto si riduce ad ipotesi più o meno verosimili.

E come morì questa Pia? Il Poeta non dice altro che morì in Maremma. La tradizione nei comentatori è anche qui discorde. Chi la volle gettata da un balcone, chi disse semplicemente uccisa. Che, reclusa in un castello in Maremma, vi fosse lasciata morire di febbri, è ipotesi non sostenibile. Sa[p. 196 modifica]rebbero morti anche i guardiani e poi la morte non sarebbe stata così violenta come è suggerito dalla economia di questo canto. Gettata dal balcone, nello spazio di un secondo o due, avrebbe potuto pentirsi e perdonare? Non sembra. La ipotesi più verosimile è che nel concetto dantesco la morte fosse cruenta, che ella potesse vedere scorrere il suo sangue come gli altri due di sopra, ed avesse perciò avuto il tempo di ravvedersi e riconciliarsi con Dio.

E perchè fu uccisa? Per gelosia, dicono alcuni; perchè Nello voleva sbarazzarsene per sposare una contessa Margherita. Chi sa il vero?

Il fatto è che i più vecchi comentatori ammettendo la ragione della gelosia, dicono, come l'Ottimo, che Nello la fece uccidere, “per alcuni falli che trovò in lei”. Benvenuto dice “a causa di qualche sospetto che ebbe di essa”. Un altro narra che “avendo costei fama e nome di esser donna vana ed essendone molto geloso, deliberò di ucciderla di nascosto, e così fece. Perchè avendo lo stesso Messer Nello ricevuto una volta un ufficio della città di Siena in Maremma, egli stesso fece andare a lui la Pia così di nascosto che nessuno n’ebbe sentore e, a mezzo il cammino la trucidò così segretamente che nessuno lo seppe, se non egli stesso”.

Frate Giovanni da Serravalle che, come frate e come vescovo, poteva avere buoni informatori, anche sulle leggende, dice che il marito la fece uccidere per gelosia, avendo visto un servo usare con lei un [p. 197 modifica]atto sconcio, e un altro frate e vescovo anche lui, il Randello, ne trasse una sconcia novella.

Risulta da questo che, per analogia, nella mente di Dante doveva essere che la Pia fosse stata uccisa per ferro, come gli altri, che nell’agonia avesse avuto tempo a pentirsi come gli altri, ma che la morte sua fosse stata così segreta che, come dicono i comentatori, nessun la seppe se non il marito — “Salsi colui...”.

Ma risulta anche che nella mente di Dante la Pia aveva peccato, e donna e moglie, non è difficile indovinare di che fosse stimata rea. Aveva peccato perchè, sebbene pentita, la mette in Purgatorio tra i peccatori che si accusano di gravi colpe e non in Paradiso dove, se l’avesse creduta innocente, le avrebbe pur trovato un posticino accanto a Cunizza da Romano, donna di fama non schietta.

Il mistero che copre la Pia — la storia della quale dovette esser pur celebre allora, se Dante le trovò luogo nel poema sacro — fece persino sospettare che essa non fosse che un simbolo, come Matelda o Lia, ma è troppo evidente che il poeta fa parlare qui una peccatrice che fu viva e vera e non simbolo; ma questo mistero attrasse il sensibilismo romantico e ne vennero il poema del Sestini, la tragedia del Marenco seniore, e quadri, e statue, e romanzi, e novelle, ed operette popolari, le quali la celebrano come sposa purissima e di beltà maravigliosa, e del marito fanno un mostro orribile e feroce. Ahi, no! Dante la stimò peccatrice e di lei non si sa nulla [p. 198 modifica]di sicuro. Conclusione non pessimista, ma interpretativa dei versi squisitamente dolenti che la riguardano. Con che accenti di pietà non fa il Poeta parlare Francesca? Ma tuttavia la condanna pel suo peccato, come condanna qui questa enigmatica Pia, perchè sembra che quasi lo faccia compiangendo e a malincuore.

Questo Canto insanguinato, questo Canto degli ammazzati, che comincia colla strage di Jacopo del Cassero, scannato come una fiera inseguita dai cani e dai cacciatori fino tra le cannucce e il braco; che seguita con Buonconte, morto invocando Maria e facendo croce delle braccia, strappato al demonio per generosa pietà del Poeta che lo ebbe avversario; finisce poi col fioco lamento della peccatrice pentita e riconciliata con Dio. C’è un degradare voluto dall’orrido al pietoso. Dopo una introduzione narrativa e piana, si ha un episodio a colori violenti, cui segue un altro dove la ferocità ha minor risalto, finchè si giunge alle sfumature indecise che velano la Pia, questa Sfinge che ci guarda cogli occhi che domandano pietà e nascondono un segreto. Artificio, se si vuole, di ingegno costruttore e calcolatore, ma arte altresì eccelsa, afflato del genio, testimonianza ed affermazione, onore e gloria dell’italianità nel mondo. Da per tutto dove la dolce favella toscana è capìta, da per tutto dove il sì suona, oltre

                              La ruina che nel fianco
Di qua da Trento l’Adice percosse


oltre l’amarissimo mare, guardato

Sì com’a Pola presso del Quarnaro


[p. 199 modifica]da per tutto dove la libertà non è delitto, e il culto della lingua materna non apre le porte del carcere o non caccia per le vie dell’esilio, il canto del Poeta d’Italia suona e suonerà come ammonimento, come augurio, come speranza.


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