Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro IV/Capitolo IX

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Capitolo IX

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CAPITOLO NONO

La malattia di Colombo aggrava. — Egli riconosce che si approssima la sua fine: depone il suo testamento olografo nelle mani del notaro della Corte. — Errore degli storici e de’ biografi intorno alla data di questo testamento e delle disposizioni relative a dona Beatrice Enriquez. — Ultimi sacramenti dati all’Ammiraglio. — Sue supreme parole. — Sua morte avvenuta il giorno dell’Ascensione. — Viaggi postumi dell’Ammiraglio.

§ I.

Dopo la morte della Regina, le forze dell’Ammiraglio scemavano lentamente. La vigoria della sua potente organizzazione, logora da sì lunghe fatiche, aggravata dai patimenti, non essendo più sostenuta dalla presenza d’Isabella, venne meno improvvisamente. La natura ripigliava i suoi diritti. L’energia della sua volontà fu la sola che ritardasse gli effetti di una distruzione che sembrava imminente.

Quando, per iscoprire lo stretto, egli si era rimesso in mare a settant’anni, dopo di averne passati quaranta a navigare, Colombo non aveva spiegato meno eroica audacia che nella sua prima spedizione. Già più volte, infermo per oftalmia e per gotta, egli dovette patire in questo viaggio privazioni, fatiche e intemperie indicibili, alle quali succumbettero giovani marinai de’ suoi equipaggi, e di cui suo fratello l’Adelantado, non ostante la sua atletica complessione, sentiva ancora le conseguenze più di un mese dopo sbarcato1. Inoltre, gli si era riaperta una delle sue antiche ferite; le sue mani e i suoi piedi doloravano della gotta, e il male si era disteso nelle parti principali del corpo. Nonostante la sua calma apparente, e la sua stoica ritenutezza di parole, la perdita d’Isabella aveva aperto nel suo cuore una piaga, da cui sfuggiva a goccia a goccia la sorgente della sua [p. 309 modifica]vita. Da quel momento, fu visto precipitare verso il termine fatale.

Ne’ suoi atroci calcoli sul tempo che rimaneva a Colombo da vivere, il re Ferdinando era stato sagace. Nonpertanto era in Colombo un altro segreto patimento, di cui non poteva sospettare quel profondo politico.

Nonostante la sua rassegnazione, a’ voleri di Dio, ed il perdonare, che faceva alla iniquità, una desolazione più amara dell’ingratitudine regia lo martoriava incessantemente nella sua solitudine; ed era la memoria de’ paesi ch’er’andato a scoprire in nome di Gesù Cristo, la compassionevole imagine di quelle popolazioni che dianzi aveva ambito acquistare al Redentore, a cui egli per primo aveva mostrato e fatto salutare la Croce, e che allora venivano distrutte con istolta barbarie. Il Rivelatore del Nuovo Mondo sentivasi martoriato negli Indiani, smembrato nella dislocazione delle loro tribù e ne’ supplizi inflitti a quegli sciagurati, che si spegnevano maledicendo la sublime Religione, ch’egli aspirava far loro amare.

In mezzo alle sue torture fisiche, ed agli umilianti imbarazzi della sua miseria, Colombo, rimettendo la sorte de’ suoi due figli alla commiserazione della Provvidenza, avrebbe potuto ancora dimenticare le sue strettezze, il suo abbassamento e la perfidia del Monarca: ma nessuna umana precauzione sarebbe riuscita a torgli dinanzi l’imagine di quegl’infelici Indiani, e allentare il battere accelerato del suo cuore indegnato. Con quali parole consolare una tale afflizione? Qual cosa osar dire? Come moderare l’afflizione che penetrava sino ne’ visceri al discepolo del Verbo? come addolcire quell’agonia morale, dolore immenso molteplice come le popolazioni di quella razza sciagurata, di cui esso prevedeva il fine, e pareva udire le ultime lamentazioni?

Per prolungare di qualche giorno ancora la vita di Colombo, sarebbe bisognato poter risuscitare la grande Isabella, e chiudere incontanente la piaga2 sanguinolenta delle Indie. Ma dopo tante [p. 310 modifica]traversie e dolori senza nome, la sua conservazione sino a quel punto potrebbe sembrare un fenomeno. Inoltre egli portava nella sua propria sensitività, nella sua compassione ai mali altrui, la causa di una distruzion imminente.

In breve conobbe che nessun umano soccorso poteva ristorare in niun modo la rovina di un corpo logoro in tutto il suo organismo; rilesse per l’ultima volta il suo testamento, e non vi trovando cosa da mutare, volle farne deposito autentico.

Il dovere ci trattiene per brevi istanti davanti a questo atto di ultima volontà, che fu appiglio alle accuse più temerarie contro la purezza di questo gran servo di Dio.

Washington Irving pretende che «la vigilia della sua morte, fece un codicillo definitivo e regolare.» Questo autore aggiunge: una clausola di questo testamento «raccomanda alle cure di don Diego Beatrice Enriquez, madre del suo figlio naturale, don Fernando. Le sue pratiche con lei non erano mai state legalizzate dal matrimonio; e, sia per conseguenza di questa circostanza, sia che avesse da rimproverarsi di averla trascurata, pare fosse tocco da viva compunzione intorno a ciò ne’ suoi ultimi momenti3[p. 311 modifica]

Galeani Napione, sviluppato con grande acrimonia da Giovanni Battista Spotorno, cui hanno alla lor volta commentato don Martin Fernandez di Navarrete, Washington Irving ed Humboldt, seguiti da tutta la scuola protestante, tutti a dir breve i biografi di Colombo riprodussero questa affermazione del dispiacere che ispirava all’Ammiraglio ne’ suoi ultimi momenti la memoria di Beatrice Enriquez, e giudicarono qual prova della «sua viva compunzione,» il suo ultimo codicillo fatto «la vigilia della sua morte,» vale a dire il 19 maggio 1506.

Noi non lasceremo più a lungo calunniare perfino nella sua agonia il Rivelatore del Globo. È tempo oggimai d’imporre termine a questa falsificazione dei fatti procedente da una audace confusione delle date.

Dichiariamo, pertanto, francamente che questa «viva compunzione di Colombo ne’ suoi ultimi momenti» è un error grossolano.

Affermiamo inoltre che Cristoforo Colombo non fece alcuna disposizione testamentaria «la vigilia della sua morte.»

Certifichiamo che il «codicillo definitivo e regolare» che si pretende fatto «la vigilia della sua morte,» e perciò il 19 maggio 1506, aveva la data dell’ottobre di quattro anni prima!

L’ultimo codicillo di Cristoforo Colombo, «documento scritto di sua propria mano, del dì 1 aprile 1502» e deposto nella cella del reverendo padre Gaspare Gorricio, della Certosa delle Grotte, prima della partenza dell’Ammiraglio pel suo ultimo viaggio, fu, dopo il suo ritorno, confermato nel suo pieno tenore. Lo dichiara egli medesimo. In prova della sua costante volontà, Colombo lo riprodusse di sua mano il 25 agosto 1505. Solamente, sentendo approssimare il proprio fine, l’Ammiraglio desidero rivestirlo di un carattere autentico, deponendolo nelle forme legali in mano del notaro reale, e nominando a suoi esecutori testamentari suo figlio primogenito, don Diego Colombo, suo fratello don Bartolomeo, e Juan de Porras tesoriere generale della Biscaglia; cosa ch’ei fece il 19 maggio 1506, assistito dagli onorevoli testimoni il bacelliere de Mirueña e Gaspare della Misericordia, ambedue cittadini di Valladolid, e alla presenza di sette ufficiali della sua casa, cioè: Bartolomeo [p. 312 modifica]Fieschi, suo nobile compatriota, Alvaro Perez, Juau d’Espinosa, Andrea e Fernando de Vargas, Francesco Manoel e Fernando Martinez; come appare dall’atto di deposito4.

Per ben apprezzare il senso delle brevi e sottintese parole di Colombo intorno a Beatrice Enriquez, la rettificazione di questa data è indispensabile; perocchè l’intervallo che separa la data del testamento dall’atto di deposito rende inammissibile l’interpretazione ingiuriosa data ai dispiaceri ch’esprimette l’Ammiraglio.

Ora, stabilite le date nel loro ordine, rintegriamo i fatti nel proprio luogo, e restituiamo alle parole testamentarie il loro vero senso.

Nel suo ultimo codicillo del 1.° aprile 1502, ricopiato di sua mano5 il 25 agosto 1505, e deposto in forma legale solamente il 19 maggio 1506, il Vice-re delle Indie si occupava diffatti della sua compagna, sempre abbandonata, Beatrice Enriquez: ma ciò, lungi dal provare, come fu detto, un rimorso, ci manifesta una delicatezza di cuore.

Il lettore ricorderà in quali circostanze fu conchiuso il matrimonio di Colombo con questa nobile cordovana. Nonostante i suoi alti natali, Beatrice, nel fiore della bellezza, aveva sposato Colombo già incanutito, straniero, povero, sconosciuto, respinto a motivo dell’incredibile grandezza de’ suoi disegni, non recando in patrimonio del suo genio che un progetto rigettato da tre governi, non trovando, invece di protezione, altro che [p. 313 modifica]credulità e le beffe. Ell’aveva affrontato l’opposizione della famiglia, delle amiche, l’opinione del mondo, il ridicolo, facendosi una gioia segreta d’ogni suo sacrifizio; e, nondimeno, per dimostrargliene la sua riconoscenza, Colombo, poco dopo il suo matrimonio, si allontana da Cordova, non vi ritorna quasi mai, e non vi dimora più. Ed era perchè egli non apparteneva più a sè medesimo, e doveva tutto consacrarsi a’ servigi dei Re, lo che tornava quaggiù a gloria di Dio, a crescimento della Chiesa; sacrificava la sua felicità domestica al bene del genere umano. Come gli apostoli si erano separati dalle mogli e dai figli per andare a diffondere fra le nazioni la buona notizia, Cristoforo Colombo, anch’egli pospose le dolcezze terrene, e la domestica felicità al suo sublime apostolato.

Nonpertanto, nel punto che intraprendeva la sua ultima esplorazione, la più ardita e pericolosa, mentre scriveva le sue intenzioni testamentarie, ricordando i lunghi sacrifizi, il silenzioso attaccamento di Beatrice, l’abbandono in cui l’avea lasciata per tanti anni, pensando che non le aveva costituito uno stato vedovile nel suo atto di maggiorasco, Colombo fu preso da un intimo cruccio, da uno scrupolo di cuore: temette di apparire ingrato; di aver realmente trascurata troppo colei che gli si era sacrificata, ebbe paura di non avere abbastanza conciliato i risguardi dovuti alla sua compagna colle esigenze del servizio di Dio.

Non potendo oggimai modificare, rispetto al fondo, la sua istituzione di maggiorasco, conosciuta dai Sovrani e dalla Santa Sede, in favore della nobile Beatrice, la quale non dimandava nulla, dovette limitarsi a raccomandarla al suo erede universale, in tali termini da rendere doppiamante obbligatoria la sua volontà testamentaria. E questo era, dic’egli, a sollievo della sua coscienza: ricorda in due parole di quanto le va debitore: e siccome non giudicava conveniente consegnare in quell’atto di ultima volontà il perchè di tal sua raccomandazione, stimò bastasse dire: «Non è dicevole scriverne qui la ragione6[p. 314 modifica]

In queste parole Napione, Spotorno, Navarrete, egualmente estranei alla Storia di Colombo, ed alla conoscenza del cuore umano, hanno creduto scorgere la prova di una illecita unione7: Washington Irving non osando contraddirli, si è quasi messo del loro parere, quantunque con manifesta esitazione.

La inettezza di una tal interpretazione ben ha diritto di lasciarci stupiti.

E che! se il movente della raccomandazione mortuaria, quella ragione che non conveniva scrivere in quel luogo, fosse stata una pratica colpevole, avrebbe forse Colombo ricordato che Beatrice Enriquez era la madre di don Fernando? Dal momento che ricordava la maternità di Beatrice, che cosa sarebbegli rimasto da celare sulla natura delle sue relazioni con lei? Il mistero diventa impossibile dopo siffatta chiarezza di espressioni: dunque la reticenza del testatore non era relativa alla nascita del suo secondo figlio.

Gli stessi scrittori che hanno veduto in queste parole la confessione di una colpa strappata alla coscienza nel terribile momento di dir addio alla vita, hanno dimenticata la data di questo testamento: confusero la redazione di questo documento olografo coll’atto di deposito, che ne venne fatto quattro anni dopo dall’Ammiraglio, la vigilia della sua morte. In alcune parole, di cui non compresero la forza, perchè ignari del carattere dell’uomo che le diceva, hanno conchiuso ad una illecita unione e a sterili rimorsi in sugli stremi della vita: la differenza delle date non gli ha trattenuti. Non ci faremo qui a confutare la loro cieca ostinazione. Riferendoci alle prove che abbiam dato nella nostra introduzione, ci basterà dire che il matrimonio di Colombo con dona Beatrice Enriquez, dimostrato esistente da tante induzioni logiche, da tanti documenti e prove diverse, riconosciuto da’ suoi discendenti, dagli alberi [p. 315 modifica]genealogici, dalle tradizioni del suo parentado, era confessato da lui, di sua propria mano, cinque anni, quattro mesi e diciotto giorni prima dell’atto di deposito fatto «la vigilia della sua morte» in un documento autografo che, per buona fortuna, ci è stato conservato. Cristoforo Colombo chiama moglie, muger8, la sua consorte, quella donna, da cui la sua missione lo ha sempre allontanato: egli esprime il motivo di quella coraggiosa separazione9.

Mi aprirò qui d’un mio pensiero. Avrebbe la Regina voluto avere a proprio paggio un bastardo? la Regina, nella sua corte e col Re tanto nemico di Colombo!

E in questo testamento, anche l’articolo invocato contro Beatrice Enriquez offre una prova della legittimità di suo figlio. Se dona Beatrice Enriquez non fosse stata moglie legittima dell’Ammiraglio, questi avrebbe messo la sua pensione a carico di suo figlio Fernando, il qual ereditava un milione e mezzo. Non era egli naturale d’imporre quest’obbligo al figlio di Beatrice, invece di trasportarlo al figlio di un altro letto? Ma Colombo lo lasciò espressamente a don Diego nella sua [p. 316 modifica]qualità di primogenito, perchè la pensione della vedova dell’Ammiraglio delle Indie doveva esser pagata dal suo successore nell’ammiragliato, continuatore de’ suoi titoli e de’ suoi privilegi; Conchiuderemo che quest’ultima calunnia degli ultimi biografi di Colombo non cadde mai nell’animo de’ suoi persecutori, ne durante la sua vita, nè durante l’esistenza della sua stirpe diretta: lo spirito di falsa critica e di vana erudizione l’hanno creata a’ dì nostri.

Nondimeno, per giudicare sino all’ultimo istante del carattere di Colombo, questo testamento è di grande importanza. Le date non vi sono meno significative delle medesime espressioni. Le date attestano l’invariabile determinazione del testatore. Ciò che aveva scritto nel 1501, prima della sua ultima spedizione, lo ha confermato nel 1505. Ciò che aveva confermato allora, lo riconfermò nel 1506, coll’atto di deposito fatto «la vigilia della sua morte.» La immutabilità della sua intenzione fa prova della costanza di volontà e precision di ragione che n’era la causa e formava il fondo della sua energia.

Questa consacrazione delle sue ultime volontà, in tai circostanze solenni, dinanzi al notaro regio Pedro de Hinojedo, viene, giustificandolo, ad autorizzare ciò che abbiamo già affermato rispetto al candor sublime ed all’indole amorevole di Cristoforo Colombo. A giusta ragione l’abbiamo detto suscitato dall’alto, infiammato per la gloria del Verbo divino, e tale che sottometteva la sua scienza alla fede, il suo genio all’umiltà.

Non v’hanno ipocriti sotto la sindone della morte: non si dissimula più sulla soglia dell’eternità. Ora, coll’atto di deposito fatto «la vigilia della sua morte» il Rivelatore del Globo provava per l’ultima volta il carattere sovrumano della sua scoperta. Egli replicava in faccia alla tomba ciò che l’ingratitudine della corte lo aveva costretto di scrivere al Re ed ai suoi consiglieri: «per la volontà di Dio, nostro Signore, io ho dato al Re ed alla Regina le Indie, come cosa ch’era mia: posso dire così, perchè...10» [p. 317 modifica]Egli indica altresì in quel momento solenne la famosa linea di demarcazione che va da un polo all’altro; non la linea arbitraria di confine convenuta diplomaticamente fra le Corone di Castiglia e di Portogallo, sulla quale tacque sempre per rispetto, di cui parve però non fare alcun conto, che non mentovò mai, risguardandola come un’offesa verso la Santa Sede; sibbene quella linea sorprendente, che fu tirata a cento leghe dalle Azzorre11 e dalle isole del Capo Verde, dal Sommo Pontefice, assistito dal Sacro Collegio, e la quale rimarrà sempre qual testimonianza dell’ispirazione indefettibile della sede Apostolica.


§ II.


Udita la lettura di questo atto di ultima volontà, e poscia che i testimoni del pari che il notaio regio Pietro de Hinojedo l’ebbero firmato, Cristoforo Colombo prese la penna.

Già. con raccomandazioni verbali al suo primogenito, egli aveva provveduto agli interessi de’ suoi fedeli servi. Precedentemente, aveva promesso all’eroico Diego Mendez il commissariato generale di polizia alla Spagnuola12; Carvajal e Geronimo venivano fidati alla benevolenza del suo erede; ma in quel momento supremo, la sua benevolenza volle dare l’ultimo pegno della sua memoria ad alcune persone stimabili che gli aveano resi servigi ne’ primi anni della sua dimora in Portogallo. Siccome ve ne aveano di trapassati diede ai loro figli od eredi quella prova di affettuosa ricordanza: aggiunse una nota al suo testamento, e di sua propria mano scrisse, durante la medesima seduta, l’indicazione de’ piccoli legati che intendeva far loro.

Cosi l’Ammiraglio lasciò agli eredi di Geronimo del Puerto, [p. 318 modifica]padre del cancelliere di Genova, venti ducati d’oro; a Vaso Antonio, mercante genovese, stabilito a Lisbona, duemilacinquecento reali di Portogallo; agli eredi di un altro mercante genovese, Luigi Centurione Escoto, settantacinque ducati d’oro; agli eredi del genovese Paolo di Negro, cento ducati d’oro; ad un povero ebreo di Lisbona, che dimorava presso la porta dogli Ebrei, un mezzo marco d’argento.

Inoltre, per una generosa delicatezza d’intenzione, il testatore volle che questi legati fossero pagati integralmente, e rimessi ai legatarii, senza che alcuno di loro potesse sapere per qual motivo, e da qual parte giungeva loro quel dono13.

Poich’ebbe consegnato al notaro del Re l’atto delle sue ultime volontà, Colombo separò interamente il suo pensiero dalle cose terrene, cessò di partecipare agli interessi del mondo e della famiglia, per non conversare altro più che col cielo.

Secondo una legge generale della fisiologia e della storia umana, le cose tendono a finire nel medesimo modo che hanno cominciato. ll mistero che avvolge l’origine di Cristoforo Colombo ne oscura anche la fine. Poche particolarità ci sono stato trasmesse intorno a questa esistenza senza pari fra gli uomini. Il dotto canonico di Piacenza, Pietro Maria Campi, era giunto a raccogliere sulla morte di questo eroe cristiano, nozioni esatte, che si preparava a pubblicare, quando mancò repentinamente di vita. Nelle informazioni che aveva potuto procurarsi intorno agli ultimi momenti del Rivelatore del Globo, egli trovava la certezza che morì da predestinato, e che il termine de’ suoi giorni fu degno d’un apostolo e di un martire14.

Nondimeno, nella deficienza di documenti particolarizzati sulla fase suprema di questo astro luminoso nell’ordine delle [p. 319 modifica]intelligenze, è però possibile di additarne con bastante esattezza le più notevoli circostanze.

Ciascuno può di leggieri indovinare ciò che doveva essere in quel tempo un’osteria in Ispagna. È facile figurarsi la camera in cui giaceva l’Ammiraglio dell’Oceano sopra il suo letto di dolori. Solo ornamento delle nude pareti erano le sue catene che conservava sempre sospese dinanzi a sè15, come in passato i generali di Roma, trionfatori, conservavano le corone civiche e murali ottenute in premio del loro valore. Quivi, colui che aveva ricevuto tanti favori divini, colui che Dio aveva suscitato per sollevare il velo occultatore all’umanità del rimanente del globo, giaceva dimenticato dai grandi, dal popolo e in preda agli strazi accompagnanti la decomposizione del nostro corpo mortale. Nondimeno, anche in mezzo agli assalti della morte, la sua fermezza di spirito sussisteva intera; aveva il pensiero limpido e chiaroveggente come al tempo delle scoperte.

Conforme all’uso del tempo ed all’inclinazione particolare della sua pietà, vestì l’abito del terz’Ordine di san Francesco, che aveva così sovente portato; sotto il qual abito anche la grande Isabella aveva voluto rendere a Dio16 il soffio che aveva da lui ricevuto. I suoi due figli, i suoi ufficiali, e alcuni padri Francescani, suoi amici, ad ora ad ora inteneriti e riconfortati dalle parole dell’ardente discepolo del Verbo, assistevano a quest’ultima lotta della sua forte natura contro la distruzione, a’ cui rapidi progressi egli teneva dietro con chiara percezione. Terminate le sue esortazioni edificanti, volle per l’ultima volta, col Sacramento di penitenza, porsi in istato di ricevere Dio. Nessun orgoglio delle sue opere, nessun pensiero della sua gloria venne con importuna tentazione a sturbare il raccoglimento di quell’ora solenne. L’umiltà della veste di san Francesco posavagli veramente in cuore. [p. 320 modifica]

Ei si vedea dinanzi agli occhi, appese alle povere pareti della sua stanza, le catene, unica ricompensa rimastagli delle sue sovrumane fatiche. Ma temendo forse che quella vista inasprisse i suoi figli contro l’ingiustizia della corte, per cancellar l’imagine dell’ingratitudine reale, comandò che coteste catene fossero calate insieme con lui nella tomba17. Dopo aver data a sè medesimo questa prova della sincerità del suo perdono delle offese, sicuro che non conservava alcun’amarezza in cuore, confessò per l’ultima volta le sue colpe, e ne ricevette l’assoluzione. I guasti fisici avevano rispettato tutte le sue facoltà. Nel rifinimento del corpo, egli non aveva patito alcun indebolimento dell’intelletto. Il contemplatore della Creazione doveva conservare la sua lucidità d’intuizione per tutto il tempo che l’anima rimaneva in lui unita al corpo.

Spuntava il giorno sacro ad una delle grandi feste del Cattolicismo, anniversario di quello, in cui il Figliuol dell’Uomo, avendo compiuta la redenzione, e istituita la Chiesa, risalì verso il Padre per rientrare nella sua gloria. Dall’un’ora all’altra, il grande Ammiraglio dell’Oceano si sentiva sempre più attirato verso il porto della sua eternità: dimandò il favore di ricevere un’altra volta sulla terra il Pane degli Angeli. Quale spettacolo dovette allora offrire quella cameruccia di osteria! L’inviato dell’Altissimo, l’ardente adoratore del Verbo, da cui tutto è stato fatto, che riceve la visita del Verbo divino sotto il simbolo eucaristico! Qual effusione di cuore, quale soavità di conforto sovrabbondarono in quell’uomo di fede! Qual divina illuminazione dovette rischiarare il suo letto di dolori! Con quale felicità si prostrò dinanzi al suo Signore che andava a lui! Il divino Salvatore che legge nelle anime, sapeva come ardentemente aveva desiderato la liberazione del suo Sepolcro, la glorificazione del suo Nome appo tutte le nazioni della terra, e i suoi perseveranti sforzi e le sue dolorose aspirazioni verso quel sacro scopo; perciò, nonostante il tremore che ogni mortale creatura deve [p. 321 modifica]provare dinanzi alla maestà dell’Autore della vita, Cristoforo era pieno di speranza. Assicurato dalla bontà e dalla misericordia che gli aveva sin allora mostrate il Redentore, la sua anima dovett’espandersi ineffabilmente deliziata a quella venuta del Salvatore sotto il suo povero tetto.

Un istante ancora, ed egli andava finalmente a possedere la vita eterna.

L’integrità della sua intelligenza perdurava a malgrado del continuo inoltrarsi della distruzione. Quando sentì vicinissima la sua fine, Colombo usci dal suo raccoglimento serafico, e chiese il sacramento dell’estrema Unzione18. La sua lucidezza non aveva perduto nulla della sua forza: potè tener dietro alle preghiere degli agonizzanti che si dicevano per lui: ascoltò con umile compunzione la raccomandazione che andava facendo dell’anima sua uno dei Religiosi Francescani, e diceva egli medesimo le risposte: indi, dopo di avere saporate le angosce dell’agonia, sentendo venuto il momento supremo, all’ora del mezzodì, il discepolo del Verbo indirizzò al Padre dei mondi le parole stesse che’proferì il Salvatore spirando sulla croce: «Mio Dio, io rimetto l’anima mia nelle vostre mani!19» e Gli rendette lo spirito. Era il giorno dell’Ascensione 20 maggio 1506.


§ III.


Come ai tempi delle persecuzioni della Chiesa si seppellivano insiem coi Martiri, nelle catacombe, ampolle piene del loro sangue, e strumenti del loro supplizio, così le catene che avvinsero i piedi e le mani del messaggero della croce furono chiuse nel [p. 322 modifica]suo sepolcro. Indi i Francescani accompagnarono il corpo alla chiesa cattedrale di Valladolid, Santa Maria l’Antica, ove si celebrarono modestissimamente l’esequie dell’Ammiraglio dell’Indie. Dopo di che que’ Religiosi trasportarono le sue spoglie mortali nelle tombe del loro convento dell’Osservanza. Cristoforo Colombo, che aveva trovato presso i Francescani il suo primo asilo, ricevette da essi l’ultima ospitalità. Pochi giorni appresso, nessuno in Valladolid, dalla famiglia Francescana in fuori, pensava a quella gloriosa sepoltura. Sicuramente la morte di un vice-prefetto, di un colonnello leva di sè maggior grido in un dipartimento francese, che non ne causò allora in Ispagna la morte dell’uomo che aveva raddoppiato lo spazio noto della creazione.

Lo storiografo regio non degnò mentovare quella morte, Pietro Martire d’Anghiera, dianzi giustamente orgoglioso della sua dimestichezza20 con Colombo, non mentovò nè la sua malattia, nè la sua fine, quantunque dimorasse allora assai presso, a Villafranca di Valcazar. La cronaca locale, Cronicon di Valladolid,21 solita registrare con grande esattezza i piccoli avvenimenti della città, non ne disse verbo; così poco si pensava a Colombo.

La gran notizia, la prima occupazione di que’ giorni era l’arrivo della principessa dona Juana col galante arciduca d’Austria, Filippo, soprannominato il Bello. Tutti parlavano sotto voce delle contese sorte fra’ giovani sposi per la freddezza del leggiadro principe, e la tenerezza mal ricambiata della figlia d’Isabella. Buccinavasi che quelle afflizioni di cuore avevano alterata la sua ragione, senza diminuire il suo amore, e che il re Ferdinando detestava cordialmente suo genero, il quale dal canto [p. 323 modifica]suo rendeagli pane per focaccia. In mezzo agli intrighi ed alle parti, ond’era divisa la corte, il nome di Cristoforo Colombo giaceva dimenticato. In un ordine dato dal Re il 2 giugno 1506, quattordici giorni dopo la morte dell’Ammiraglio, per far mandare a suo figlio primogenito don Diego l’oro e gli oggetti che appartenevano a suo padre22, non si trova neppur una di quelle espressioni cui le più semplici convenienze avrebbero dovuto suggerire.

In Castiglia, nessuno pensava a Colombo. La sua morte aveva fatto sì poco romore, che, negli anni seguenti, alcune opere pubblicate fuor di Spagna accennavano di lui come se vivesse ancora. Ma Roma vegliava alla sua gloria: Il Papato proteggeva contro l’oblio il nome del Rivelatore della Creazione.

Passati erano già sette anni sulla sua memoria, e non l’avevano compiutamente cancellata. Quanto più si distendevano le scoperte, e tanto più spiccava l’importanza dell’opera di Colombo.

Comprendendo che nè le preoccupazioni, nè le calunnie, nè l’ingiustizia non potevano nulla contro l’eternità dell’opera sua, il vecchio Ferdinando, volendo forse calmare l’interna accusa della sua coscienza, o forse ingannare l’opinion pubblica, cancellando la memoria della sua ingiustizia verso l’eroe, e acquistando nome di monarca giusto e riconoscente, imaginò di ordinare che fossero fatte al grande Ammiraglio dell’Oceano esequie pompose a spese della corona, e che la Castiglia concedesse gratis due metri di terreno all’uomo che le aveva data metà del globo.

Perciò, nell’anno 1513, la solitudine funebre di Cristoforo Colombo fu improvvisamente turbata. Un ordine reale fece ritirare dal convento de’ Francescani di Valladolid il suo feretro, il quale fu trasportato con grande apparato a Siviglia. Si fecero esequie solenni nella cattedrale: ed havvi ogni ragion di credere che vi assistessero gli alti magistrati della marina e gli uffici delle colonie. Coloro che avevano attraversata la missione di Colombo, abbeverata di fiele la sua grand’anima, abbreviata la sua vita e calunniata la sua memoria, i suoi nemici di ogni grado e di ogni condizione, vestiti a [p. 324 modifica]gramaglia, con portamento rispondente alla circostanza, circondarono ipocritamente il suo catafalco. Strana cerimonia, comandata dall’autore della morte di Colombo, celebrata dal concorso de’ principali complici di quel morale assassinio! accoppiamento sacrilego della pietà verso i morti, con un odio che sopravviveva alla tomba! Non fu mai spoglia mortale più gloriosa oggetto di una simile solennità: e forse non fu mai veduto feretro più straordinario, dacchè racchiudeva la sola ricompensa che ricevette dal mondo l’uomo che lo aveva addoppiato! Nella sua vita aveva avuto catene; almeno dopo morte gli fu concessa una prece.

Compiuta la funzione, i Certosini suoi amici trasportarono il feretro dell’Ammiraglio oltre il Guadalquivir nel loro pacifico ritiro di Santa Maria delle Grotte; fuvvi deposto, non nelle tombe de’ signori d’Alcala, come dice per errore l’annalista di Siviglia, ma in un sepolcro nuovo, in fondo alla cappella di Cristo, fatta da poco innalzare dal frate don Diego Lugan. Le sue spoglie riposarono al riparo de’ gradini dell’altare, e sotto la protezione di que’ buoni Religiosi che lo amavano, allato ai quali egli suolea cercar ristoro contro le contrarietà cittadine. Quando Colombo aveva posto il fiume tra’ suoi nemici e sè, parevagli d’essere al sicuro dai loro attentati. In seno alla pace di quel chiostro, ove si era ricoverato sì spesso, rimase addormentato nel Signore sino all’anno 1526.

Allora il martello, che aveva turbata la calma della sua sepoltura presso i Francescani di Valladolid, risonò di bel nuovo nella sua funebre stanza. Allato a lui fu calata per l’eterno riposo la spoglia mortale di don Diego Colombo, suo successore. Que’ medesimi che avevano martoriato e ucciso lentamente il padre, erano giunti a fare altrettanto col figlio.

Dopo un oblio di dieci anni, di nuovo andò rotta la calma dei due feretri. La spoglia mortale di Colombo, tolta in silenzio dalla Certosa delle Grotte, venne trasportata a bordo di una caravella. Così l’uomo che primo di tutti aveva valicato l’Oceano, infiammato di sante speranze, che primo ne aveva misurato gli spazi carico di ceppi, fu anche il primo che lo rivalicò dopo morto: [p. 325 modifica]tornò conservando le sue catene, nella città che gliele aveva inflitte.

Nel 1536, il corpo di Cristoforo Colombo fu trasportato dalla Castiglia a San Domingo, città costrutta per ordine suo, a cui aveva dato quale stemma, oltre il leone e la torre d’Isabella, la croce e la chiave, emblemi del Cattolicismo23. Quivi fu deposto in una tomba nel santuario della cattedrale, a destra dell’altar maggiore.

lndi corsero dugentosessant’anni e nulla fu che violasse la pace del feretro di piombo, che racchiudeva l’eroica spoglia; talmente abbandonata, che, verso il 1770 s’ignorava nell’isola il luogo della sua sepoltura. Un francese, l’onorevole Moreau di San Merry ebbe la fortuna di scoprirla nella cattedrale di San Domingo, e di ristorarla24. Nel mondo erano avvenuti di gran fatti cosi sulla terra come sul mare. Un trattato di pace, conchiuso tra la Francia e la Spagna, nel 1795, avendo sicurato alla prima il possedimento definitivo della Spagnuola, il governo di Spagna non volle abbandonare questa preziosa reliquia dell’isola.

Sulla proposizione dell’ammiraglio don Gabriele de Aristizabal, fu decretato il disseppellimento del feretro di Colombo e il suo trasferimento a Cuba. Perciò, il 20 dicembre 1795, le autorità, civili e militari della colonia si raccolsero nella cattedrale di San Domingo. Il sepolcro fu aperto alla loro presenza, e vi si trovarono i frammenti di una cassa di piombo mescolati di ossa umane e di terra. Questi avanzi furono piamente raccolti e deposti in una cassa di piombo dorato, che si coperse di velluto nero ornato di galloni e fiocchi d’oro25: venne deposta [p. 326 modifica]temporariamente sopra un catafalco coperto di nero. Fedeli alle loro antiche affezioni, i Francescani vegliarono accanto al feretro, e recitarono l’ufficio dei morti.

La dimane, il governatore di San Domingo, lo Stato Maggiore della piazza, e della marina, tutte le magistrature, e i notevoli della città si raccolsero nella chiesa, ove l’arcivescovo monsignore Fernando Portillo y Torres, assistito da’ suoi quattordici canonici26, dai Religiosi Francescani, dai Domenicani e dai Padri della Mercede, celebrò la messa solenne; indi pronunziò l’elogio funebre del Vice-re delle Indie27. Poscia alle quattro pomeridiane del medesimo giorno, si fece il trasporto di que’ preziosi avanzi sul brigantino chiamato La Scoperta. Questa traslazione compartecipava della pompa militare e della cerimonia religiosa: la si sarebbe detta la marcia trionfale delle reliquie di un santo. La Chiesa rese onore al messaggero della croce, al primo cristiano che pubblicò il nome di Gesù Cristo in quell’isola. Tutte le bandiere coperte a bruno, formavano parte del corteo. Il feretro portato per turno dalle persone principali della colonia, fu processionalmente addotto al luogo dell’imbarco in mezzo ai canti degl’inni ed agli spari delle artiglierie dalle mura, alternati da quelli delle navi ancorate nel porto. Giunto fuor delle mura di San Domingo, il corteo posò. ll clero cantò le ultime sue preghiere in vista del mare sulla riva dell’Ozama; e durante quel tempo la cittadella salutò Colombo con quindici colpi di cannone, come per un ammiraglio in attività di servizio. Nel punto in cui il feretro fu deposto nella scialuppa, [p. 327 modifica]che lo doveva trasportare sul brigantino La Scoperta, l’arcivescovo consegnò al comandante la chiave28.

Al cospetto della calca accorsa sulla riva dell’Ozama, La Scoperta spiegò le vele e si diresse sulla baia d’Ochoa, ove ancorava la nave il San Lorenzo, la quale, ricevuto appena quel prezioso deposito, veleggiò incontanente alla volta dell’Avana, e vi giunse il 15 gennaio 1796. Quivi nuovi onori attendevano la spoglia mortale dell’eroe dei mari.

Fu ricevuto colla maggiore possibil pompa. Tre ordini di feluche e di canotti lo accompagnarono al porto in mezzo al rimbombo di tutte le batterie della costa e delle navi da guerra. Il governator generale di Cuba, e tutti i principali magistrati dell’Isola vennero sulla spiaggia a ricevere il feretro ed a portarlo in mezzo ad una doppia fila di soldati, sino alla Piazza Maggiore, ove l’aspettava un ricco padiglione. Fu deposto quivi un istante in un cenotafio, per consegnarlo poi al governator generale, a cui fu data la chiave. Una specie di emozion religiosa agitava tutti i petti. Il processo verbale della cerimonia prova espressamente che su questo luogo era stata celebrata la prima messa allorchè venne fondata la città29. Tutti andarono processionalmente verso la cattedrale; l’arcivescovo vi officiò, poi le spoglie mortali furono deposte vicino all’altar maggiore, nel santuario a destra, al cospetto di tutti i più ragguardevoli dell’isola.

Guardiamoci dal cader in errore:

Questo apparato guerriero e religioso, questo concorso insolito della popolazione, questa pia sollecitudine delle milizie di terra e di mare, delle autorità civili e delle corporazioni ecclesiastiche, meglio che una testimonianza di riconoscenza resa alla scoperta di quelle contrade, era un omaggio offerto alla [p. 328 modifica]memoria dell’eroe cristiano, che «dopo scoperta quell’isola vi aveva per primo inalberato lo stendardo della croce, e seminata fra gli indigeni la fede di Gesù Cristo30

A questi successivi disseppellimenti, vediamo che le vicissitudini di Colombo, e le agitazioni del suo destino non erano terminate colla morte, ch’è pure rifugio dell’eterna immobilità pel comune degli uomini. A quella guisa che per ben quattro volte egli aveva chiesto un asilo alla Famiglia Francescana, a quella guisa che aveva fatte quattro spedizioni di scoperte, anche il suo corpo fu quattro volte mandato in cerca di una definitiva sepoltura. Non direbbesi che il prodigioso gli sopravvisse oltre la tomba, come se non dovess’egli somigliare al rimanente de’ mortali anche nella morte!





Note

  1. “Tu tio ha estado muy malo, y está de las quijadas y de los dientes”. — Cartas de don Cristobal Colon á su hijo don Diego Colon
  2. Qui non possiamo scordare che, solo fra i numerosi scrittori che. hanno parlato di Colombo, il conte di Falloux ha posto il dito su questa piaga nascosta del suo cuore. Nella coraggiosa sua Storia di San Pio V, questo nobile difensore del cattolicismo ha indicato questa causa intima di patimenti, che era sfuggita alla sagacità di tutti i biografi di Cristoforo Colombo. Subito al primo colpo d’occhio si riconosce in questo addentrarsi nell’anima dell’Eroe, la finezza del tatto, un sicuro giudizio. un delicato apprezzamento, fatti risaltare dall’elegante vigoria dello stile che furono le primizie del gran carattere, e della seducente eloquenza che il signor di Felloux doveva manifestare nei giorni più tristi della nostra repubblica; e fare che dopo la sua troppo sfuggevole comparsa sulla scena politica, nelle nostre ricordanze restasse egli come la sola, incontestabile e completa superiorità posta in luce dalla rivoluzione del febbraio 1848. — In tale occasione è curioso il riconoscere col fatto che il solo gran talento prodotto sotto la repubblica non era quello di un repubblicano.
  3. Washington Irving, Storia della vita e viaggi di Cristoforo Colombo, t. IV, lib. XVIII, cap. iv, p. 37.
  4. “Testigos que fueron presentes, llamados é rogados á todo lo que a dicho es de suso, el Bachiller Andres Mirueña é Gaspar do la Misericordia, vecinos desta dicha villa do Valladolid, é Bartolomé de Fresco, é Alvaro Perez, é Juan Despinosa, é Andrea é Hernando do Vargas, é Francisco Manuel, é Fernan Martinez, criados del dicho S. Almirante.” — Testamento y codicilo del almirante don Cristobal Colon en Valladolid á 19 de maya de 1506. — Coleccion diplomatica, docum. n° clviii.
  5. “El tenia escrito de su mano è letra un escrito que ante mi el dicho Escribano mostró é presentó que dijo que estaba escrito de su mano é letra, é firmado de su nombre, etc...” — Déclaration du notaire royal Pedro de Hinojedo au sujet du testament olographe que déposait, en ses mains, l’Amiral des Indes. — Coleccion diplomatica, docum., n. clviii.
  6. “La razon dello non es licito de la escribir aqui.” — Ultimo articolo del testamento olografo scritto e ricopiata da Colombo il 25 agosto 1505. — Coleccion diplomatica, docum., n° clviii.
  7. Navarrete ha creduto sulla parola di Spotorno, il quale aveva creduto a Napione, mentre questo erasi riferito allo spregevole rigiro d’un procuratore che tentava la sua ultima colpa di malizia prima di perdere il suo processo: il prete licenziato Luigi de la Palma e Freytas. — Pleytos de los descendientes de Colon.
  8. Per la comune dei lettori non sarà inutile il far conoscere che il nome di muger adoperato da Cristoforo Colombo parlando di Beatrice d’Enriquez, non vuol dir solo donna in generale, ma che altresì significa moglie. Appunto con questo nome di muger indicavasi la regina dona Juana, vedova del re Enrico IV. Nel suo testamento olografo, fatto in Aprile del 1475 ella denominavasi: “Muger del rey don Enrique que Dios haya.” Questo nome di muger era dato altresì da Ferdinando alla regina cattolica la grande Isabella, il re diceva: “La serenisima reina doña Isabel mi muger, ec.” Ed era ancora il nome di muger che il vecchio re cattolico dava alla sua seconda moglie, la giovine germana di Foix. “Serenisima Reina nuestra muy cara é muy amada muger.” — Coleccion de documentos ineditos para la historia de España, por D. Miguel salvá y D. Pedro Sainz de Baranda, tomo XIV.
  9. “Y dejé muger y fijos que jamas vi por ello.” — Lettera di Cristoforo Colombo ai membri del Consiglio, scritta alla fine dell’anno 1500. — La brutta copia di questa lettera, tutta di mano dell’Ammiraglio ci pervenne, e la sua autenticità fu riconosciuta implicitamente ed esplicitamente dagli storiografi reali Muñoz e Navarrete. — Coleccion diplomática. Documentos diplomáticos, n°cxxxvii.
  10. “Digo serví, que parece que yo por la voluntad de Dios Nuestro Señor se las di, como cosa que era mia, puédolo decir, porque...” — Testamento y codicilo del almirante don Cristobal Colon, otorgado en Valladolid. Coleccion diplomática, docum., n° clviii.
  11. “Las dichas Indias, islas é tierra firme, que son al Poniente de una raya que mandaron marcar sobre la islas de los Azores y aquellas del Cabo Verde, cien leguas la cual pasa de Polo á Polo...” — Testamento y codicillo del almirante don Cristobal Colon, otorgado en Valladolid. — Collccion diplomática, docum., n°clvii.
  12. Diego Mendez, Testamento olografo del 19 giugno l536.
  13. “Hásele de dar en tal forma que no sepa quien se los manda de dar.” — Memoria ó apuntacion á continuacion del codicilo de mano propia del Almirante. — Coleccion diplomática. Docum n° clviii.
  14. “Vi si adaptó egli di sorte con ogni maggior patienza e carità, che fece l’ufficio d’apostólo, la vita di un martire, e la morte alla fine da un confessore di Christo.” — Pietro Maria Campi, dell’Historia ecclesiastica di Piacenza, parte terza, p. 225.
  15. “Egli havea deliberato di voler salvar quei ceppi per reliquie in memoria del premio de’ suoi molti servigi, sì come anco fece egli....” — Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. lxxxvi.
  16. “Recibió con mucha devocion todos los sacramentos...” — Historia general de las Indias occidentales. Decade 1, lib. VI, cap. xv.
  17. “Io gli vidi sempre in camera cotai ferri; i quali volle che con le sue ossa fossero sepolti.” — Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. lxxxvi.
  18. “Poi, sentendo avvicinarsi l’ora della sua morte, si fece amministrare l’estrema unzione.” — Herrera, Storia naturale delle Indie occidentali, Decade 1, lib. VI, cap. xv.
  19. “Y dicho estas últimas palabras: In manus tuas Domine commendo spiritum meum.” — Hernando Colon, Historia del Almirante Cristóbal Colon, cap. cviii.
  20. “Scripsit enim ad me Praefectus ipse marinus cui sum intima familiaritate devinctus.” — Petri Martyris Anglerii, Oceanœ Decadis primœ, liber secundus.
  21. La cronica di Valladolid, che comincia all’anno 1333 e va sino al 1539, fa spesso menzione di fatti di così minima importanza, che oggidì nessuno al certo li raccoglierebbe. I suoi redattori, nell’anno 1506, hanno giudicato che la morte di Colombo era d’un interesse ancor minore, poichè l’hanno passata sotto silenzio.
  22. Coleccion diplomatica. — documentos diplomaticos, n°. clix.
  23. Quantunque Ovando avesse cambiato posizione alla città di San Domingo con pregiudizio dei veri interessi della colonia, tutti gli abitanti, nonchè una gran parte dei materiali della nuova città, provenivano dall’antica, e formavano la continuazione della città fondata dall’Adelantado, in conformità agli ordini di Cristoforo Colombo.
  24. Annali marittimi e coloniali, t. IX, I.a serie, p. 342. — Egli trovò in una chiesa di San Domingo la tomba di Cristoforo Colombo, della quale gli abitanti del paese ignoravano l‘esistenza.
  25. “La caja es de largo y ancho corno de media vara y de alto una tercia: y se trasládó á un ataud forrado en terciopelo negro, guarnecido de galon y flecos de oro.” — Extracto de las noticias, que comunicaron al gobierno los Gefes y autoridades, etc. — Coleccion diplomatica, no clxxvii.
  26. La primazia delle Indie, che da prima era unita all’arcivescovado di Siviglia, era stata in seguito trasferita a San Domingo, che venne eretto in arcivescovado, con arcidiaconato e capitolo, composto di quattordici canonici. — Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. VI.
  27. “Se cantó solemnemente vigilia y misa de difuntos, predicando despues el mismo Sr Arzobispo.” — Extracto de las noticias que comunicaron al gobiemo los gefes y autoridades, etc. — Coleccion diplomatica. n° clxxvii.
  28. “En seguida el gobernador capitan general tomo la llave del ataud de mano del Sr Arzobispo y la entregó al Sr comandante de la armada pare que la entregase al Sr gobernador de la Habana.” — Coleccion diplomática n° clxxvii.
  29. “Delante del Obelisco donde se celebró la primera misa en aquella ciudad.” — Extracto de las noticias que comunicaron al gobierno los Gefes y autoridades, etc.
  30. “En prueba de la alla estimacion y respetuosa memoria que hacian del Héroe que abiendo descubierto aquella isla plantó el primero allí la seňal de la Cruz, y propagó entre sus naturales la Fé de Jesu Cristo.” — Extracto de las noticias que comunicaron al gobierno los Gefes y autoridades, etc. — Coleccion diplomática, n°. clxxvii.