Cartagine in fiamme/5. Ophir

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5. Ophir

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4. Una spedizione notturna 6. L'agguato della spia

OPHIR


Hiram dopo essersi convinto che nemmeno sulla piazza dei famosi templi di Astarte, nessuno aveva pensato a tendergli l'agguato che temeva, si diresse verso una stradicciola che s'apriva fra due gigantesche colonne quadrate e massicce, che formavano come una specie d'arco di trionfo dedicato a Bacone, il conquistatore della Sardegna e delle Baleari e primo fondatore della potenza navale cartaginese.

Un'oscurità profondissima regnava al di là delle due colonne resa maggior anche dalla cupa ombra proiettata dalle altissime muraglie del vicino tempio. La bufera ingolfandosi in quella stretta viuzza, ruggiva su mille toni, cacciando innanzi a sé nembi di sabbia ed era così caldo che certi momenti Hiram ed i suoi compagni temevano di cadere al suolo asfissiati.

— Tenete ben stretti i cavalli — ripeteva il cartaginese, curvandosi fino a terra per meglio resistere alla violenza delle raffiche. — Potremo averne estremo bisogno più tardi.

Procedendo sempre cautamente, giunsero finalmente dietro un'altissima casa dalle pareti perfettamente lisce e prive di finestre, che aveva più l'aspetto d'una fortezza che d'un'abitazione signorile.

— Ci siamo — disse Hiram, mandando un sospiro di sollievo. — Mi aspetterà? Nemmeno sul Trasimeno quando mi sono trovato in mezzo ad un cumulo di cadaveri e colla visione della morte sicura dinanzi agli occhi, il mio cuore batteva così forte.

Scorgendo una specie di porticato che doveva servire da fondaco, fece condurre là sotto i cavalli, poi dopo d'aver raccomandato ai suoi uomini il profondo silenzio, si portò in mezzo alla via coll'hortator che teneva una freccia incoccata nell'arco.

— Mira il parapetto del terrazzo — gli disse Hiram. — Se Ophir mi aspetta udrà il sibilo.

Sidone alzò l'arco e lanciò la freccia la quale partì con leggero fischio, perdendosi fra le tenebre.

In alto, sul terrazzo della vasta casa, si udì un debole grido che poteva scambiarsi con quello di qualche uccello notturno, poi qualche cosa cadde al suolo sollevando la sabbia che il simun aveva accumulato nella viuzza.

— Ha gettato una fune — disse Sidone che si era slanciato innanzi.

— Ecco ricompensati due anni d'esilio — mormorò poi Hiram.

Aveva afferrata la fune che pendeva lungo la parete e stava per issarsi, quando Sidone lo arrestò.

— No, padrone — gli disse. — Sei tu certo che sia stata Ophir a gettare la funicella?

— Che cosa dubiti?

— Se fosse un agguato? Tu sai quanto quel vecchio sia cattivo e astuto e quanto ti odia. Lascia che salga io prima. Se taglieranno la fune e mi uccideranno, tu penserai a vendicarmi.

Hiram ebbe una breve esitazione, poi cedette il posto al suo fedele hortator, il quale si era già aggrappato ai nodi della fune.

— Fa' presto — gli disse.

— La casa è alta, ma le braccia sono solide, padrone. In un momento sarò lassù.

Hiram afferrò l'estremità della fune per tenerla tesa e l'hortator si mise a salire coll'agilità d'una scimmia, rasentando l'altissima parete della massiccia costruzione.

Il vento che infuriava in alto, di quando in quando lo sbattacchiava violentemente ora a destra ed ora a manca, quantunque il cartaginese si sforzasse di tenere la fune sempre tesa.

Un fischio stridente che scendeva dall'alto, avvertì finalmente Hiram che l'hortator aveva raggiunto il terrazzo e che nessun pericolo, almeno pel momento, minacciava.

Due numidi accorsero ad afferrar la fune ed il cartaginese a sua volta si inerpicò, dopo essersi messo la daga fra i denti.

La salita durò parecchi minuti, poiché la casa aveva un'altezza di otto piani, usando i ricchi cartaginesi, al pari dei fenici, possedere dimore altissime onde poter, dalle loro terrazze, dominare un vasto spazio di mare e osservare le navi naviganti verso i loro porti.

Hiram però che aveva dei muscoli d'acciaio, giunse non del tutto sfinito sotto il cornicione della terrazza.

— Qui una mano — disse Sidone, curvandosi sul parapetto.

Afferrò il cartaginese e lo trasse a sé tenendosi ben stretto ad una delle merlature.

— Ophir? — disse subito Hiram.

— Silenzio, signore — rispose una voce di donna.

Una forma bianca s'era avanzata verso di lui, facendogli un profondo inchino.

— Sei la sua schiava favorita? — chiese Hiram, mentre Sidone ritirava lestamente la fune.

— Sì, mio signore.

— E la tua padrona?

— Ti aspetta nella sua stanza. Non far rumore perché temiamo che il vecchio Hermon abbia veduto il piccione che tu hai mandato questa sera. Seguimi pure, signore.

— Ed io? — chiese Sidone.

— Rimani qui di guardia — rispose Hiram. — Al primo grido che mando accorri.

— Conta su di me.

La schiava, che era avvolta in un ampio mantello di leggerissima stoffa bianca, con ricami d'oro, prese Hiram per una mano e gli fece attraversare il terrazzo che era vastissimo, coprendo tutto l'immenso fabbricato, scendendo poi una gradinata che conduceva in una specie di galleria, tutta di marmo bianco, sorretta da eleganti colonnette scannellate.

— Fermati qui, mio signore — mormorò la schiava. — La mia padrona non è lontana.

— Bada di non tradirmi! — disse Hiram con accento piuttosto minaccioso...

— Istar mi punisca se io t'ingannerò, forte guerriero — rispose la schiava. — La mia vita d'altronde è nelle tue mani.

La donna scomparve sotto le volte della galleria che nessun lume rischiarava. Hiram udì una porta a cigolare, poi un bisbigliare sommesso, quindi un passo leggero che s'accostava.

— Ophir!... — mormorò con voce tremante.

Un debole grido, subito soffocato gli rispose, poi una bianca forma umana gli si precipitò fra le braccia, sussurrandogli agli orecchi: — Mio prode!...

Il cartaginese aveva tratto la fanciulla verso il parapetto della galleria, esclamando:

— Ophir!... O mia Ophir!... Ecco la vita che ritorna!...

— Taci, mio valoroso Hiram — rispose subito la fanciulla, mettendogli una mano sulla bocca. — Hermon, mio padre adottivo, veglia ferocemente al pari d'un leone su di me, e se sospettasse la tua venuta, non esiterebbe a scagliarti addosso tutti i suoi schiavi. Vieni nella mia stanza: là saremo più sicuri. La mia schiava favorita veglierà su di noi. È fedele ed incorruttibile.

— Presso di te non ho paura di nessuno, fanciulla divina. Sono sempre il forte guerriero che ruppe con Annibale le centurie romane.

— Vieni, Hiram, si veglia attorno a me.

Prese il guerriero per una mano e lo trasse lungo la parete, fermandosi dinanzi ad una porta sulla cui soglia vegliava la fedele schiava.

— Nessun rumore? — chiese Ophir.

— No, padrona.

Aprì la porta e spinse dentro Hiram, chiudendola subito. Si trovarono in una elegante cameretta, colle pareti tutte di pietra lucentissima ed il pavimento in mosaico dorato, illuminata da una grossa lampada di vetro azzurro, che spandeva all'intorno una luce dolcissima, simile a quella che proietta l'astro notturno quando raggiunge il suo massimo splendore. Il mobilio consisteva in alcuni tavolini di ebano, intarsiati d'avorio e filettati d'argento; in alcune scranne di legno del Libano, pesanti e massicce, coperte di bellissime stoffe, ed in grandi vasi di metallo e di vetro che reggevano delle foglie di palma.

Ophir con un gesto rapido si sbarazzò dall'ampio mantello di leggera lana bianca che l'avvolgeva tutta, esponendosi ai raggi della lampada. Era una bellissima creatura, di quindici a sedici anni, dai lineamenti purissimi e dolcissimi, la pelle leggermente abbronzata, coi capelli e gli occhi nerissimi. Si sarebbe detto che nelle sue vene il sangue asiatico si era mescolato col sangue iberico, perché aveva la taglia elegante e splendidamente conformata e la tinta della pelle delle donne dell'Asia Minore e dei paesi bagnati dalle acque del Mar Rosso, e lo sguardo dolce, vellutato ed insieme ardentissimo delle fanciulle della Sierra Guadarrama e delle Colonne d'Ercole. In ciò d'altronde non vi sarebbe stato nulla di straordinario in un popolo come il fenicio, che aveva spinte le sue conquiste fino ai paesi più occidentali del Mediterraneo e più oltre ancora.

Come tutte le donne cartaginesi d'alta condizione, indossava una specie di accappatoio di lana bianca, quasi trasparente, con ricami d'oro all'altezza delle anche, cadenti in larghe pieghe: aveva buona parte del collo nudo fino alle spalle e così pure le bellissime braccia, adorne però di splendidi braccialetti d'oro e di perle di stile fenicio.

Hiram si era arrestato dinanzi alla fanciulla e la guardava cogli occhi umidi, come abbagliato da tanta bellezza.

— Sei la mia Ophir, la fanciulla che per due lunghi anni ho pianto, o una dea? — esclamò il guerriero. — Nella terra dell'esilio non ti avevo mai sognata così bella!

— Sono la tua dolce Ophir, la fanciulla che non ha mai cessato un solo istante di amarti, — rispose, — e che non ha mai cessato di sognarti. E tu m'ami sempre è vero, mio prode?

— Se ti amo! — esclamò Hiram con passione. — Non son venuto qui sfidando la morte, per rivederti? Gli uomini che l'infame Consiglio dei Centoquattro e quello dei Suffetti mandano in esilio, non devono rivedere mai più la patria, pena la morte tra i più grandi martiri.

— Temevo di non rivederti più mai, Hiram. Ancora pochi giorni che tu avessi tardato e la mia felicità sarebbe stata finita.

— Ti vuol sposare il vecchio Hermon?

— Non te l'ho annunciato col piccione?

— Chi è il mio rivale? Qualche miserabile mercante?

— Hermon non ama che gli uomini che trafficano.

— E disprezza i forti che hanno difeso Cartagine ed il suo commercio — aggiunse Hiram con furore. — Che la lupa romana non piombi un giorno su questa maledetta città!... A chi ti ha promesso quel vecchio?

— A Tsour.

— Giovane?

— Avrà la tua età.

— Quando si celebrerebbero gli sponsali?

— Fra tre giorni.

— Dove?

— A Utica, nella villa d'Hermon.

— Sulla riva del mare! — esclamò Hiram. — Le nozze finiranno con coppe di sangue anziché di vino, te lo giuro.

— Hiram! — esclamò la fanciulla spaventata.

— Credi tu che io abbia lasciato Tiro, che io sia sfuggito alle spie che Hermon mi aveva messe ai fianchi, per venire qui a vederti solamente? Ho forzato le crocere dei corvi1 romani e delle loro triremi che incrociavano nelle acque di Malta ed ho sfidato la sorveglianza del Collegio dei Suffetti e del Consiglio dei Centoquattro, non già per dirti solo che la fiamma che tu hai accesa nel petto del guerriero non si è ancora spenta, ma per farti mia. Cada Cartagine e la razza infame dei suoi ingrati mercatanti; ma tu non sarai che mia, Ophir, fossi sicuro di morire dinanzi a te col cuore squarciato dalle daghe dei mercenari!

— Hiram!...

— Sono due anni, Ophir, che io soffro per te. Che cosa ho fatto a questa città di mercatanti per venire esiliato, come un miserabile, nelle lontane colonie di quei fenici da cui sono usciti questi abitanti? Forse perché io ho combattuto valorosamente contro quella grande Roma, che aveva giurato la distruzione della nostra patria? Quale riconoscenza hanno avuto questi miserabili che non hanno che un dio solo, il denaro, pel grande Annibale che fra fatiche e stenti ed eroismi ammirabili, cercava di schiacciare per sempre la temuta rivale del Mediterraneo? Quali aiuti hanno dato al grand'uomo che struggeva le falangi romane? Lo hanno lasciato, dopo la disgraziata battaglia di Zama, andar ramingo attraverso il mondo e rifugiarsi, come un miserabile colpevole, presso un re straniero, che non osò resistere alle pretese della romana repubblica.

«Quale ricompensa ha avuto quel grande? Il veleno bevuto quando Prusia, il vile re di Betinia, fece circondare la sua torre, onde non gli sfuggisse, obbligandolo a sottrarsi colla morte ad una infame schiavitù.

«Odio Roma come odio Cartagine. Ecco il guerriero che t'ama!... Tra me ed il mercante, cui il vecchio Hermon ti ha destinato, scegli, Ophir!... Il terrazzo è alto, ed un corpo umano non reggerà alla spaventevole caduta!...»

— Hiram! Che cosa dici tu? — gridò la fanciulla con angoscia.

— Voglio te — riprese il guerriero che pareva in preda ad una vera esaltazione. Io ucciderò Hermon per l'odio che nutre contro di me. E vero che egli mi disprezza?

— Sì, Hiram, perché tu non sei un mercatante.

— Vile! — ruggì il fiero cartaginese. — Che cosa sono dunque questi Suffetti e questi Consiglieri dei Centoquattro, per preferire ad un uomo d'armi, che difenderà la patria contro chi cercherà distruggerla, un miserabile venditore di merci?

«Tiro e Didone, le due opulenti città commerciali del Mediterraneo orientale, sono diventate schiave delle armi greche! Possa Cartagine, già due volte vinta, diventare la miserabile schiava delle armi romane, che noi avevamo debellate, e vinte!...»

— Hiram, la patria!...

Un sorriso di profondo disprezzo contorse le labbra del cartaginese.

— La patria!... Quale patria?... Quella dei talenti d'oro o dei vasi di vetro filato? Quella delle triremi naviganti al di là delle Colonne d'Ercole, non già per mostrare fieramente gli stendardi di Cartagine, l'opulenta regina del Mediterraneo, bensì per caricare stagno o altri articoli destinati ad impinguare i nostri commerci? Dov'è la nostra gloria? Dov'è la nostra grandezza? Noi combattiamo e moriamo per la repubblica, diamo tutto il nostro sangue, lasciamo i nostri corpi sui campi di battaglia in difesa della patria e ci chiamano... vili mercenarii... Loro che quando scorgono da lontano una trireme romana od un corvo, fuggono codardamente senza nemmeno osar trarre la spada od imbracciare lo scudo!...

«Ah!... Odiano noi che li difendiamo!... Odiano noi che abbiamo lasciate in cento battaglie le nostre carni squarciate dai ferri nemici!... Disprezzano noi perché non sappiamo mercanteggiare e derubare i popoli primitivi, approfittando della loro ignoranza!... Il giorno che la lupa romana morderà le mura di Cartagine, vedranno come noi, guerrieri, sapremo contraccambiare il loro disprezzo ed il loro odio!»

— Hiram non bestemmiare!...

— Ho finito — disse il guerriero. — Tu sarai mia, è vero Ophir?

— L'ho giurato dinanzi alla dea Istar che io non apparterrò che a te o alla morte — rispose la fanciulla, con accento vibrato. — Dalla mia schiava favorita ho già fatto affilare un pugnale per passarmi il cuore il giorno delle nozze. Guardalo Hiram!

La fanciulla si era curvata verso un vaso di bronzo ed aveva levato un pugnaletto di diaspro, facendo scintillare la lama dinanzi agli occhi d'Hiram.

— Credi ora alla mia fedeltà? — chiese.

— Ringrazia Melkarth, il dio dei naviganti, che non abbia fatto mancare i venti sul Mediterraneo — rispose Hiram, guardando con intensa passione la giovane cartaginese. — Tuo padre morì da forte a Zama, pugnando fieramente contro Scipione l'Africano ed il sangue dei guerrieri non mente. Tu sei sua degna figlia e...

Un legger colpo battuto alla porta, lo interruppe.

— Taci, Hiram — disse rapidamente Ophir, che era diventata pallidissima. — Sarepta ha udito qualche rumore.

— Falla entrare.

Ophir aprì la porta e la schiava scivolò silenziosamente nella stanza, dicendo:

— Spegni la lampada, padrona.

— S'avvicina qualcuno?

— Ho udito un rumore di passi all'estremità della galleria.

— Vengano — disse Hiram, sfoderando la daga. — Vicino a te, Ophir, cento uomini non mi fanno paura.

— Può essere Hermon.

— Lo ucciderò.

— Tutti fuorché lui, Hiram — disse la fanciulla. — Egli è stato per me un secondo padre, sia pure a suo modo.

Il cartaginese spense la lampada e socchiuse la porta, tenendo in pugno la daga. All'estremità della galleria si udiva un passo leggero avanzarsi. Hiram curvo innanzi, come una belva in agguato, ascoltava ansiosamente. Ad un tratto si risollevò mentre una voce, a breve distanza, borbottava:

— Per tutti gli dei del mare, questo affare finirà male. Dannata spia!...

— Sidone! — esclamò Hiram, aprendo la porta.

— Tu, capitano — rispose l'hortator. — Sono parecchi minuti che ti cerco.

— Che cosa vuoi?

— I nostri uomini hanno veduto qualcuno, o sospettato qualche cosa. Ho udito il loro fischio d'allarme.

— Che siamo stati scoperti?

— Non so nulla, padrone, tuttavia credo che noi faremo bene a tornare e senza perdere tempo, alla nostra hemiolia. Non soffia buon vento a Cartagine per gli esiliati, a quanto sembra.

— Parti, Hiram? — chiese Ophir con angoscia.

— È necessario, fanciulla. Forse i miei uomini corrono qualche pericolo.

— Dov'è ancorata la tua nave?

— Dinanzi il molo di Cercina.

— Domani passerò sotto la tua nave.

— Me lo prometti?

— Te lo giuro.

— Addio, Ophir. Fra ventiquattro ore io salperò per Utica e vedremo quali mercanti opporrà il vecchio Hermon alle azze da guerra dei miei uomini. Ti rapirò nel tempio e l'Iberia saluterà le nostre nozze.

In quel momento uno strido rauco echeggiò fra le tenebre. Ophir si era stretta contro Hiram, mormorando:

— Ah!... Il triste augurio!... è il grido dell'uccello della notte.

Anche il cartaginese aveva trasalito, mentre Sidone masticava una bestemmia e crollava il capo.

— I guerrieri non credono alle tristi profezie — disse poi Hiram, sforzandosi a sorridere. — Anche a Cannes i corvi passarono in gran numero alla vigilia della battaglia, eppure le nostre armi vinsero. Ci rivedremo a Utica, mia dolce Ophir.

— Ancora il segnale dei nostri uomini — disse Sidone che s'era curvato sul parapetto della galleria. — Affrettiamoci, padrone, prima che ci taglino la ritirata. Non si sa che cosa ci aspetta giù.

— Sì, parti, Hiram — disse la fanciulla. — Temo per la tua vita, mio valoroso.

— Si provino ad assalirci!

— Non commettere imprudenze, Hiram. Pensa che io ti seguirò cogli occhi e che il mio cuore tremerà finché non sarai giunto sulla tua nave.

— Presto, padrone — disse per la terza volta l'hortator.

Hiram prese fra le mani la bella testa della fanciulla e fra l'oscurità si udì il breve sussurìo d'un bacio ardente.

— A Utica, fra tre giorni — mormorò poscia il guerriero. — Là daremo la nostra ultima battaglia.

Poi, allontanando con dolce violenza la fanciulla, si slanciò dietro Sidone che saliva già la scala che conduceva sul terrazzo.

— Eccomi, amico — disse. — Sei pronto?

— Ho una grande smania di menare le mani — rispose il numida.

La fune a nodi era sempre legata attorno ad uno dei merli. L'hortator scavalcò il parapetto e si mise a scendere rapidamente, subito seguito da Hiram. Giù, nella via tenebrosa si era udito un altro fischio, più stridente e più imperioso degli altri.

Qualche grave pericolo doveva minacciare i quattro marinai dell'hemiolia, poiché non erano uomini da spaventarsi per un nonnulla. Fra l'apertura di due merli, Ophir seguiva con angoscia la discesa dei due uomini, mentre la sua schiava teneva ferma la fune.

I quattro numidi dell'hemiolia si erano radunati presso l'angolo della vasta costruzione, tenendo per le briglie i cavalli. Tutti avevano lo daghe sguainate, come se si preparassero a respingere un assalto.

— Che cosa c'è adunque? — chiese Hiram che aveva toccato terra quasi contemporaneamente a Sidone, tanto l'aveva seguito da presso.

— Ah! Padrone, — disse un marinaio, — c'è qualcuno che nell'ombra prepara qualche cosa contro di noi.

— Chi?

— Abbiamo veduto alcuni uomini a ronzare all'estremità della via e nascondersi sotto i portici.

— In sella, — disse Hiram, accostandosi al suo cavallo, — e tenete salde in pugno le daghe. Vedremo chi oserà fermarci.

Alzò la testa verso il terrazzo e colla punta delle dita mandò a Ophir un bacio silenzioso, poi allentò le briglie mormorando:

— Se il vecchio Hermon mi ha preparato un agguato, me la pagherà cara.


Note

  1. Navi romane.