Catullo e Lesbia/IV. La Poesia di Catullo

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IV. La Poesia di Catullo

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III. Lesbia V. Questioni

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IV.

LA POESIA DI CATULLO.



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I.


Si può dire dell’arte ciò che si dice del Governo: ogni popolo ha quell’arte che merita.

Dire che i Romani non ebbero un’arte propria, a me pare un’esagerazione, con buona pace di parecchi dottori tedeschi, e di non poche scimmie italiane. L’arte latina fu quale doveva essere. Dati quella costituzione sociale, quelle leggi, quei costumi, l’arte dei Romani non poteva essere diversa da quella che fu: rozza, dura, ferrea dapprima, come l’anima dei primi repubblicani; molle, voluttuosa, corrotta dappoi, come la vita degli effeminati patrizi. Non fu un’arte piena, rigogliosa, tranquilla, come presso i Greci; non ebbe mai quel sereno ed olimpico accordo nella maniera di contemplare la vita e di rappresentarla, non quella trasparente e divina chiarezza d’intelletto e di forma che rende bellissima di tutte la letteratura d’Omero, di Fidia e di Platone; non ebbe mai una fede, una missione definita, un apostolato. Un popolo che tutto s’affida alla [p. 70 modifica]guerra, che nel brando solo ripone ogni potenza, ogni gloria, ogni salute, non può aver mai quella piena, giovanile, direi quasi, ingenua e verginale fiducia nell’arte, che avevano i Greci, presso cui la bellezza era superiore perfino all’Areopago. Ma giudicare la storia letteraria d’un popolo senz’altro criterio che la storia d’un altro, a me pare assai balorda critica.

Quando i Romani erano ancora liberi e forti, essi non sentirono gran bisogno dell’arte. L’arte non nacque in Roma fra le titaniche lotte dei partiti, nel vigore della gioventù, per sovrabbondanza di vita, come fra noi al Trecento. L’arte nacque in Roma, quando la libertà era già vecchia: nacque colla scrofola. Non fu rigoglio di vita, ma frutto di stanchezza; non impulso naturale dell’anima, ma vaghezza di passatempo. La religione era un pretesto; l’arte un complemento. Volendo perciò studiare la poesia latina, non bisogna andare con idee preconcette, con Omero e Pindaro nella testa; bisogna prenderla così com’è: articolo di lusso. Ma come si fa a non pensare ai Greci studiando un’arte che tutta la ritrasse, la copiò, la scimmieggiò? Bisogna distinguere: ci sono poeti fra i Latini, che imitarono i Greci nell’anima e nella forma; e questi non hanno altra importanza che di stile; così Virgilio, divino verseggiatore. Altri sono però che imitando i Greci nella venustà della forma ritrassero i loro tempi, i loro costumi, la loro personalità: possiamo annoverare fra questi, Lucrezio, Catullo, Orazio, Giovenale e Tacito, grandissimo artista. [p. 71 modifica]


II.


Quando il vecchio Ennio tentava dare ai Romani la loro epopea, Scipione precorreva Cesare; si poteva dire sin d’allora ciò che ebbe a dire più tardi Catilina: Io veggo nella repubblica una testa senza corpo e un corpo senza testa. Scipione, Silla, Mario, Pompeo e Catilina diventarono più tardi un uomo solo, e si chiamarono col nome di Cesare.

L’epopea fu più tardi tentata ai tempi d’Augusto, e poi di Nerone; il poema di Virgilio adulò le genealogie dei Romani e cercò di abbellire quel connubio della civiltà romana con l’orientale, che era stato funesto alla libertà. Lucano e più tardi Silio Italico restarono schiacciati dai loro soggetti.

La grandezza stessa dei fatti romani escludeva la epopea. L’arte è per natura indovina. Togliete all’arte l’ignoto, ed essa doventa storia; Omero doventa Tucidide. Il maraviglioso presso i Romani era il vero. Lo splendore delle loro gesta poteva esser fissato dalla lirica, abbracciato dall’epopea no. Omero poteva indovinare; Ennio non doveva che narrare, cessava d’esser poeta. Fatemi un’epopea di Waterloo: è impossibile: il vero è là che v’ingoia.

Nè i Romani, gente positiva erano nati fatti per l’illusione poetica. Erano troppo superbi per non si credere canzonati. Vivevano nel reale, foss’anche il fango. Nè la drammatica fece prove migliori. Di Plauto piacquero i lazzi e le oscenità al popolo corrotto, mentre [p. 72 modifica]i nobili Romani si compiacevano ancora della domestica commedia Atellana. Terenzio imitò, Pacuvio tradusse. Se la tragedia ebbe voga ai tempi di Augusto, essa decadde bentosto; e gl’insulsi dialoghi attribuiti a Seneca lo mostrano, e più ancora la preferenza accordata dai Romani alle danze e alle pantomime. L’epopea e la drammatica non ci rappresentano la vita romana, la satira sì, e per questo ha grande importanza.


III.


La satira, che come genere letterario avevano i Romani cavato dalla letteratura etrusca, e che costituisce una gran novità della loro storia letteraria, è il vero ed eloquente segno dello scetticismo d’un popolo o di un’età. L’arte che sogghigna e sbeffeggia, che si permette di essere indecente ed oscena sotto il famoso pretesto di modificare e correggere i costumi corrotti, discende fino alle basse regioni della critica, è viva testimonianza non solo della corruzione d’una gente e d’un secolo, ma anche della vanità o del dispetto di chi scrive.

I costumi non si correggono a via di prediche, come pretendeva Catone, molto meno a furia di bastonate, come credeva Giovenale. La sfacciata commedia di Aristofane invece di correggere gli Ateniesi li persuase a far bere a Socrate la cicuta; la morte di Socrate valse certamente assai più di tutte le satire sanguinose dei suoi nemici.

II così detto realismo del teatro moderno mi ha [p. 73 modifica]fatto sempre ridere. L’arte che si risente, senza volerlo, delle sozzure del secolo, non cessa d’essere arte; ha importanza storica per lo meno. L’arte che le descrive e se ne compiace è arte da bordello. A fin di bene, essi dicono! Alla grazia! Casti e Batacchi potrebbero dire altrettanto. L’arte finalmente che si compiace del vizio col pretesto di correggerlo, non soltanto è arte fradicia, è anche bacchettona. Al trattato del P. Sanchez sul matrimonio preferisco le lettere dell’Aretino: qui c’è l’uomo corrotto che non ha paura di mostrarsi tale; là c’è il vecchio bertone che la vuol dare a intendere. I moralisti alla Dumas figlio e alla Sardou io li metto addirittura col P. Sanchez. Artisti da sifilicomio! Ma non esciamo di carreggiata. I Romani avevano la satira nel sangue, e l’hanno ancora: Pasquino è sempre là. A società corrotta, arte corrotta.


IV.


La filosofia romana risentiva gli stessi effetti. Tentò varii sistemi, e per questo fra l’altre non ebbe grande autorità,1 ma si fermò principalmente in due. Lo stoicismo ebbe assai partigiani. I due Scipioni, C. Lelio, i giureconsulti P. Rutilio Rufo e Q. Tubero, Q. Muzio Scevola l’augure, e più tardi Catone l’Uticense e M. Bruto, benchè non fossero veramente filosofi, conformarono pure la loro vita ai precetti della scuola stoica, e perciocchè si consecrarono alla cosa pubblica, i loro principii ebbero qualche influenza sulla legislazione e sul diritto, segnatamente ai tempi d’Augusto, quando [p. 74 modifica]Labeone e Proculo fondarono quella setta, che fu chiamata dei Proculiani, e che si oppose a quell’altra diretta da Masurio Sabino.2

L’indole essenzialmente pratica dei Romani non poteva ammettere la distinzione di Seneca fra una filosofia per la scuola ed un’altra per la vita.3

Aristotile difatti, tormentato dai Greci in mille guise, non poteva essere inteso da un popolo, che dovea tutta la sua gloria alla vita politica e militare.4 La stessa scuola di Pitagora, benchè italica, non ebbe mai gran voga presso i Romani, fra’ quali, oltre a Quinto Sestio, non ebbe un illustre espositore o seguace. La filosofia d’Epicuro al contrario venne di buon’ora accolta, e Catius ed Amafanius, e poi C. Cassio, e Pomponio Attico e Velleio ed Aufidio le fecero gli onori di casa. Ed era cosa naturale. La repubblica agonizzava da un pezzo, lo stoicismo e la libertà si erano rifuggiti nello animo di Catone e di Bruto, e doveano con essi morire di suicidio. Gli animi infeminiti e fradici degli altri Romani d’allora non potevano adagiarsi meglio che nella voluttuosa dottrina del filosofo di Gargettos; fraintesa, adulterata, corrotta a bella posta; per far più comodo. Era una filosofia che corrispondeva all’arte: da prima ferrea, poi cascante; filosofia ed arte che ritraevano fedelmente la vita. E la filosofia e l’arte romana, cosi come sono, per questo solo hanno importanza, e, diciamolo pure, originalità. Non sono esercitazioni del pensiero, ma espressione e rappresentazione di quei tempi, [p. 75 modifica]di quella società. Per questo ancora la filosofia d’Epicuro s’innalzò fin sulle sfere dell’arte e dovente poetica con Lucrezio; per questa ragione il poema della Natura delle cose se ne sta grande e solitario in mezzo a tutta la romana letteratura:

                                        mente vigenti
Avia Pieridum per agro loca, nullius ante
Trita solo: juvat integros accedere fonteis,
Atque haurire; juvatque novos decerpere flores;
Insignemque meo capiti petere inde coronam,
Unde prius nulli velarint tempora Musæ.5

Lucrezio è tutta un’epoca dell’arte latina. Non è la satira che sogghigna o flagella col pretesto di migliorare la società; è il fatto d’una società incredula che si riversa nell’arte sotto la pacifica veste didascalica. Non è la filosofia peggiore che un Romano e un poeta potesse mai scegliere, come dice quell’anima timorata di Federigo Schlegel;6 è la sola filosofia e la sola arte possibile ad un poeta e ad un Romano di quel tempo. Da questo fatto l’estro di Lucrezio attinge nuovo calore, nuova vita. Il poeta si trova in contatto con la società: la realtà lo eccita, lo solleva, gli conferisce nuove forze, come la terra ad Anteo. Egli ha di fronte l’eterna natura; d’intorno la società in cui vive: l’una gli dà la freschezza dei colori, la vivacità delle descrizioni; l’altra il coraggio e la sicurezza delle proprie opinioni; non è soltanto il filosofo che ragiona, il poeta che rappresenta, è anche l’uomo che sente. Da questa non ordinaria armonia fra la convinzione, l’immaginazione e il sentimento nasce tutto il mirabile della poesia lucreziana. [p. 76 modifica]

Nel sublime egoismo dei primi versi del 2° libro c’è tutta la vita del popolo romano, di questo popolo che annienta ogni credenza, ogni sentimento umano, ogni fantasia per la sola voluttà d’un trionfo, c’è tutta la storia della sua libertà e della sua grandezza, edificata sulla schiavitù e sulla rovina degli altri popoli.


V.


Tutta la vita romana d’allora s’era, per così dire, riconcentrata in un solo momento, in una sola frase, nel carpe diem. E come un presentimento della prossima rovina. Per Cesare quella frase vuol dire: regnare; per il popolo dimenticare, per i patrizi gozzovigliare, godimento per tutti; al domani ci pensi chi vuole:

Crasd moriemur, post mortem nulla voluptas.7

E Calullo traduce:

Soles occidere et redire possunt:
Nobis, quum semel occidit brevis lux,
Nox est perpetua una dormienda,8

Che importa a noi del domani?

Vivamus mea Lesbia, atque amemus.9

I vecchi borbotteranno, ma noi c’infischieremo delle loro querele: unius extimemus assis. Se Catone c’è ancora, egli non è che un pazzo, egli grida al deserto.

Questo doloroso momento della vita d’un popolo glorioso viene a riprodursi naturalmente nella scienza e nell’arte. [p. 77 modifica]In Lucrezio prende la forma insegnativa, e vorrebbe imporsi; in Catullo doventa lirica e vuol soltanto piacere.

Nel primo la dottrina diventa poesia, perchè attinge vigore dal fatto; nel secondo è il fatto stesso che si manifesta nudo e crudo nella poesia: là c’è il filosofo che studia la natura e il poeta che inneggia alla voluttà:

Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas;10

qui c’è l’uomo che sperimenta la vita e si effonde spontaneamente nel canto: l’uno ha dinanzi la scuola, la società, a cui insegna; l’altro non ha intorno nessuno, ha soltanto sè stesso, non si preoccupa nè d’uditori nè di lettori; è solo con l’anima sua, e l’anima sua è uno specchio. Entrambi amano: quegli l’eterna natura, questi la creatura che passa.

Presso i Greci l’amore è pura sensualità, è anelito, è tremito di membra, sudor freddo, languore, abbandono,11 è l’ideale del senso. I Romani vanno più in là, fino in fondo; come Cesare che penetra nelle sacre foreste dei Galli, non s’arrestano alle prime conquiste, si sprofondano fin negli abissi della materia. Cornelio Gallo canta:

Conde papillas, quæ me sauciant
Candore et luxu nivei pectoris.
Sæva non cernis, quod ego langueo?
Sic me destituis jam semimortuum?12

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E Ovidio:

Quos humeros, qualesvidi, tetigique lacertos,
     Forma pipillarum quam fuit apta premi!
Quam castigato planus sub pectore venter!
     Quantum et quale latus, quam juvenile femur!
Singula quid referam? nil non laudabile vidi,
     Et nudam pressi corpus ad usque meum.13

Non altro che la materia. Ma la materia ha le sue battaglie, i suoi spasimi, il suo dramma. Petrarca che contempla l’amore, come un youghi dell’India contempla Iddio, è uomo men completo e poeta meno efficace di Catullo, che stringe l’amore fra le braccia, maschio o femmina ch’egli sia. Nel regno dell’arte il bruto è più tollerabile dell’angelo; il perfetto è semplice e perciò non ha forme e ti sfugge, è un sogno della mente. Come creatura artistica, Lucifero, immenso carname, è più perfetto di Beatrice, spirito indefinito.

L’amore, irrequieto per natura, è tanto più irrequieto, quanto più sensuale. Gli amori della nuova Eloisa sono amori stagnanti. L’amor di Catullo è torrente, dura poco, a sbalzi, a riprese; ma qual fluttuazione, qual agitamento, qual rovina! Rappresentate questo conflitto in una poesia tutta ignuda, apparentemente negletta, e avrete subito la lirica di Catullo. Non è la nudità della Venere dei Medici, nel cui verecondo, atteggiare delle mani e della persona, tu vedi come un sottilissimo velo che la circonda, e rassomiglia piuttosto alla poesia di Saffo; è la procace nudità della Venere del Tiziano, che mostra le bellissime forme voluttuose, e il piacere d’averne goduto. [p. 79 modifica]

Catullo scrive sotto la viva impressione del fatto; non è l’artista che riproduce, è l’uomo che sente, l’artista c’è, ma si sa nascondere, o, per dir meglio, si sa confondere con l’uomo; sono una sola persona. La qual cosa non avviene a Properzio, numerato ed artificioso fin nella passione; e meno anche ad Ovidio, che dilava l’impressione in un mare di ciarle; nè la verità è così viva in Tibullo che tu non ci vegga l’arte. Io non trovo poeta nè fra gli antichi nè fra’ moderni che superi, in questo, Catullo. Quello che gli si potrebbe paragonare è soltanto Enrico Heine.

È stato nelle braccia di Lesbia? ha bevuto negli sguardi e nel sorriso di lei tutto l’oblio della vita? Egli sfida gli uomini a chiamarsi più felici di lui:


Quis me uno vivit felicior, aut magis est me
Optandus vita, dicere quis poterli?14

Lesbia lo pospone ad un altro? Egli corre ai ginocchi del fortunato rivale, lo supplica di lasciargli l’amor suo, la sua vita, la luce degli occhi suoi.15 Non gli dà retta? La rabbia l’invade, prorompe contro lei, contro i rivali, contro tutti; dimentica d’essere gentiluomo, raccoglie a piene mani il fango della Suburra, e lo getta sulla faccia dei suoi nemici.16 La sua parola doventa uno sputo; il suo giambo uno schiaffo; è la rabbia che si fonde con lo scherno e qualche volta con la pietà; ride e piange al tempo istesso, odia ed ama17 nè sa [p. 80 modifica]perchè, ma sente d’essere infelice nell’odio e nell’amore. Il poeta manca talvolta, il patrizio si degrada ma l’uomo è sempre là; molle o fiero, tenero o mordace, impertinente o modesto, secondo i casi, ma senza maschera, così come si trova: in maniche di camicia, in semplice subucula, ignudo anche, egli non ha paura di venirvi incontro: è il solo coraggio di Romano che gli sia rimasto.

Quando sdegnato di Lesbia, stomacato dei compagni parassiti ed adulatori, stanco di orgie e di amorazzi, egli vola col pensiero nelle tranquille regioni della famiglia, allora il suo carme diventa a un tratto sereno, scorre limpido e trasparente come ruscello tra’ fiori, prende un non so che di verecondo e di verginale che ti purifica l’anima. In mezzo alle tempestose agitazioni dell’amor suo tu vedi sorgere allora siccome un’iride; fra le sozzure, in cui si piace talvolta di voltolarsi, tu senti spirare come una fresca e piacevole fragranza, che ti fa ricordare le aure pure ed imbalsamate del suo Garda natio; in mezzo all’abbandono, al deserto, all’oblio di ogni cosa vivente, oscilla una nota malinconica, soave, patetica. È la famiglia che parla all’anima del poeta; egli ridoventa buono, tranquillo, pudibondo; intuona l’inno delle nozze, dà consigli allo sposo, celebra le sante gioie domestiche, le caste delizie del talamo nuziale:


Claustra pandite ianuæ,
Virgo, ades; viden ut faces
Splendidas quatiunt comas?18

[p. 81 modifica]Giova ripeterlo: veduto da questo lato Catullo è il più originale dei poeti latini: gli altri qual più, qual meno, sono vesti; Catullo è un’anima.


VI.


Talvolta, bisogna convenirne, egli trascura l’uomo per pensare al poeta; ricorda i suoi bravi studii sui Greci, e si tiene in dovere di lardellare d’erudizione le sue bagattelle, nugas, com’ei le chiama.

Sin da giovanetto egli ha scritto dei poemi, che tengono dell’elegia, dell’epitalamio, dell’epistola e della epopea, e d’ogni cosa insieme; il gran Battiade, come egli chiama Callimaco, gli torna a mente; egli imita, interpola, traduce, senz’avvedersene, inventa nuovi metri, compone parole alla greca, dà alla sua lingua una flessibilità, una delicatezza fino allora non conosciuta; ma Catullo non è là, o almeno non è tutto là: il gran Catullo doventa il piccolo Callimaco. Ben è vero, che suoi epitalamii gli guadagneranno il titolo di dotto fra i contemporanei, godranno d’una retorica celebrità per le scuole, tutti i padri Soave del mondo andranno in solluchero alla lettura di quegli aurei componimenti, grandi e piccini si proveranno a tradurli nella propria lingua; ma, a parer mio, il Catullo che ruzza ed ama e s’arrabbia e si dispera, vale assai più di quell’altro che intuona con omerica gravità:

Peliaco quondam prognatæ vertice pinus.

In questi medesimi carmi, che son da tenere in conto di esercizii giovanili sui classici greci, l’indole [p. 82 modifica]inquieta; fluttuante, eminentemente lirica del poeta non arriva a nascondersi. È poesia a squarci, a sbalzi, manca d’intonazione e di temperanza; il poeta s’abbandona a una descrizione, a un episodio, con lo stesso trasporto, col medesimo oblìo d’ogni regola e d’ogni modo, con cui l’uomo si lascia cadere fra le braccia di Lesbia, si dimentica nei baci di Giovenzio; ora in balìa dell’ira, ora in preda alla voluttà.

L’abbandono di Arianna assorbisce la parte principale del Teti e Peleo; si direbbe che il poeta si compiaccia a descrivere i disperati lamenti d’una donna abbandonata in uno scoglio deserto, egli che dovea sentire più volte lo strazio dell’abbandono, egli che dovea scendere più tardi fino alla viltà per riconciliarsi con la donna amata. È come un presentimento, una vendetta anticipata sopra le donne, una crudele soddisfazione a vederle soffrire lontane d’ogni compagnia e d’ogni conforto, loro che per un semplice capriccio, per una momentanea bizza non hanno uno scrupolo di lasciare nella solitudine e nella disperazione chi s’era fatto del loro amore ogni gloria, ogni vita, ogni felicità.

Quis nunc te adibit, quoi videberis bella?19

Così egli infatti griderà alla sua donna infedele. E si consola della speranza, che, abbandonata da lui, nessuno si ricorderà di lei, resterà derelitta e dispregiata da tutti. E l’abbandono di Arianna non è forse soltanto un presentimento, può essere anche un pentimento e un rimorso. Non avea egli lasciati a Verona i suoi primi affetti? abbandonata la povera Ipsitilla? Non [p. 83 modifica]avea, come Teseo, discorsi altri lidi in cerca di gloria e d’amore? Fra i rumori della corrotta metropoli la voce della cara fanciulla gli torna qualche volta nel cuore; quando il nome d’Arianna gli vien sotto lo stilo, egli non può fare a meno di ricordarsi di lei; narra la storia di quell’illustre tradita, e gli par forse di pagare un tributo all’umile amica della sua giovinezza; la perfidia dell’Ateniese è la perfidia sua, ed egli vi si ferma con pietosa crudeltà.

In questa guisa la personalità del poeta non si può nascondere, vien sempre fuori alla prima occasione, il cuore gli guadagna sempre la mano.

Da questi esperimenti però, da questa ginnastica necessaria intorno ai modelli greci, Callimaco e Saffo segnatamente, il poeta esce più forte, più vigoroso, più padrone della sua frase e del suo pensiero. I Greci gli si trasfondono nel sangue, gli si assimilano, diventano sè stesso. Per la qual cosa, quando il suo fervido pensiero vuol farsi strada, egli non stenta a trovargli una veste conveniente, il suo pensiero è bello e vestito, vien fuori da sè e per sè, porta lo stampo dell’originalità; se non che, quand’esso è tenero e voluttuoso, tu senti attorno di lui come una mollezza d’aure e di profumi che ti ricorda il cielo di Lesbo e le rose di Cirene, e quando è splendido ed abbondante, ti fa pensare agli archi luminosi della reggia di Tolomeo. E di Callimaco, ch’egli imitò e tradusse, Catullo ritien talvolta i difetti. Quel gusto di ammucchiare accessorii e particolari attorno al soggetto, quell’importuno sciorinar d’erudizione, anche in un piccolo carme d’amore, gli tolgono qua e là quella natural freschezza, lo rendono pesante, ricercato [p. 84 modifica]e qualche volta oscuro. Vuol dire a Lesbia ch’egli desidera tanti baci, quante sono le arene di Libia? Egli non sa resistere alla tentazione di snocciolare tutto ciò che ha nella memoria intorno a quei luoghi:

Quam magnus numerus Libyssæ arenæ
Laserpiciferis jacet Cyrenis,
Oraclum Jovis inter æstuosi
Et Batti veteris sacrum sepulcrum.20

Vuol lodare il suo fasèlo per la celerità del corso e la prosperità dei viaggi? Ed ei chiama in testimonio il minaccioso Adriatico, e la Tracia, e Rodi, e il Ponto, e la Propontide e le Cicladi.21

E con la medesima esuberanza descrive a Furio ed Aurelio i viaggi, ch’essi sarebbero capaci d’intraprendere in sua compagnia;22 e così pure invoca Venere:

Quæ sanctum Idalium, Sirosque apertos,
Quæque Ancona, Cnidumque harundinosam
Colis, quæque Amathunta, quæque Golgos,
Quæque Durachium Adrias tabernam.23

A ogni modo, e non ostante certi altri difetti che notano i grammatici, come a dire: l’asprezza di certi versi, il pentametro che non finisce in bisillabo e non chiude il senso, le parole composte, l’abuso delle elisioni e tant’altre bagattelle, possiamo securamente asserire che C. V. Catullo arricchì la poesia latina d’un genere nuovo, rese morbida e maneggevole la lingua, [p. 85 modifica]fu il vero precursore di Virgilio, a cui se rimase molto inferiore nella castigatezza del verso e dello stile, restò solo ed insuperato ed originalissimo nel rappresentar sè stesso, ed in quella magistrevole negligenza, con cui sa riprodurre al vivo i suoi pensieri, i suoi affetti, le sue impressioni.

Noterò, per finire, una strana debolezza del carattere di Catullo. Nell’amore, nell’ira, nella rabbia e nella voluttà egli s’abbandona tutto, scrive ciò che l’anima agitata gli detta, non pensa ai lettori, non bada a nessuno fuor che a sè stesso. Quando la riflessione gli torna e rilegge i suoi versi, si direbbe che egli abbia vergogna di trovarli così ignudi, così sfacciati: non può darsi pace, pensando che la sua vita sia così corrotta, così depravata com’egli stesso la descrive. I buoni istinti non sono in lui tutti morti: Romano, egli crede ancora all’austerità della vita; non ha la toga per nulla. La molle coscienza gli suggerisce un ripiego; egli accusa i suoi carmi per iscusare i suoi costumi:

Nam castum esse decet pium poetam
Ipsum, versiculos nihil necesse est.

È un ripiego che piace a parecchi altri poeti. Ovidio difatti non dubita asserire:

Crede mihi, distant mores a carmine nostro,
     Vita verecunda est, Musa iocosa mihi.

E Marziale, forse con più ragione:

Lasciva est nobis pagina, vita proba est.

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Ed Ausonio, uomo veramente di gravissima vita e di antichi costumi:

Nostra simul certant varia epigrammata nugis,
     Stoicus has partes, has Epicurus agit;
Salva mihi veterum maneat modo regula morum,
     Ludat permissis sobria musa iocis.

Era così corrotta la società romana, che le persone più gravi, non che i poeti, si credevano in dovere di peccare in parole, pur serbando incorrotta ed intemerata la vita!



  1. Giovenale, Sat., II.
  2. Hering., De stoica. vet. rom. iurispr. (apud Slewigt).
  3. Seneca, Epist. 402.
  4. Tennemann, Stor. filos., vol. I.
  5. Lucret., lib. I, v. 924 e segg.
  6. Stor. lett. ant. mod. lez. III.
  7. De rerum natura, lib. I.
  8. Carm. V.
  9. Ibidem.
  10. Lucret., lib. I.
  11. Saffo, All’amica
  12. Eleg., lib. fragm.
  13. Amor., lib. I, eleg. V.
  14. Carm. CVII.
  15. Carm. LXXXII.
  16. Carm. XXXVII.
  17. Carm. LXXXV.
  18. Carm. LXI.
  19. Carm. VIII.
  20. Carm. VII.
  21. Carm. IV.
  22. Carm. XI.
  23. Carm. XXXVII.