Catullo e Lesbia/V. Questioni/IV. Ordine e divisione dei carmi

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IV. Ordine e divisione dei carmi

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IV. Ordine e divisione dei carmi
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IV.


Ordine e divisione dei carmi.


Non fa mestieri di molta penetrazione d’ingegno per accorgersi a tutta prima, che l’ordine, in cui ci sono state tramandate le poesie di Catullo, non è per nessun modo giustificabile. Il poeta le ha disposte al [p. 94 modifica]certo altrimenti. I dotti dell’età nostra si sono occupati seriamente di questa questione; e dopo gli studii di Helbigius, Froehlichius, Junglaussenus, Schwab, Ribbeckius, Vorlaender e di altri men chiari, a me non resta altro che proporre talune modificazioni.

Disporre i carmi cronologicamente a me pare opera disperata; lo Schwab, che l’ha tentato, ha fabbricato, secondo me, un bel castello di carte.

Fra CXVI componimenti che abbiamo del nostro poeta, dell’XI soltanto si può, approssimativamente, stabilire la data; tutti gli altri non hanno fra loro altro legame e ragion d’ordine che la natura e le fasi della passione che li ispirò.

Per disporli adunque nel modo più ragionevole non c’è altro mezzo che studiare intimamente quella passione, notarne i fenomeni, seguitarne lo sviluppo; osservare quanto più si può da vicino il carattere e la vita del poeta. Così facendo, noi non avremo, egli è vero, la precisione, dirò così, astronomica delle date, ma non vagheremo fra l’incertezze d’una cronologia impossibile a rifabbricare sulla meschina base d’una data approssimativa; avremo invece due grandi autorità in nostro aiuto: da un canto la natura umana, che difficilmente si smentisce per mutare di tempi e di civiltà; dall’altro il poeta stesso, che ci rivela nei versi la condizione dell’animo suo e lo stato della sua vita. Per la qual cosa, prima di venire alla materiale disposizione dei carmi, si sente il bisogno di precisare i periodi dell’amore di Catullo.

Il Froehlichius riduce questi periodi a tre; epperò divide i carmi in tre classi: nella prima mette quei [p. 95 modifica]pochi, che riguardano il principio e la prima felicità dell’amore; nella seconda quelli intorno all’amore turbato; nella terza tutti quelli composti dopo la riconciliazione. A provare l’insufficienza di questa divisione bastano i carmi LVIII ed XI, non che il LXXVII, da cui si rilevano gli ultimi sforzi del poeta per vincere a ogni costo quella malnata passione, e il disprezzo ch’egli sentiva di una donna che si prodigava vilmente ai nipoti magnanimi di Remo,

Nullum amans vere, sed identidem omnium
                                                  Ilia rumpens.

Lo Schwab li divide e dispone nel modo che segue:

Amantium concordia: II, V, VII, III, LI, LXXXVI, LXVIIIb.
Amantium dissidium: LXXXV, LXX, LXXXIII, CXII, LXXII, LXXXVII, LXXIX, LXXIV, LXXX, LXXXVIII, LXXXIX, XC, XCI, LXXIII, LXXVII, LXIX, LIX, XXXVII, XXXIX, XLII, VIII, LX, XXX, XLI, XLIII,
Amantium reconciliatio: CVII, CIX, XXXVI.

I carmi LXXVI e LXVIIIa li crede scritti dopo che Catullo amorem Clodiae in perpetuum renuntiavit, il LVIII al ritorno dalla Bitinia, e l’XI poco prima della morte, immaginando un tentativo di riconciliazione da parte di Clodia.

Il Vorlaender, dissentendo qua e là dallo Schwab, divide i carmi in tre sole classi: chiude il primo periodo col carme VIII; il secondo con l’epistola a Manlio; il terzo coi versi a Celio.

La ragione della mia divisione in quattro periodi e dell’ordine che ho dato alle poesie, si trova nel [p. 96 modifica]racconto ch’ho fatto della vita del poeta; non lascerò d’aggiungere però talune giustificazioni che potrebbero parer necessarie.

Studiando l’anima di Catullo nella sua passione, troviamo ch’essa ci si presenta sotto quattro differenti aspetti; ci offre quattro momenti e quattro situazioni diverse. Da principio essa è tutta fede, illusione, abbandono: ama, e non cerca sapere perchè, nè qual donna; la bellezza di Lesbia è tutto; al di là di quelle forme non c’è che il nulla. I carmi II, III, V, VII, LXXXVII e LI, ritraggono mirabilmente questo primo stato. Il carme CIX è come un primo baleno di sospetto, è il primo dubbio: Lesbia dice al poeta che lo amerà eternamente; questa parola tanto abusata dagli amanti fa riflettere: si spaventa al solo pensiero che quella donna possa un giorno o l’altro abbandonarlo, e si raccomanda pietosamente agli dei:

Deh! fate, o dei, ch’ella prometta il vero,
Che risponda ai suoi detti il suo pensiero!

Questo primo lampo è sufficiente perchè il poeta gitti uno sguardo attorno e al di là della sua donna; al passato, al carattere, alla vita di lei; al marito che ella tradisce e al mondo che sogghigna. Fa il proposito di abbandonarla; comincia il secondo periodo dell’amor suo: ama ed odia ad un tempo, vuole e disvuole: è il periodo della fluttuazione, dell’incertezza, della battaglia fra la ragione ed il cuore. Lesbia intanto si annoia, si procura altre distrazioni, s’innamora di Celio Rufo. Il poeta prorompe: rivuole le sue lettere, vuol farla finita. [p. 97 modifica]Il primo carme di questo periodo è sicuramente l’VIII; e non so persuadermi come lo Schwab l’abbia cacciato in fondo, dopo i terribili epigrammi a Gellio, a Lesbio, a Rufo, mentre risulta chiaramente da esso, che Valerio, benché sdegnato della sua donna, che si era alla sua volta annoiata di lui, come si rileva dal verso nono, pure non credeva d’aver positivamente dei rivali, tanto che si compiace, che abbandonata da lui, essa resterebbe sola ed abbandonata da tutti:

Quis nunc te adibit, cui videberis bella?

I sospetti arrivano al colmo; gli sdegni secreti prorompono in contumelie: il poeta fulmina il carme XLII, che il Vorlaender pone, benché dubbioso, alla fine del suo secondo periodo, immeediatamente prima del XXXVIII, che dà principio, secondo lui, al terzo periodo, e che dovrebbe a sua volta entrare nel secondo, non essendoci ragione che Catullo inveisse più contro i rivali, quando l’avea già fatta finita con Lesbia.

La sfuriata del carme per le lettere produsse la riconciliazione. Siamo al terzo periodo. Il poeta transige con la propria dignità, si propone di prender Clodia così com’è; scrive l’epistola a Manlio. Siamo al busillis. Quasi tutti i critici moderni sono d’accordo, che codesto componimento s’ha a dividere in due; che la prima parte di esso, dal 1 verso al 41 è cronologicamente posteriore alla seconda, e fu composta dopo la finale rottura con Lesbia; mentre la seconda si deve attribuire al tempo dei primi adiramenti, cioè tra il primo e il secondo periodo, giusta la divisione dello Schwab. Dirò una cosa che farà gridare allo scandalo gli studiosi; ma io [p. 98 modifica]crederei mancar di rispetto a loro ed a me, se non avessi il coraggio di esprimer liberamente un’opinione che s’allontana assolutamente dalla volgare. L’epistola a Manlio a me pare tutta d’un getto; ispirata da un solo pensiero; composta tutta in un tempo, ed al solo scopo di consolare l’amico addolorato dalla morte della sposa diletta.

Tiro, anzi tutto, un velo pietoso sulla frivola congettura dello Scaligero, accettata e sostenuta con miserrime ragioni dallo Schwab, cioè, che la seconda parte del carme sia diretta ad Allio e non a Manlio; essendo saputo da tutti, che nei codici antichi sono spesso tralasciate le iniziali maiuscole, che s’aggiungevano poscia in rubrica. Il nome di questo signor Allio d’altronde non lo troviamo in alcuna storia, in nessun dizionario; sicchè ci vuol poco ad accorgersi, ch’esso è uno dei soliti pettirossi che prendono i critici.

Venendo però alla quistione se il carme sia da dividere o no, io, senza far gran caso degli antichi codici a penna e a stampa, che ci offrono unita l’epistola, credo opportuno di esporne l’argomento, perchè dalla sostanza stessa del carme, e non da ragioni esteriori e da più o men valevoli autorità di eruditi, si possa rilevare la sua essenziale e necessaria unità.

Il carme è provocato da una lettera di Manlio, che annunzia al poeta una domestica sventura, probabilmente la morte di Giulia (v. 5 e 6). Catullo, benchè riconciliato da qualche mese con la Lesbia, ch’era stata poco innanzi piantata da Celio; un po’ per aver fatto proposito di prender di lei quel tanto che poteva; forse anche. per far prova della fermezza del suo carattere, [p. 99 modifica]allontanandosi a poco a poco da quella donna, ch’egli temeva, dopo l’esperienze avute, di dovere lui dì o l’altro abbandonare irrevocabilmente; e certo e più di tutto perchè la morte del suo caro fratello avea gettata nel lutto la sua famiglia, nel seno della quale lo chiamava il comune dolore, s’era presa la libertà di andare a Verona, dove, d’altronde, non contava di star lungamente (v. 32 e segg). Manlio gli domanda un carme che lo conforti, dei libri che lo distraggano; e il poeta, non senza mostrarglisi grato di tanta fiducia (v. 9), si addolora di non poterlo far contento come vorrebbe, giacché la sventura ha colpito parimente il suo capo. Vi fu un tempo, egli scrive, ch’io non pensava ad altro che a schiccherar versi: multa satis lusi (v. le annotazioni): la morte del fratello mi tolse ogni dolce ispirazione, ogni contentezza, ogni felicità (v. 25 e 26); e se io ho il coraggio di starmi qui in Verona,

Id, Manli, non est turpe, magis miserum est

Questo è il verso, a cui legano l’asino i signori critici, non molto dissimili di quel contadino che lo legava ad un fiasco. Se Catullo, essi dicono, scrive esser degno di compassione, ciò vuol dire, ch’egli ha dato a Lesbia le pere; bisogna convenire dunque, che la prima parte dell’epistola fu scritta quando gli amanti non se la dicevano più. Piano a’mai passi, miei buoni signori. Prima di tutto, non essendo precisato in qual mese del 58 il poeta si recasse a Verona, io ho piena libertà di credere che ci sia andato subito dopo la morte del fratello, pochi mesi avanti il distacco finale da Lesbia; e per quali ragioni l’ho detto più su. In secondo luogo, [p. 100 modifica]i critici non sono d’accordo intorno alla lezione e all’interpretazione dei due versi:

Quod hic quisquis de meliore nota
Frigida deserto tepefecit membra cubili;

dove taluni codici leggono tepefiant invece di tepefecit; quisquam in cambio di quisquis, e vix cui, come propone il Vossio, che aggiunge la spiegazione seguente: Veronae erat Catullus, unde, ut Romam revertatur, hortatur Manlius, ea precipue de causa, quod non putaret Veronae esse amicas, quarum consuetudine melioris notae homines possent affici et detineri; cum ex omnibus Italiane urbibus et provinciis quidquid pulchrum esset Romam conflueret.1 In tal caso i versi suonerebbero così:

........ mentre costì, nessuno
Che si rispetti un po’, non trova il verso
Di riscaldar nel solitario letto,
Come gli par, le membra intirizzite;

nè a tale interpretazione è d’ostacolo la parola deserto, che non soltanto si assume nel significato di abbandonato, ma sovente anche di solitario, come in quel di Properzio:

Et merito, quoniam potui fugisse puellam,
     Nunc ego desertas alloquor Alcyonas.2

Si allontanerebbe così ogni allusione a Lesbia, e non senza altre ragioni. È forse naturale, che Manlio [p. 101 modifica]istigasse l’amico a tornare a Roma per farla a’ pugni coi rivali, e lo mettesse in burla per giunta, quando dovea sapere la ragione, per cui il poeta s’era allontanato, per poco per molto, da quella donna, che ben conosceva di che pasta fosse? Che se poi, come credono i critici, Catullo s’era allora distaccato per sempre da Clodia, l’invito di Manlio, che pur dovea sapere a qual punto fossero le cose fra la Lesbia e l’amico, sarebbe stato non solamente inqualificabile e stupido, ma, accompagnato alla celia, sarebbe riuscito crudele.

A ogni modo, anche interpretando diversamente i due versi citati, io non trovo ragionevole tutta la grande ed arcana significazione, che han voluto dare i critici a quel miserum est del trentesimo verso. II poeta sente benissimo il peso della sua solitudine; ma costretto più che altro dal domestico dolore a starsi lontano da Roma, dice esser più meritevole di compassione che di scherno, sì per la sventura che l’ha colpito, che per la privazione dei tanti piaceri della capitale.

Ma torniamo all’esposizione del carme. La morte del fratello, dice il poeta, la lontananza da Roma, dove ho stanza, libri e tutto, mi tolgono di soddisfare, secondo il mio desiderio, alla doppia domanda di Manlio. Ma potrò io dimenticare, soggiunge, tutto il bene ch’io gli devo?

No: io non tacerò com’egli m’abbia giovato; voglio far celebre per tutti i secoli il nome del mio benefattore (v. 41, 49). E si noti, il poeta è dispiacente di non potere, per le suddette ragioni, adempire i desiderii dell’amico, secondo la misura della sua gratitudine: non dice di non potere in alcun modo [p. 102 modifica]compiacerlo, si duole soltanto di non poterlo fare, come Manlio meriterebbe:

Ultro ego deferrem, copia si qua foret.

Dopo tutte queste scuse e proteste, che formano come l’esordio del componimento, il poeta entra a descrivere il principio dell’amor suo; paragona a Laodamia la sua donna, e da questo paragone trae argomento al bellissimo episodio, che gli porge nuova occasione di lamentare la morte del fratello coi versi medesimi della prima parte: specie d’intercalare usitatissimo dagli elegiaci greci, e che è di grandissimo effetto in questo caso, perchè esprime il dolore acuto ed intenso dell’anima, che non sa e non può trovare altre espressioni se non quelle che la prima impressione le ha suggerite. Ritorna poi a Laodamia, e poi alla sua Lesbia, alla quale ha fatto proponimento di perdonare le rare e vereconde infedeltà, e finalmente conchiude:

Questo di tanti beneficii in prezzo,
Umile carme a te mandar poss’io,
Altro, Manlio, non posso;

dove il quod potui è in perfetta corrispondenza all’ultra ego deferrem del verso 41: segnato dai critici come l’ultimo della prima parte, o a dir meglio, del primo componimento diretto a Manlio.

C’è un verso però nella conclusione, che serve di baluardo ai nostri avversarii, e sembra a tutta prima deporre contro l’unità dell’epistola:

Sitis felices tu simul et tua vita.

chi è mai quella tua vita? Non può esser altro [p. 103 modifica]che la moglie di Manlio; ella dunque viveva ancora, quando Catullo scriveva questi versi. Or se nella prima parte si parla della morte di lei, segue necessariamente che questa seconda parte fu scritta innanzi.

Chi è mai quella tua vita? Tua amica, spiega il Partenio, scappando dal rotto della cuffia. Tui amores, dice, senz’altro, Achille Stazio.

Cominciamo dal raffermare la lezione del verso. Il Codice Regio l. 7989 invece di simul ha satis, e così anche il Sangermanense 1165. Una variante di non poco momento ha il Codice Amburghense, che legge tui nati in cambio di tua vita; ma io, che non voglio regalar figli a nessuno, mi contento del satis in luogo di simul, sulla fede, oltre ai due citati, del Codice di Lorenzo Santenio e del Colbertino. L’avverbio satis, ognun sa, non solo ha forza di accrescere, ma anche di diminuire, come in Terenzio:

Meretrix haec est forma luculenta
Sic satis;3

e in Cicerone: Quid secundum? Satis bona pascere;4 e nel nostro caso serve a limitare il significato della parola felices. Assumo la parola vita nel senso proprio, allontanando così ogni allusione alla moglie di Manlio; e che bisogno c’è, in verità, di ricorrere a lei? Il poeta augura felicità alla vita del suo amico recentemente colpito dalla sventura; e l’augurio non può essere più opportuno; e se dice tu et tua vita, che apparentemente sembran due soggetti, ma intimamente son uno solo, gli è [p. 104 modifica]perchè la felicità e l’infelicità dipende tanto da noi, quanto dal destino, così dal nostro cuore come dalle circostanze; il tu riguarda la disposizione, la forza, la virtù dell’anima di Manlio a rassegnarsi, a consolarsi della perdita avuta, il tua vita riguarda i casi, gli avvenimenti che potrebbero turbarla. Nè la parola felices è da prender semplicemente nel significato di fortunato, ma anche di propizio, sia, che rende e ha facoltà di rendere altri felice, come in quel di Virgilio:

Sis felix, nostrumque leves quaequmque laborem.5

Così il poeta non fa soltanto un augurio a Manlio, ma in pari tempo una raccomandazione di sè stesso. Superata quest’ultima difficoltà, e invitando gli studiosi a meditare sul concetto dell’epistola, che mi sono ingegnato di esporre, io non dubito affermare, che esso è sostanzialmente uno, e non si può altrimenti partire in due, che facendo maggior uso delle forbici che del giudizio. A ogni modo, se altri crederà ch’io abbia preso un granchio a secco, mi consolerò pensando, che ho a compagni il Partenio, il Mureto e Palladio Fusco, critici meritevoli d’ogni rispetto, e da non confondere per avventura con certe loquaci gazze del tempo nostro, che non si degnano neppur di nominarli, dopo d’essersi presuntuosamente vestite delle loro penne.

Ora torniamo alla disposizione dei carmi.

Quando il poeta, dopo una breve dimora in Verona, fa ritorno alla capitale, col proposito dì perdonare a Lesbia qualche rara e non incauta scappatina, trova [p. 105 modifica]il campo; non dirò occupato, ma invaso; e tra’ primi e più fortunati invasori i suoi più buoni amici. Scrive allora i carmi LXXXII, LX, XXX, LXXVII, XL, LIX e XXXVII; parte dei quali ho tradotti, parte tralasciati per rispetto al pudore dei giovani. Lo Schwab, che confonde i due periodi intermedii dell’amore di Catullo in uno solo, ch’egli chiama della discordia, e che pur sono distintissimi, perciocchè nel primo il poeta combatte con sè stesso senza avere il coraggio di abbandonare la sua donna; nel secondo si scaglia a viso aperto contro ai tanti rivali che prima si lusingava di non avere; lo Schwab, dicevo, mette questi carmi avanti la riconciliazione, e prima anche del carme VIII.

Anche il Vorlaender, come abbiamo visto più su, li pone tutti quanti a rifascio nel secondo periodo, e prima, quel ch’è peggio, dell’epistola a Manlio. Ma che il posto che io ho assegnato a questi carmi sia il più proprio e naturale, servono a dimostrarlo il carme VIII e il LXVIII. Se dal primo risulta chiaramente la lusinga dell’ingenuo poeta, che Lesbia, abbandonata che fosse da lui, non troverebbe più un cane che le farebbe la corte; e dal secondo che il poeta sperava ancora che i furti dell’amica fossero cauti ed infrequenti, ed egli era disposto a chiuderci un occhio; non si può, senza manifesta offesa al buon senso, attribuire ai carmi sopra numerati una data anteriore all’VIII e al LXVIII, essendo essi diretti a tutta quella folla di più o men felici competitori, che approfittando della lontananza di Catullo, e più del disordinato appetito di quella femmina, erano riusciti ad intercettargli la via. Per la qual cosa il poeta, stanco di tante lotte e inorridito di tante laidezze, [p. 106 modifica]prorompe in quei pochi ed amarissimi versi a Celio (il cui amore con la Clodia era finito con un grandissimo scandalo), i quali, secondo noi, son da mettere a capo dell’ultimo periodo, come il primo grido della coscienza del poeta, che riprende alla fine la padronanza di sè stesso, e può immergere con orrore lo sguardo in quell’abisso di vergogne e di sozzure. Non mi sembra però ragionevole il supporre questi versi posteriori al ritorno dalla Bitinia, quando la precipua cagione del viaggio non può non attribuirsi alla turpissima impudicizia di Lesbia, che determinò il poeta a farla, a tutti i costi, finita.

Nè maggior prova di acume a me par che faccia il Vorlaender, quando vuol sostenere che questo carme sia da posporre all’XI; dappoichè dagli ultimi versi di questo rilevasi evidentemente, che il poeta, benchè non ancor del tutto guarito, avea racquistata pure tanta forza da parlare con certo sdegno compassionevole di Lesbia e dei suoi trecento drudi non solo, ma da ridersi delle pratiche di Furio e d’Aurelio, che, a dar retta allo Schwab, tentarono riconciliarlo con lei; mentre la straziante ripetizione dei versi a Celio:

Lesbia nostra, Lesbia illa,
Illa Lesbia,

denota chiaramente, che al grido sdegnoso della coscenza si mesce ancora il gemito secreto del cuore; che la ragione di Catullo può contemplare con feroce soddisfazione la sozza lascivia di quella donna, che

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ma la memoria delle passate voluttà, il pensiero che le bellissime forme di lei si prodigano vilmente a chiunque, gli fa spasimar l’anima di dolore.

L’ultimo carme però del quarto periodo, l’ultimo in cui il poeta abbia fatto menzione del suo infelicissimo amore, è a parer mio l’XI; scritto fuor d’ogni dubbio dopo l’estate del 55, probabilmente nell’ultim’anno della sua vita, quando s’era già riconciliato con Cesare.

  1. Observat. ad C. V. Catull.
  2. Eleg., lib. I 17,2.
  3. Heaut., III, 2, 12.
  4. Officis, II 25.
  5. Aenead., lib. I, 334.