Codice cavalleresco italiano/Libro III/Capitolo XV

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Composizione e funzionamento del Giurì d’onore

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Composizione e funzionamento del Giurì d’onore
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XV.

Composizione e funzionamento del Giurì.

ART. 285.

Il giurì è costituito quando i rappresentanti, eletti i giudici, ne fanno la reciproca presentazione e confidano loro i documenti concernenti la vertenza. [p. 169 modifica]

Il giurì cessa dalle sue funzioni, ed è virtualmente sciolto, trascorso il termine prescritto (48 ore) per eventuali reclami dalla consegna del lodo e di tutti i documenti affidati al giurì.

ART. 285 a.

Il giurì si compone di tre o di cinque giudici, eletti uno o due da ciascuna parte. I due o i quattro giudici scelgono il presidente, ed in caso di disaccordo delegano la nomina a persona autorevole, nel fine d’impedire che altri possa ritenere il lodo da pronunziarsi un giudizio compiacente.

A meno che risulti squalificato (art. 223 c), o interessato direttamente o indirettamente nella vertenza in essere, nessuna delle parti può escludere o rifiutare un giudice scelto dalla contro parte, anche se delegasse i propri rappresentanti alla funzione di giudici. È, peraltro, incompatibile con la funzione di giudice chi ha avuto, o può avere motivo di risentimento verso uno dei giudicabili (art. 292), e chi precedentemente al verdetto abbia con atti o con parole dato adito a sospetto di parzialità.

Per altro non è incompatibile colla funzione di giudice chi precedentemente abbia espresso un giudizio sulla questione, purchè tale giudizio si riferisca a principî generici e di procedura e non intacchino profondamente il merito della causa.

Nota. — È per codesta ragione morale che tra gli obblighi dei giudici d’onore evvi quello di astenersi nel possibile dal contatto con le parti in causa; quello del segreto; e di una prudenza estrema di parole e di giudizi nel fine di non offrire agli interessati motivi di recusazione o di [p. 170 modifica]reclamo verso il Presidente. Un giudizio pronunciato col concorso di un giudice, sospettato comunque di parzialità, è moralmente discutibile e spesso nullo. E perciò si fa obbligo a codesto giudice di ritirarsi, salvo, beninteso, a far valere le proprie ragioni in opportuna sede e a tempo debito, e cioè appena esaurita la vertenza alla quale partecipò come giudice.

ART. 285 b.

Il giurì costituito, come all’art. 285 a, con l’intervento diretto e personale dei quattro rappresentanti (altrimenti la costituzione è nulla: art. 60) esplica la sua azione dove ne fu decisa la costituzione, a meno di accordi speciali tra le parti interessate.

ART. 286.

Quando il giurì è unilaterale i rappresentanti non possono fungere da giudici, e perciò affideranno la nomina del giurì a persone autorevoli e superiori a qualunque sospetto di parzialità.

Nota. — Generalmente di codesta nomina s’incaricano: il Presidente del Tribunale, il Comando militare più elevato, il Sindaco o altra persona cospicua, estranea alla competizione delle parti (art. 292). Sono peraltro incompatibili con la carica di giudici coloro i quali hanno funzioni pubbliche inquirenti; poichè per essi la sola domanda di soddisfazione è un reato. Quindi, se venissero assunti a giudici d’onore, potrebbero trovarsi nell’alternativa di mancare o al proprio dovere professionale, o a quello cavalleresco.

ART. 287.

Per i giudici d’onore vigono tutti i diritti e i doveri dei rappresentanti le parti, tanto per ciò che [p. 171 modifica]concerne convegni, revoche, dimissioni, sostituzioni, presentazioni, ecc. E, perciò, i giudici che, dopo aver accettato l’onorifico incarico, per motivi personali credessero di rimettere il mandato, o venissero recusati, o che per un motivo qualsiasi mancassero al convegno, devono essere sostituiti nelle 24 ore (art. 141 e 142).

Nota. — I dimissionari, i recusati e i revocati dànno avviso delle dimissioni, recusazione e revoca con semplice lettera informativa al Presidente, se già nominato; altrimenti, e per le sole dimissioni, ai rappresentanti della parte che li nominò, e si astengono da qualsiasi ulteriore partecipazione al giurì per non renderne nullo il lodo, conservando il più scrupoloso segreto su tutto quanto venne a loro cognizione intorno alla vertenza da giudicare (articolo 292).

ART. 288.

Coloro che accettano di sostituire i giudici dimissionari, non possono pretendere modificazioni all’operato dei predecessori, essendo liberi di non accettare.

ART. 289.

Se una delle parti dichiara di non trovare chi voglia o possa partecipare al giurì, i rappresentanti suoi sono in obbligo di costituirsi giudici nell’interesse del rappresentato.

ART. 289 a.

Il giurì unilaterale e quello bilaterale non devono ammettere nè la parola, nè la missione di padrino o di testimone; ma semplicemente quello di rappresen[p. 172 modifica]tanti, deputati dai contendenti a trattare la vertenza nell’interesse dei mandanti.

Nota. — Ammettendo la parola e la missione di padrino o di testimone si verrebbe implicitamente ad ammettere la soluzione violenta del dibattito con le armi. Mentre il giurì ha carattere assolutamente pacifico e civile nell’ambito della legalità cavalleresca e della giustizia.

ART. 290.

Rifiutandosi i rappresentanti di assumere la parte di giudice nelle condizioni espresse nell’art. 289, il loro rifiuto sarà considerato come ripulsa di adire al giudizio del giurì.

ART. 291.

I giudici eletti nominano il presidente, se questo non fu già designato dalle parti, e ricevono le deposizioni delle parti avversarie e i documenti in appoggio o contro l’accusa, o sul punto controverso.

In caso di disaccordo la scelta del presidente verrà deferita com’è detto alla nota dell’art. 286. A codesta nomina non si ammettono eccezioni, pena la perdita delle prerogative cavalleresche, a meno di legittima e provata incompatibilità.

ART. 292.

Se prima o durante la trattazione della vertenza uno o più giudici si dimettessero, o venissero recusati dalla parte che li nominò, gli altri giudici sono in obbligo di conservare la carica pel funzionamento del giurì, nel fine di non accreditare il sospetto che le successive dimissioni o revoche abbiano lo scopo d’impedire la luce sui fatti da giudicare. [p. 173 modifica]

ART. 293.

Gli stessi obblighi e gli stessi diritti (si ripete) dei rappresentanti spettano ai giudici d’onore, e perciò qualunque sia la natura della vertenza sottoposta al loro giudizio, i giudici e gl’interessati tutti impegnano tacitamente la parola d’onore di conservare il più scrupoloso silenzio, sulle cause della vertenza, sul procedimento e sulla discussione nel giurì, come su tutto quanto venne a conoscenza del giurì per la missione affidatagli, e ciò anche dopo la pubblicazione del verdetto (art. 71, 72, 73).

Nota. — Verrebbe meno al proprio dovere, sì da rendere discutibile la sua permanenza nel giurì e nullo il verdetto, quel giudice il quale durante il giudizio rendesse sospetta la propria imparzialità con la frequenza di abboccamenti con i rappresentanti che lo hanno nominato, o con il loro primo; ma sarebbe venuto meno all’onore, se avesse comunque eccitato, prima o durante il giudizio, altri a deporre pro o contro una delle parti. La parte lesa in tal caso ne darà avviso al Presidente del giurì, il quale fatte le opportune indagini e provato il fatto, inviterà il giudice a ritirarsi per non dare motivo di nullità del verdetto. Codesto principio di rettitudine scrupolosa si trova consacrato nei lodi delle seguenti Corti d’onore: Firenze (permanente), del 6-6-1903; Milano del 6-8-1904; Genova, del 4-2-1906; di Torino 3-8-1921, nei quali concordemente si stabilisce che «se è abbietto propalare commecchessia fatti e circostanze conosciute per dato e fatto della funzione di giudice, è abominevole in materia d’onore per un giudice eccitare testimoni a deporre in danno di uno o di ambedue i giudicabili, perchè, in tal caso, la dimenticanza della imparzialità si tramuta in un vero e proprio atto di subornazione, che renderebbe nullo il giudizio, e degno di squalifica il giudice».

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ART. 293 a.

Il segreto imposto ai componenti il giurì non soffre eccezioni pel giudice ufficiale in servizio attivo. Al pari degli altri egli non può violare il suo dovere cavalleresco senza incorrere nella perdita delle prerogative d’onore. Ma al giudice di un giurì, ufficiale in servizio attivo, si fa obbligo di presentare al superiore diretto copia del giudicato al quale partecipò.

Nota. — Questa nota fondamentale, confermata da vari giurì e da Corti permanenti ed eventuali (Firenze 6-6-1903; Milano 6-8-1904; Genova 4-2-1906; Torino 3-6-19221), non fu tenuta presente da un giurì unilaterale di Livorno, il quale inavvertentemente, o per non chiara dizione, instaurava il nuovo principio che: «un ufficiale in servizio attivo se fosse venuto a conoscenza, per dato e fatto della sua funzione di giudice, di circostanze o fatti capaci di menomare la correttezza cavalleresca di un inferiore, ufficiale nello stesso reggimento, avrebbe sentito il dovere di riferirne al superiore diretto». È pacifico che le leggi d’onore non soffrono eccezioni per gli ufficiali in servizio attivo, gentiluomini come tutti gli altri gentiluomini. Nè può ammettersi che i principi della disciplina militare possano essere in contrasto con i principi fondamentali dell’onore. Il segreto cavalleresco permane inalterato per tutti, e gli ufficiali in servizio attivo, che hanno missione educativa, non possono venir meno a codesto obbligo di fiducia, che rinserra tutta la squisitezza del pensiero informativo delle leggi d’onore (v. nota all’art. 294).

ART. 294.

Il giurì non fa verbali e si pronunzia a maggioranza [p. 175 modifica]assoluta sui quesiti che vengono sottoposti al suo giudizio, guidato dalla propria coscienza e dalle consuetudini cavalleresche italiane, consacrate nelle leggi d’onore (v. art. 83, 84, 141, 142).

Nota. — Se per errore le testimonianze furono assunte a verbale e se, per un falso apprezzamento della propria responsabilità, o incompleta cognizione delle consuetudini cavalleresche, furono fatte sottoscrivere dai testi, devono essere distrutte dal Presidente prima della pubblicazione del lodo. Innanzi tutto una persona onesta, che depone sotto il vincolo d’onore, ha il diritto di essere creduto. In secondo luogo: se egli accetta per un senso squisito di galantuomo di deporre davanti a un giurì, deve pure da questo essere garantito, che da quanto egli affermò sulla propria onorabilità, non abbia a derivargli nocumento anche in tempo lontano. Ciò non può essergli garantito, se gli furono fatte sottoscrivere le deposizioni, le quali alla scomparsa del depositario, o anche prima (sono tante le alterne vicende della vita!), possono andare a finire dal salumaio o dal rigattiere. Ed è appunto per il diritto di codesta tutela che si fa obbligo del segreto, pena la squalifica, ai componenti il giurì medesimo.

Chiamati a deporre davanti al magistrato i giudici d’onore dovranno a qualunque costo trincerarsi dietro il segreto d’ufficio; nulla dovranno dire sulla cosa giudicata e riferirsi al lodo.

In tutti i tempi i nostri gentiluomini ci han dato l'esempio di codesta delicatezza. Ricordo, tra i molti, il Generale Medici del Vascello, e il Generale Spingardi, e potrei nominare tanti e tanti altri ufficiali del nostro esercito, onore e decoro d'Italia, i quali tacquero anche davanti al Magistrato sulle circostanze conosciute come giudici d'onore; e furono ammirati.

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ART. 295.

Il presidente del giurì ha obbligo di udire i testi introdotti dalla parte accusata, anche se indicati a deporre su circostanze generiche; la loro esclusione renderebbe nullo il giudizio.

Il presidente del giurì ha pure la facoltà d’interpellare persone estranee alla vertenza da giudicare, sempre, però, nel limite assegnato al giurì, altrimenti cadrebbe nello eccesso di mandato, che renderebbe nullo il lodo (art. 34 Regolamento C. d’On. permanente di Firenze).

ART. 295 a.

Il presidente di un giurì o Corte, ai poteri discrezionali del quale è devoluta la opportunità d’interrogare persone interessate nella causa da giudicare, ma non appellanti, può non invitarle a deporre, quando le circostanze, che esse dovrebbero confermare o negare, risultassero pienamente negate o confermate da un documento di pubblica ragione (Corte d’On. Milano, 8 novembre 1894 e 6 aprile 1895; Firenze 16 maggio 1889 e 8 settembre 1891; Torino, 3 giugno 1922 e Genova, 8 luglio 1922 — Sen. Setti).

Nota. — A questo sano concetto si uniformò il giurì di Siena (aprile 1922) sulla vertenza Piccolomini-Bassi-Ponticelli ed altri, trascurando d’interpellare il sig. Bassi, su circostanze di fatto che risultavano già chiarite e precisate in una lettera pubblicata dallo stesso Bassi nel giornale La Nazione, e perciò di pubblico dominio; tanto più poi che il Bassi non era appellante. E perciò, coloro che censurarono codesta deliberazione del Presidente del giurì (Gelli), dimostrarono una volta di più d’ignorare la giurisprudenza cavalleresca.

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ART. 296.

Qualora il giurì sia unilaterale (v. art. 280), è obbligo del presidente d'invitare gli accusatori, se trattasi d’indegnità, o la parte avversa, a deporre in contraddittorio sui fatti portati al giurì.

Nota. — Però è opportuno ricordare che il giurì unilaterale è per sua natura zoppicante, e quindi si rifletta bene a quello che si fa, perchè l’accedere a codesto invito implicherebbe il riconoscimento cavalleresco assoluto e completo del consesso giudicante, al quale si concederebbe il diritto di deliberare anche in adverso sulla vertenza sottoposta al suo esame.

All’invito del presidente di un giurì unilaterale non è, quindi, prudente, sebbene doveroso, arrendersi; poichè, accedere al giurì per dichiarare che non gli si riconosce la legittimità della funzione, costituisce riconoscimento. Chi non crede accogliere l’invito, scriva una lettera cortese, con la quale declina la chiamata.

ART. 296 a.

Il presidente di un giurì unilaterale o bilaterale non può citare a comparire davanti a lui un giudice di altro giurì, che si occupò già della vertenza in esame. Il giudice citato deve rifiutarsi all’invito, ricordando sempre che l’esponente di un giurì e il responsabile del suo giudicato è chi presiedette il consesso giudicante e non i singoli componenti. Il solo fatto, però, di citare un giudice, indicato come sopra, è mancanza d’onore. Solo una Corte in grado di appello può riesaminare il lodo di un giurì e sentirne il presidente e i giudici, se del caso (articoli 305 d; 305 e). [p. 178 modifica]

Nota. — La Corte d’onore permanente di Firenze con sentenza del 12-1-1890 affrontò con competenza la importante massima, con una elaborata motivazione, che porta le firme di D. Tommaso Principe Corsini senatore-presidente; Tenente Generale comm. Carlo Cugia dei marchesi di S. Orsola; Fambri comm. on. Paulo; Havermann col. cav. Luigi, giudici; Gelli comm. J., segretario relatore. La stessa massima fu successivamente confermata dalla C. d’O. di Milano il 18-6-1896 presid. Cingia; Torino 17-5-1898 presidente C. Roggero; Torino 3-6-1922 e Genova 8-7-1922 (senatore Setti); Roma 19-7-1922. È ovvio che un corpo giudicante non possa nè debba rivedere il giudizio di altro consesso giudicante dello stesso grado. Come si appella contro il giudizio di un arbitro al giurì d’onore, così contro il lodo di un giurì d’onore si appella ad un ente di grado più elevato, ch’è la Corte d’onore, nella formazione della quale le parti rimangono estranee per la garanzia morale della più assoluta imparzialità. Codesta garanzia, invece, sparisce completamente, quando il corpo giudicante è un giurì unilaterale, cioè eletto dal ricorrente, ch’è quanto dire: senza garanzia della indipendenza di giudizio, in quanto può legittimamente sospettarsi che la scelta dei giudizi sia stata fatta con affidamento di un lodo favorevole a chi lo invocò.

L’ignoranza poi di queste elementari leggi d’onore (giurisprudenza), che non sono il Codice cavalleresco (dottrina), ha portato sino all’assurdo in codesti inviti, spesso fatti con lo scopo subdolo di ottenere il riconoscimento della costituzione illegale e anticavalleresea di un ente giudicante, costituito ad usum Delphini. Ora, siccome sentenziò messer Nicolò: «un uomo non si giudica nè si valuta dagli orpelli della berretta o dalle nappe della toga, ma sì dalla mente e dalla sapienza che ricoprono», occorrerebbe che a codesti inviti a doppio fondo si ribellassero i gentiluomini con la denunzia ad una Corte d’onore, perchè all’osservanza dei principi sacri che formano la sola [p. 179 modifica]garanzia nei dibattiti d’onore, fossero richiamati gli.... inesperti. Se gli inviti di codesta natura furono, invece, fatti in perfetta buona fede, o per limitata conoscenza delle leggi cavalleresche, allora non rimarrà che ripetere l’invettiva celebre dell'on. Caputo al collega Morgari: «Oh, quanto facesse meglio l’on. Morgari, se si occuperebbe della sua Torino!». Non è ammissibile che la cavalleria serva di palestra alle convenienze altrui.

ART. 296 b.

Offende le leggi d’onore chi direttamente o indirettamente esercita, o fa esercitare, coercizione sui componenti un giurì d’onore, affinchè si presentino ad altro giurì riunito per statuire intorno a circostanze giudicate precedentemente da essi; è mancanza d’onore quando le pressioni di qualsiasi natura sono dirette a far riconoscere l’autorità e la legittimità del nuovo consesso giudicante (Milano, C. d’On., 8 agosto 1904; Firenze, 6 giugno 1903; Genova, 4 febbraio 1906; Torino, 3 giugno 1922).

Nota. — Le circostanze condannate come mancanza d’onore, e quindi passibili della squalifica cavalleresca, si verificano spesso nell’ambiente burocratico ed in quello militare, nei quali il superiore, o perchè seccato dalle insistenze di un presidente del giurì, talvolta non esattamente ragguagliate dai dipendenti, ordina all’inferiore di presentarsi al giurì, o quanto meno lo avverte di avergli concesso un congedo per codesto scopo, magari a spese dello Stato. Le sentenze riferite riflettono appunto casi contemplati nella massima dell’art. 296 b.

ART. 297.

I componenti un giurì potranno scegliersi tra i maestri di scherma, quando si dovesse decidere su [p. 180 modifica]questioni tecniche, o affini alla scienza delle armi; tra i gentiluomini versati nelle cose cavalleresche, tenuti in pubblica estimazione e di reputazione intemerata, nelle altre circostanze.

Note

  1. S. E. il senatore avv. A. Setti, procuratore generale decoro della nostra magistratura.