Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo XI

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Capitolo XI

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Capitolo Undecimo

Che tutti i premi principeschi avviliscono i letterati.

Il primo premio d’ogni alta opera è la gloria. La gloria è, «quella stima che il piú degli uomini concepiscono d’un uomo, per l’utile ch’egli ha loro procacciato; quelle laudi che il mondo gliene tributa; quella tacita maraviglia con cui lo rimira; quel sorridergli dei buoni con gioia e venerazione; quel sogguardarlo con torvi e timidi occhi, de’ rei; quell’impallidire degli invidi; quel fremere dei potenti»: che tutti questi sono i corredi della nascente gloria fin che l’uomo in vita rimane. Ma l’apice di essa non innalzando mai totalmente che su la di lui tomba, io credo che la piú vera e pura gloria non sia giá quella che viene riposta nelle altrui lodi; ma quella bensí che consiste nella intima divina certezza dall’uomo portata con se stesso al sepolcro morendo, di veramente meritarla.

A chi con forte ed intenso volere si propone un tale sublime premio, niun altro premio non può cader nella mente; ma, se pure ad alcun altro guiderdone intendono le sue brame, ogni qualunque ch’egli ne riceva o ne speri, oltre la gloria, minoramento gravissimo diviene di quella. I premi tutti adunque, che gloria e gloriosi non siano, macchiano sempre e minorano la sublimitá d’ogni impresa.

Ma, poiché nell’uomo l’ingegno è tanto piú nobil cosa che la forza, innegabile sará che le opere della mente siano altrettanto maggiori di quelle della mano. E ogni premio dovendo essere conveniente e degno della fatica, sarebbe cosa ingiuriosa a un tempo non meno che obbrobriosa, se, per ricompensare l’ingegno, si venisse il corpo a premiare. L’opera dello scrittore, è opera intera di mente; della mente dunque sia il premio. Ora, nessun principe al mondo può dare un tal premio, per cui la mente soltanto ne venga ad essere veracemente onorata. Può darlo bensí un popolo libero, e col semplice applauso può darlo. [p. 181 modifica]

Il guerriero ha esposto la vita; e benché il capitano operi del pari colla mano e col senno, pure, per aver egli con ferite, con pericoli e travagli menomato il suo corpo, egli può oltre la gloria accettare altresí tali altre ricompense, che quella rimanente sua vita e piú commoda e piú larga e piú dolce gli rendano. Ma lo scrittore, che coll’intelletto soltanto lavora, per quanto anche ne venga a soffrire il suo corpo, egli però non lo espone mai a nessuno evidente pericolo. Il guerriero serve alla patria; e, a ciò eletto da lei, lavora per essa. E noterò qui di passo che guerrieri, altri che per la vera patria, io non ammetto fra i sommi: e i condottieri dei principi, se sommi pure sono stati, o sembrati tali ai nostri occhi, non l’erano essi certamente ai lor propri; che un Turenne, un Montecuccoli, o tale altro simile, non potea mai nel suo intimo core stimare se stesso, quanto un Scipione, un Annibaie, un Fabio, o tanti altri sommi, che capitani erano per la loro vera e libera patria. Ma lo scrittore, eletto all’arte sua da se stesso, non serve a nessuno altro che al vero; e non solo per la patria sua, ma per gli uomini tutti e presenti e futuri ei lavora. Chi dunque avrá e dritto ed ardire di ricompensarlo, se non se gli uomini tutti? E in qual modo? coll’accordargli la nuda gloria, che era la sola ricompensa da lui giá propostasi.

Parmi dunque che tutti i grandi uomini, che in un modo qualunque giovano agli altri, si possano degnamente ricompensare con aggiungere loro giusti premi alla gloria; ma che da questi tutti eccettuare si debbano i soli letterati; perché la loro arte è spontanea; perché si esercita con la mente soltanto, e senza pericoli; e perché in somma, abbracciando questa per la sua utilitá tutti gli uomini, non ne risguarda pure mai particolarmente nessuno.

A chi mi dirá che lo scrittore potrebbe pure abbisognare d’altro che di gloria, risponderò: — Scrittore eccellente non sará questi mai, né lo poteva mai essere; poiché egli si è pure proposto per fine dell’arte sua (per se stessa nobilissima) dei premi che tali non erano: premi che stanno in mano di pochi, che glieli possono negare come dare; che possono ingannarsi, [p. 182 modifica] a cui bisogna piacere e compiacere per ottenerli: e il piacere e compiacere a codesti assoluti premiatori, non si può certamente accordare col piacere a se stesso, al retto ed al pubblico. La gloria all’incontro, essendo un premio ideale, ed un mero nome, nulla toglie a chi la dá; per essere ella data dai molti, non si può mai dir sorrepita; e per essere ella legittimamente ottenuta in semplice dono dai molti datori, ella porta con sé ai pochi che la ottengono l’impareggiabile eterna prova, che quei soli pochissimi erano pur riusciti nella difficilissima impresa di piacere, compiacere e giovare ai molti uomini. Lo scrittore veramente sublime non può dunque mai abbisognar d’altro che di semplice gloria; perché se egli d’altro abbisognava prima d’esser sublime, non ha certamente potuto divenir tale, appunto perché proponevasi egli un fine niente sublime; ma s’egli è caduto in bisogno dopo di avere ottimamente composto i suoi libri, la intatta sua fama e le immacolate egregie sue opere gli avranno certamente procacciato qualche virtuoso amico che, prevenendo i bisogni suoi, lo impedirá di contaminarsi in appresso. Ma se pur fosse possibile che egli un tale amico non ritrovasse, lo scrittor d’alte cose, in qualunque stato ridotto ei si veda, non potrá mai apporvi rimedio che alto non sia.

Pascano adunque i principi e i loro sgherri e soldati, e i loro giumenti, cortigiani, servi e buffoni; si ricompensino con ricchezze onori e gloria i sommi guerrieri dalle vere repubbliche; ma, con la sola e purissima gloria si guiderdonino i letterati dagli uomini tutti.