Chi l'ha detto?/Parte prima/61

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Parte prima - § 61. Re e principi. Corte e nobiltà

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§ 61.

Re e principi. Corte e nobiltà



Il secolo decimottavo che si è curato cosi poco di rispettare la religione, non poteva rispettare nemmeno i sovrani; e un verso troppo celebre di una mediocre tragedia, caduta sotto i fischi del pubblico fin dalla prima rappresentazione, riuniva nello stesso dispregio ambedue, dicendo che: [p. 455 modifica]

1349.   La crainte fit les dieux; l’audace a fait les rois.1

(Prosper Joulyot de Crébillon, Xerxès, tragedie, a. I. se. 1).

Del resto, che cosa è un re? che cos’è un principe?

1350.   Un prince est le premier serviteur et le premier magistrat de l’État.2

risponde uno che pure di principi s’intendeva, cioè Federigo il Grande, re di Prussia, in più luoghi dei Mémoires de Brandebourg (nelle Opere, ediz. Preuss, to. I, pag. 123; to. VIII. pag. 65; to. IX, pag. 197; to. XXIV, pag. 109; to. XXVII. pag. 297) ed anche nel Testament politique. Del resto prima di lui Seneca aveva detto (De clementia, I, 19) : «(Rex) probavit non rempublicam suam esse, sed se reipublicæ»; e Massillon nel Petit Carême (Sermon pour le jour de l’incarnation): «Ce n’est pas le souverain, c’est la loi, Sire, qui doit régner sur les peuples. Vous n’en êtes que le ministre et le premier dépositaire.»

Un’altra definizione della regia dignità sta nella nota formola:

1351.   Le roi règne et ne gouverne pas.3

con la quale Thiers nel numero del National del 18 gennaio 1830 riassunse il programma del partito nazionale. Ma Jan Zamovski (morto nel 1605) aveva già detto in un discorso innanzi alla Dieta di Polonia, rimproverando il re Sigismondo III: Rex regnat sed non gubernat.

1352.   Le roi est mort, vive le roi!4


Erano le parole di rito con le quali nella vecchia monarchia francese un araldo d’ armi annunziava per tre volte al popolo, dal [p. 456 modifica] balcone del palazzo reale, simultaneamente la morte del re e l’avvento al trono del successore, affermando così la continuità non interrotta della carica reale, imperitura per quanto fossero mortali le persone che volta a volta la rivestivano. Le si udirono in Francia per l’ultima volta alle esequie di Luigi XVIII: il 24 ottobre 1824 nella chiesa di San Dionigi innanzi all’avello reale, il duca d’Uzès, che compiva le funzioni di gran maestro di palazzo, abbassò il suo bastone del comando, ne pose la punta entro la tomba e gridò: Le roi est mort. L’araldo d’armi ripetè per tre volte: Le roi est mort, e alla terza volta aggiunse: «Prions tous Dieu pour le repos de son âme.» Dopo un breve silenzio il duca d’Uzès rialzando il bastone gridò: Vive le roi, che ancora per tre volte fu ripetuto dall’araldo, e quindi tutti proruppero in acclamazioni per Carlo X, il nuovo padrone della Francia. A proposito del significato che si annetteva a questa formola rituale, si narra che appena arrivò al Louvre la notizia dell’assassinio di Enrico IV, i ministri corsero dalla regina, la quale vedendoli gridò: — «Il re è morto!» — «V’ingannate, signora, rispose il primo ministro Sillery, in Francia il re non muore mai.» —

Accanto a questa formola di rito è utile citare quest’altra tolta da un salmo della Bibbia per formarne il principio della pubblica preghiera pro Rege obbligatoria anticamente in certe funzioni, secondo l’uso che istituito da Adriano I con la messa che si diceva per il re di Francia nel principio di quaresima, fu nel progresso dei tempi abbracciato da tutte le nazioni cattoliche:

1353.   Domine, salvum fac regem.5

(Salmo XIX. v. 9).

1354.   L’État c’est moi.6

fu l’orgogliosa risposta che Luigi XIV, ancora diciassettenne, il 13 aprile 1655, entrato nel Parlamento in abito da caccia col frustino in mano, avrebbe dato alle osservazioni del primo presidente che gli parlava degli interessi dello Stato. Ma è dessa autentica? Molti ne dubitano, p. es. Lavisse e Rambaud, nelle Histoire générale, [p. 457 modifica] to. VI (Louis XIV), pag. 37, n. 2. Vedasi pure il libro dell’ Hertslet, Treppenwitz der Weltgeschichte, IV. Aufl. (Berlin, 1893), pagine 338-339. Giova anche aggiungere che gl’inglesi l’attribuiscono invece alla loro regina Elisabetta. Nè è più assodato che Carlo il Temerario ripetesse a Luigi XI il famoso verso di Giovenale:

1355.   Hoc (non Sic) volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas.7

(Satira VI, v. 223).
ma invece è certissimo che lo rinfrescasse come simbolo del cesarismo moderno Guglielmo II, ultimo imperatore di Germania, scrivendolo di suo pugno nel novembre 1893 in calce di un suo ritratto donato al Geffcken, come aveva rinfrescato la memoria di un’altra sentenza latina:

1356.   Regis voluntas suprema lex esto.8

che scrisse nel settembre 1890 nell’album della biblioteca della città di Monaco e nella quale, qualunque ne sia l’autore, è evidente la derivazione della già citata (al n. 627) sentenza ciceroniana: «Salus populi suprema lex esto» (De legibus, III, 3).

In questo stesso ordine d’idee rientra la vecchia formola francese:

1357.   Tel est notre plaisir.9


Dall’epoca del regno di Francesco I in poi, la cancelleria dei re di Francia prese l’abitudine di chiudere i proclami, gli editti e le ordinanze reali con la formula Car tel est notre plaisir, che teneva luogo di ogni altro argomento, buono o cattivo! Ma già le ultime ordinanze del regno di Carlo VII portavano di frequente la formula medesima; il Max Latrie ne cita una del 12 maggio 1497. La stessa formula si trova ricordata anche in questa forma: Car tel est notre bon plaisir, e infatti l’antico regime fu chiamato dagli [p. 458 modifica] scrittori francesi le régime du bon plaisir. Anche la cancelleria del Primo Impero rinnovò l’uso della vecchia formula ma nel testo più corrente, cioè senza il bon. Il Mas Latrie in una dissertazione pubblicata nella Bibliothèque de l’École des Chartes (to. XLII, 1881) sostiene che la sola vera formula era Car tel est notre plaisir o anche, più di raro, Car ainsi nous plaist-il être fait; che l’interpolazione del bon è arbitraria; e che i documenti nei quali quest’aggettivo si trova, sono tutti falsi o alterati. Ma il signor Gabriele Demante ha voluto dimostrare eccessive le affermazioni del Mas Latrie in un’altra dissertazione pubblicata nello stesso periodico, to. LIV, 1893.

1358.    ....Sono i monarchi
Arbitri della terra;
Di loro è il cielo.

(Metastasio, Ezio, a. I. sc. 3).
ed essi, conviene pur troppo aggiungere, talvolta si prevalgono dell’autorità che la fortuna o il diritto divino hanno messo nelle loro mani, ne usano e ne abusano, facendo come quel buon principe Lorenzo dell’operetta francese, il quale all’oste che gli osserva:

— «Mais c’est de l’arbitraire?» — risponde ingenuamente:

1359.   Et à quoi me servirait-il d’être prince, si je ne faisais pas de l’arbitraire?10

(La Mascotte, parole di Chivot e Duru, musica di Audran, a. I).

Anche G. G. Belli in un popolarissimo sonetto intitolato: Li Soprani der monno vecchio (21 gennaio 1832) fa dire a uno di questi vecchi sovrani:

1360.   Io so’ io, e voi nun zete un c...
     Sori vassalli bb..., e zzitto.

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e molti secoli prima di lui un poeta latino aveva detto:

1361.   An nescis longas regibus esse manus?11

(Ovidio, Heroides, ep. XYII. Helena Paridi, v. I66).
intendendo che i re hanno le mani lunghe e quindi la giustizia loro può colpire anche da lontano: ma la frase si cita maliziosamente in ben altro senso.

Però, benché Vittorio Alfieri, implacabile odiatore della tirannide, opinasse che:

1362.   Seggio è di sangue e d’empietade il trono.

(Saul, tragedia, a. IV. sc. 3).
altri sono più sereni, e ammettono delle distinzioni: certamente ci furono, ci sono e ci saranno dei principi, simili a quelli di cui disse il Divino Poeta:

1363.                                      ....Son tiranni
Che diêr nel sangue e nell’aver di piglio.

(Dante, Inferno, c. XII, v. 104-105).

o che furono ammoniti da Vincenzo Monti per bocca di Aristodemo con le ultime parole di lui:

1364.                                 .... Dite ai regi
Che mal si compra co’ delitti il soglio.

(Aristodemo, tragedia, a. V, sc. 4).
ma non tutti rassomigliano a costoro, e in fondo:

1365.                            .... Ces malheureux rois,
S’ils font beaucoup de mal, ont du bon quelquefois.12

( Andrieux, Le meûnier de Sans Souci, v. 7-8).

Il secondo verso è più spesso citato così:
     Dont on dit tant de mal. ont du bon quelquefois. [p. 460 modifica] Ma la lezione vera è quella ch’io tolgo dall’edizione originale, quella cioè dei Mémoires de l’Institut National des sciences et arts pour l’an IV de la Rép. (Littérature et Beaux-Arts), tom. I, pag. 244-247: la variante dev’essere stata una concessione posteriore alle regie censure.

Aggiungasi pure, a lode loro, che da qualche tempo le cose sono cambiate anche per loro e in peggio, e che il mestiere del re, secondo che pensava il principe di Monaco in una geniale produzione di Sardou, è proprio guastato:

1366.   Ah! le métier est bien gâté!...13

(Rabagas, a. I, sc. 10).

A un re inetto e incurante del bene de’ suoi sudditi, si può applicare il motteggio proverbiale di:

1367.   Re Travicello.

ch’è il titolo di una delle più saporite ed argute satire del Giusti. Tommaso Grossi andava matto per questo scherzo, di cui nell’ottobre 1843 così scriveva all’autore: «Benedetto quel Re Travicello: che cosettina squisita! che finezza ingenua, che innocente malignità, che burro, che vita, che lingua poi, che lingua e che stile! Sarei tentato di metterla tra le prime cose, in genere di poesia popolare e satirica, che io mi conosca, se non che mi s’affacciano alla memoria le tante altre sue cose, tutte belle di vario genere di bellezze, tanto poi magnifiche per quel beato vezzo di lingua che incanta e rapisce.»

La satira del Re Travicello, principe inerte e minchione, incapace del bene come del male, parve a tutti diretta contro Leopoldo II, benchè il Giusti lo smentisse replicatamente. Egli tolse l’argomento dalla nota favola di Fedro, Ranæ regem petentes (Fab., lib. I, fab. 2).

Re Travicello fa il pajo con l’altra satira, intitolata:

1368.   Re Tentenna.


che composta da Domenico Carbone il 1° ottobre 1847, ebbe niente meno che la virtù di decidere Carlo Alberto a proclamare [p. 461 modifica] il sospirato Statuto. La satira che sferzava a sangue quel re sempre vacillante e peritoso, girava manoscritta e andò via a ruba. Il Carbone sospettato come autore, fu arrestato mentre teneva in tasca l’originale della poesia, ma ebbe il tempo di trangugiarlo e fu salvo. Intanto Re Tentenna aveva raggiunto lo scopo.

Anche meno di un Re Travicello o di un Re Tentenna sarebbe stato quel Dandini, finto principe, che nella Cenerentola (parole di Jacopo Ferretti, musica di Rossini, a. I. sc. 6) domandava:

1369.              Io sono un Principe
          O sono un cavolo?

Ma è vecchia la sentenza che:

1370.   Les fous sont, aux échecs, le plus proches des rois.14

(Mathurin Régnier, Satire XIV, v. 30).

e non soltanto nel nobil giuoco degli scacchi! Un ramicello di pazzia doveva di certo avere quel Carlo VII cui nel 1428 il celebre capitano Stefano Vignolles soprannominato La Hire, avrebbe detto:

1371.   On ne peut perdre plus gaiement son royaume.15

Le parole testuali sarebbero: «On n’avait jamais neu ny ouy parler qu’aucun perdist si gayement son estat que luy»; ma i soliti noiosi eruditi hanno messo in dubbio l’autenticità di questo motto, e pare che ci abbiano le loro buone ragioni.

1372.   L’exactitude est la politesse des rois.16

era massima di Luigi XVIII: ma i sovrani se tengono ad essare esatti con gli altri, tengono soprattutto a che gli altri siano esatti con loro: quindi troveremo naturale il famoso [p. 462 modifica]

1373.   J’ai failli attendre.17

che sarebbe stato detto da Luigi XIV un giorno che qualcuno era stato poco preciso a un appuntamento con lui: al solito il Fournier crede poco probabile la cosa. Racine nei Fragments et notes historiques, racconta invece che il re, a chi rimproverava acerbamente un custode che non si era trovato pronto ad aprire al re, disse: «Pourquoi le grondez-vous? Croyez-vous qu’il ne soit pas assez affligé de m’avoir fait attendre?» (ediz. Hachette curata da P. Mesnard, to. V, pag. 125). E nelle Memorie della Duchessa Elisabetta-Carlotta d’Orléans (ed. 1832, p. 38) è detto dello stesso re: «Il ne pouvait souffrir que l’on se fit attendre.»

1374.   Dieu et mon droit.18

è il motto dei re d’Inghilterra. Pare che fosse preso da Riccardo Cuor di Leone, al tempo delle guerre con la Francia, e poi rinnovato in una occasione simile da Edoardo III, quindi continuato fino alla regina Elisabetta, che lo lasciò per l’altro Semper eadem (Sempre la stessa), motto che fu di molte nobili famiglie italiane e straniere: è nello stemma di Trino nel Monferrato e fu dei Giolito, famosi stampatori veneziani originari appunto di Trino e che forse lo trassero dallo stemma della vicina Valsesia, l’aquila col motto Semper eadem nec mutor in fide. La regina Maria d’Inghilterra rimise in uso l’antico motto, che è rimasto nello stemma reale inglese fino ai nostri giorni.

Della influenza che i costumi, le virtù e i vizi del principe hanno sul popolo ch’egli regge, parla la classica sentenza:

1375.                                 .... Componitur orbis
Regis ad exemplum: nec sic inflectere sensus
Humanos edicta valent, ut vita regentis. 19

(Claudiano, De quarto consulatu Honorii, v. 299-301).
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la prima parte che è la più nota, si cita spesso sotto la forma errata:

Regis ad exemplum totus componitur orbis.


In forma più familiare, e più espressiva era detto lo stesso in un’epistola poetica di Federico II re di Prussia (Épitre première à mon frère le prince de Prusse, v. 56):

1376.   Lorsque Auguste buvoit, la Pologne étoit ivre.20

Questo Augusto è Augusto II. elettore di Sassonia e re di Polonia dal 1697. Il verso, citato quasi sempre in forma erronea, è più spesso usato con falsa interpretazione, cioè che l’egoismo del monarca non gli lasci pensare alle privazioni del popolo il quale dev’essere pago di vedere il sovrano che sta bene. Altri vi trovano un diverso concetto, cioè che degli errori e dei vizi dei reggitori paga il fio il paese: ma questo meglio si esprime col verso oraziano:

1377.   Quidquid delirant reges, plectuntur Achivi.21

(Orazio. Epistolæ, lib. I, ep. 2. v. 14).

Anche Fedro (Fabulæ, lib. I, fab. 10):

Humiles laborant ubi potentes dissident


e Lafontaine:

                         ....de tout temps
          Les petits ont pâti des sottises des grands.

(Liv. II, fab. 4: Les deux taureaux et une grénouille).


Invece un’altra sentenza esprime che giudice severo dell’opera dei principi è la pubblica opinione, la quale, se pure non gode sempre di sufficiente libertà per manifestare l’aperto biasimo, sa però dimostrarlo anche tacendo, di guisa che

1378.   Le silence du peuple est la leçon des rois.22

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come fu detto da mons. J. B. de Beauvais, vescovo di Senez, in una orazione funebre per Luigi XV recitata il 27 luglio 1774 nella chiesa di St.-Denis: «Le Peuple n’a pas sans doute, le droit de murmurer; mais, sans doute aussi, il a le droit de se taire; et son silence est la leçon des Rois» (Oraison funèbre etc., Paris, 1774, pag. 26) La stessa frase era ripetuta in un’occasione memorabile e tragica. Luigi XVI si presentò il mattino del 15 luglio 1789 all’Assemblea costituente; quando ne fu annunziato l’arrivo, Mirabeau prese la parola, dicendo: «Qu’un morne respect soit le premier accueil fait au monarque dans ce moment de douleur. Le silence des peuples est la leçon des rois.» (Thiers. Révolution française, to. I, ch. II).

Ecco una frase gentile per una regina:

1379.   Fulgida e bionda ne l’adamantina
     Luce del serto tu passi.

(Carducci, Alla Regina d’Italia, nelle Nuove odi barbare).

ed eccone una, che non è troppo gentile per un re:

1380.   Colui che detiene....

La protesta che il Vaticano diresse all’ambasciatore francese il 28 aprile 1904 in seguito alla visita del Presidente Loubet al Re d’Italia in Roma, conteneva questa frase: «Si le chef de n’importe quelle nation catholique offense gravement le Souverain Pontife en venant rendre hommage à Rome, c’est-à-dire au Siège pontifical même, et dans le Palais Apostolique même, à celui qui, contre tout droit, en détient le principat civil et en entrave la liberté et l’indépendance nécessaire, cette offense a été bien plus grande de la part de M. Loubet». La frase - certamente poco riguardosa per il sovrano - fu molto rimproverata a Pio X: tuttavia essa era nelle consuetudini della Curia, e la si ritrova tale e quale in altro documento, del 3 giugno 1903, firmato dal Card. Rampolla Segretario di Stato di Leone XIII, e diretta al Nunzio Apostolico a Parigi: «Un chef de nation catholique, qui viendrait rendre hommage à Rome, au siège même du Pape, à celui qui, contre tout droit, en détient le principal civil et en entrave la liberté et l’indépendence, poserait un acte etc». È noto che a questa rigida [p. 465 modifica] intransigenza portò qualche eccezione l’attuale Pontefice con l’enciclica Pacem Dei munus pulcherrimum, del 23 maggio 1920.

E anche pochissimo gentile è quest’altra frase per la corona ferrea, simbolo in Italia della regalità:

1381.   È settentrional spada di ladri
                              Tòrta in corona.

(Giusti, L’incoronazione, str. 22).
La corona ferrea che si conserva a Monza nel Tesoro del Duomo, cui fu donata dalla regina Teodolinda, contiene, secondo una tradizione molto tarda, un anello di ferro formato per volontà di S. Elena con uno dei chiodi della croce di N. S. Ma la leggenda è destituita di ogni fondamento, e il Venturi (Storia dell’Arte Italiana, II, p. 72 e seg.) dimostra che la corona, prima di essere sospesa come corona votiva, era con tutta probabilità un collare o un braccialetto, un torquis portato da una regina barbara. La corona che fu detta ferrea per la prima volta in una cronaca del xiii secolo, è divenuta il simbolo della regalità italiana.


Sono popolari, e si citano di frequente, se non testualmente, almeno nel concetto ch’essi racchiudono, i due versi seguenti:

1382.   Quando la gente non avea farina.
Lo re diceva: mangiate pollame.

tratti da uno degli stornelli più conosciuti di Francesco Dall’Ongaro, intitolato C’era una volta, e scritto a Roma nel 1849:


C’era una volta un re e una regina,
          Che al sol vederli passava la fame,
          Viveano a starne, vestivan di trina,
          Per la felicità del lor reame,
          Quando la gente non avea farina,
          Lo re diceva: mangiate pollame.

Il quale ultimo verso ricorda l’altro motto, certamente apocrifo, ma non per questo meno popolare, attribuito a una principessa di Francia: Mangez de la brioche. La novelletta è, molto probabilmente, inventata di sana pianta, ma quel che è certo, è ch’essa non può attribuirsi, come una sciocca calunnia ha voluto far credere. a Maria Antonietta, perchè essa era già popolare nella

[p. 466 modifica]gioventù di Rousseau, quando cioè la bella arciduchessa austriaca non era ancora nata. Infatti Rousseau nelle Confessions (part. I, liv. VI) parlando di quando era istitutore in casa de Mably (1740) dice: «Je me rappelai le pis-aller d’une grande princesse à qui l’on disoit que les paysans n’avoient pas de pain et qui répondit, Qu’ils mangent de la brioche.» Qualcuno, invece di Maria Antonietta, ha fatto altri nomi, per esempio quello di Vittoria, figlia di Luigi XV e zia di Luigi XVI: «Di quest’ultima che era buona, ma non intelligente, è in realtà una famosa risposta attribuita a Maria Antonietta. Qualcuno raccontava come il popolo mancasse di pane; stupita, la principessa chiese con ingenuità se quei poveretti non avrebbero potuto adattarsi a mangiare la crosta dei pasticci di carne. Era un cibo che essa non poteva soffrire: ma in esilio a Roma, ridotta in istrettezze, anche la principessa doveva ormai sapere che chi manca di pane, non può avere molti pasticci di carne. Di questa stupidità è stata fatta una cattiveria sdegnosa e falsa: qu’ils mangent des brioches!» (Marinska, Luigi XVII, ne La Cultura Moderna — Natura ed Arte, anno XXIII, fasc. 16, del 15 luglio 1914, pag. 248). Ma anche quest’attribuzione deve dirsi priva di fondamento dopo ciò che ho detto delle origini tradizionalmente assai più antiche della disgraziata frase. Anche di Giuseppe Foulon, intendente generale dell’esercito nel 1789, assassinato dopo la presa della Bastiglia, si narra, non so con quanta esattezza, che avrebbe detto, quando il popolo francese sembrava minacciato dalla carestia: «Si cette canaille n’a pas de pain, elle mangera du foin.»

Attorno ai sovrani si trovano le corti, quelle corti di cui il Tasso disse:

1383.   Vidi e conobbi pur l’inique Corti.

(Gerusalemme liberata, c. VII, ott. 12).

È il vecchio pastore che così parla ad Erminia smarrita nella Parrebbe infatti che là un tempo si dessero ritrovo tutte le tristi passioni dell’umanità: se ciò sia vero anche oggi io non so, è certo tuttavia che se il principe è malvagio, chi lo circonda e più malvagio ancora:

1384.   A re malvagio, consiglier peggiore.

(Tasso, Gerusalemme liberata, c. II. ott. 2).
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che fu detto di Aladino tiranno di Gerusalemme e del mago Ismeno: e fu tolto da Pier Jacopo Martello come tìtolo di un suo curioso dramma, di cui gl’interlocutori sono tutte bestie, e dedicato pure ad un’altra bestia, al suo cane Po.

Eppure le corti dovrebbero essere ben diverse se coloro che le compongono si ricordassero sempre del motto della loro casta:

1385.   Noblesse oblige.23

che si attribuisce al duca P. M. G. de Lévis 1755-1830), poichè si legge nella sua raccolta di Maximes et Réflexions (1808, pag. 13, al § LI); ma di cui la prima fonte si può cercare in una sentenza di Boezio (De consolat. philosophiæ, lib. III, prosa VI, in fine): « i quid est in nobilitate bonum. id esse arbitror solum, ut imposita nobilibus necessitudo videatur, ne a majorum virtute degenerent». Si studino perciò i nobili di emulare le virtù cavallsresche dei loro maggiori, quelle virtù che all’Ariosto facevano esclamare:


1386.   Oh gran bontà de’ cavalieri antiqui!

(Orlando furioso, c. I, ott. 22).
se non vogliono che si applichino anche a loro le amare parole dello scettico filosofo francese:


1387.   Les grands noms abaissent, au lieu d’élever ceux qui ne les savent pas soutenir.24

(Maximes de la Rochefoucald § CXIV).

Altrimenti meglio essere modesti borghesi, di quelli che onorando il loro umile nome con la vita onesta ed operosa, si appagano di un semplice casato, senza titoli nè particelle nobiliari, ossia come disse il poeta milanese:

1388.    E bott lì, senza nanch on strass d’on Don.25

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È il Porta che così dice di sé nel famoso sonetto:

          Sissignor, sur marches, lu l’è marches,
               Marchesazz, marcheson, marchesonon,
               E mi sont Carlo Porta milanes,
               E bott lì, senza nanch on strass d’on Don.

E del resto, nè a titoli nobiliari nè a titoli cavallereschi si dovrebbe dare soverchia importanza quando essi siano dovuti soltanto al caso o al capriccio dei potenti. Per esempio, non si dovrebbe dare che un peso assai relativo a tutti quegli onori che con prodigalità dissennata Carlo V imperatore avrebbe, se le leggende sono vere, disseminato a piene mani e ciecamente in più parti d’Italia, come un ricco sfaccendato si diverte a buttare soldoni ai poveri. Il più famoso di questi aneddoti è quello che si riferisce alla seconda visita fatta da Carlo V a Genova; l’imperatore vi fu per la seconda volta nel 1533 per tornare in Spagna, dove l’accompagnò Andrea Doria con 35 galee, vi si trattenne alcuni giorni ospite del Doria medesimo nella sua villa di Fassuolo e per corrispondere alle grandi e magnifiche dimostrazioni di onore fattegli dalla città, spandeva a larga mano onori, tìtoli, privilegi; ed una volta a un’accolta di nobili genovesi che gli facevano omaggio, disse:

1389.   Vos omnes Marchiones appello.26

o come da altri si dice: Estote omnes Marchiones, ma la forma tradizionale è la prima. Sarà vero? Non se ne trova traccia in documenti e nemmeno in cronache stampate o manoscritte dell’epoca: ma rimase nella tradizione costante del patriziato genovese. Fu detto che la Repubblica Ligure che non riconosceva titoli nobiliari nel suo patriziato e che volle sempre considerarsi indipendente dall’autorità imperiale, non permise che alla cosa si desse mai pubblicità alcuna per non riconoscere nell’imperatore un potere giurisdizionale: cosicchè, aggiungevasi (ma non pare esatto), che i patrizi genovesi assumevano il titolo di marchesi soltanto fuori dei confini della Repubblica. La questione della legittimità del titolo fu ripetutamente agitata dopo che Genova fu annessa agli [p. 469 modifica] Stati Sardi e si fece più viva per un singolare incidente occorso nel 1859 a Parigi, dove trovandosi come attaché all’Ambasciata Sarda un march. Multedo di Genova, il Governo francese lo invitò a provare con documenti legali il regolare possesso di quel titolo. Il march. Multedo si rivolse al Sindaco di Genova e questi propose il quesito ai più noti eruditi della città, uno dei quali, il can. dott. Luigi Grassi, fu il solo che rispose con una breve memoria nella quale dava parere favorevole all’autenticità del racconto relativo alla investitura di Carlo V e alla legittimità dei titoli che ad essa risalivano. Il parere del can. Grassi Sul titolo marchionale ai nobili genovesi fu stampato in un piccolo opuscolo, rarissimo, a Genova nel 1864 e poi riprodotto in più riviste e anche nel Giornale Araldico Genealogico-Diplomatico del Crollalanza che lo stampò due volte, nel vol. II, del 1875, e nel vol. XVIII, del 1890; in questo secondo volume comparve entro alla memoria di G. F. De Ferrari, La nobiltà della cessata Repubblica di Genova e il suo titolo marchionale (pag. 19-26), il cui autore, appoggiandosi specialmente allo scritto del Grassi, esprime pure parere favorevole. La polemica si trascinò ancora e fu finalmente chiusa con un decreto reale del 18 dicembre 1889 che autorizzava la Consulta Araldica - la quale doveva allora procedere alla compilazione dell’Elenco delle famiglie nobili della Liguria - a proporre al Presidente del Consiglio dei Ministri il riconoscimento per decreto presidenziale del titolo di Marchese ai discendenti in linea primogeniale, mascolina, legittima e naturale degli individui iscritti al corpo della Nobiltà Genovese. Ma i criteri seguiti in questa faccenda dalla Consulta Araldica furono vivacemente riprovati da Carlo Padiglione il quale in uno scritto polemico contro la commissione Araldica Napoletana pubblicato nel citato volume XVIII del Giornale Araldico, pag., 157 e segg., ebbe occasione di accennare alla tradizione genovese e di discuterla, mostrandone con molti argomenti, alcuno dei quali assai grave, la nessuna fondatezza. Siamo dunque da capo con la domanda: Sarà vero? ci sarebbero buone ragioni per dire di no, vedendo che simile tradizione o leggenda si ripete anche per altri paesi, e sempre per Carlo V. Così a Bologna, dove un caso analogo sarebbe accaduto tre anni prima. Gaetano Giordani nella cronaca Della venuta e dimora in Bologna del Sommo Pontefice Clemente VII per la coronazione [p. 470 modifica] di Carlo V Imperatore celebrata l’anno MDXXX (Bologna 1842, a pag. 141) narra che l’imperatore, nella chiesa di S. Domenico, «riprendendo ancora il manto e la corona, di subito trasse dalla vagina lo stocco ignudo, e col toccar di questo leggermente su le spalle di nobili candidati fece all’istante più di duecento cavalieri»; e in nota poi aggiunge (n. 490 a pag. 134 della seconda paginatura: «In una Relazione mss. che noi possediamo fra le altre cose in copia, tratta da sincrono autografo si legge : l’Imperatore con la spada nuda toccava la testa di chi voleva esser cavaliere e dicevagli: Esto miles: ma allora furono tanti i chieditori affollati intorno a lui, quali dicevano: Sire, Sire, ad me, ad me, che egli costretto e stanco, sudando persino nella faccia, per togliersi da quella calca, inchinò sopra tutti la spada, ed esprimendosi verso i cortigiani colle parole: no puedo mas, per finire soggiunse: Estote milites; estote milites, todos, todos: e così replicando, gl’istanti si partirono cavalieri e contentissimi». Simile narrazione si fa in Alghero, città della Sardegna a poca distanza da Sassari, dove Carlo V si fermò due giorni, il 7 e l’8 ottobre del 1541, veleggiando per la sfortunata impresa di Algeri. Si vede ancora nella piazza Civica, la casa già dei march. d’Albis ora dei nob. D’Arcayne dove il Sovrano fu ospitato e si addita ancora la finestra, oggi murata per reverenza del principe, da cui egli si affacciò e lanciò agli algheresi che lo applaudivano, il Todos Caballeros (tutti cavalieri) che li farebbe tutti legittimamente investiti dell’onorifico titolo. Ma lo scarso fondamento della leggenda è anche dimostrato dal fatto che ne tace l’illustre storico della Sardegna, Giuseppe Manno, il quale pure era d’Alghero, e si diffonde con molta compiacenza nei più minuti particolari di questa visita imperiale alla dolce terra ove nacque: e narra infatti in 4 pagine molti piccoli episodi, aggiunge anzi che il sovrano armò col cingolo equestre vari distinti personaggi (e ne dà i nomi) ma tace affatto di questa investitura collettiva, ciò che dimostra ch’essa non era nemmeno ricordata in una relazione minuta dell’avvenimento, compilata nel giorno stesso della partenza di Carlo e depositata nell’Archivio della città, sulla cui scorta egli stese la sua narrazione (Storia di Sardegna, to. III, Torino 1826, pag. 254).


  1. 1349.   La paura creò gli dei, l’audacia ha creato i re.
  2. 1350.   Il principe è il primo servitore e il primo magistrato dello Stato.
  3. 1351.   Il re regna e non governa.
  4. 1352.   Il re è morto, viva il re!
  5. 1353.   O Dio, salva il re.
  6. 1354.   Lo Stato sono io.
  7. 1355.   Questo io voglio, così ordino, e sia il voler mio in luogo di argomento.
  8. 1356.   Sia suprema legge la volontà del re.
  9. 1357.   Così ci piace.
  10. 1359.   E a che con mi servirebbe di essere un principe se non commettessi degli arbitrii?
  11. 1361.   Non sai che i re hanno le mani lunghe?
  12. 1365.   Questi disgraziati re, che fanno tanto male, hanno talora del buono.
  13. 1366.   Ah il mestiere è molto sciupato!...
  14. 1370.   Negli scacchi, i matti sono quelli che stanno più vicini ai re.
  15. 1371.   Non è possibile di perdere un regno più allegramente.
  16. 1372.   L’esattezza è la cortesia del re.
  17. 1373.   Poco è mancato che non dovessi aspettare.
  18. 1374.   Dio e il mio diritto.
  19. 1375.   Tutto il mondo si conforma all’esempio del re; e a muovere i sentimenti dei sudditi vale più delle leggi la condotta del sovrano.
  20. 1376.   Quando Augusto beveva, tutta la Polonia era ubriaca.
  21. 1377.   Per tutte le pazzie dei re, sono puniti gli Achivi.
  22. 1378.   Il silenzio dei popoli è un mònito per i re.
  23. 1385.   Nobiltà fa obbligo.
  24. 1387.   I grandi nomi abbassano, invece di elevare, coloro che non li sanno portare.
  25. 1388.   E basta così, senza neppure un cencio di Don.
  26. 1389.   Vi nomino tutti marchesi.