Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro quarto/1. Il nesso tra le due storie nostre

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1. Il nesso tra le due storie nostre

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[p. 95 modifica] 1. Il nesso tra le due storie nostre. — Giunti al limite tra le due storie nostre, fermiamoci un momento: non sará forse perduto a far intendere ciò che le memorie della prima poterono e possono anche operare nella seconda. — L’Italia è la sola tra le nazioni d’Europa, che abbia una grande storia antica, una grande moderna; Grecia non ha finora se non la prima; l’altre non hanno in proprio se non la seconda, non hanno della prima se non guari quella parte della nostra, che resta loro dall’essere state province dell’imperio romano. Alcuni affettano trattar di quell’imperio quasi comune culla, di quella civiltá quasi comune merito, de’ romani quasi comuni padri a tutte le nazioni occidentali d’Europa. Ma sono fatti storici evidentissimi, che l’imperio fu primamente e lungamente de’ romani e degli altri italici; che la civiltá fu primamente, lungamente, esclusivamente tutta italica; e che, se alquanto del sangue de’ signori italici si mescolò con quello de’ sudditi occidentali, mescolatisi poi l’uno e l’altro col sangue germanico, quel sangue signorile non si mescolò in Italia se non una volta sola col sangue nuovo germanico. Dunque, non sembra dubbio: noi siam di razza, di sangue piú puro; noi siamo piú anticamente potenti e signori, piú nobili, nobilissimi. — Ma ciò conceduto, incombevano nell’etá seguenti, incombono ora tanto piú, alla nostra nobil nazione tutti i doveri, tutte le convenienze che sono universalmente imposte alle nobili famiglie. Dunque tra le altre: 1° Non esagerare la propria nobiltá; e cosí non dir per esempio quel nonsenso, che la nostra schiatta sia piú antica dell’altre; perciocché tutte le schiatte sono egualmente antiche, [p. 96 modifica] vengon tutte dal padre Noèe dal padre Adamo; lasciar anzi lo stesso vanto della puritá del sangue; perciocché, oltre alla difficoltá del provarla risalendoall’origini piú antiche che noi vedemmo cosí moltiplici, non è decisopoi se sien migliori, e piú atti a tutto, i sangui puri o i misti. — 2° Di puro o non puro sangue, padri o non padri nostri, coloro che abitarono anticamente le nostre terre, che bevetter le nostre arie, furono giá il popolo piú forte in guerra, piú sodo in politica, piú civile e piú colto in tutto, fra tutti quelli dell’antichitá; e ciò basta a provare la falsitá di quello scoraggiamento datoci da molti stranieri, accettato da alcuni nostri, che il nostro molle clima, la nostra bella terra ci faccia naturalmente men forti che gli occidentali o settentrionali. La bella, la molle Italia, fu giá la forte, la virile Italia. Ma dovere nostro secondo era ed è, non esagerare, non difendere in tutto questa virtú degli avi. Sacro è senza dubbio difendere, colla veritá, la memoria d’un padre; ma men sacra, ed anche men possibile, si fa questa difesa per l’avo, meno ancora per il bisavo, e poi per l’atavo e gli avi piú lontani via via; e perché piú numerosi, e perché viventi in que’ tempi piú e piú barbari, quando la potenza e l’illustrazione non si acquistavano guari in modi legittimi e virtuosi. Non v’è mezzo: o bisogna sacrificar la difesa delle conquiste e dell’imperio dei nostri maggiori, o bisogna sacrificar la difesa de’ migliori e piú certi principi della presente civiltá: tutti quelli principalmente, su cui si fondano i diritti, i doveri dell’indipendenza. Se noi giustifichiamo l’imperio dei nostri avi sugli iberi, sui galli e sui germani, noi giustifichiam l’imperio de’ francesi, degli spagnuoli e de’ tedeschi su noi; né credo che il voglia niun italiano presente. Ma pur troppo il vollero molti italiani del medio evo; e vedremo l’inopportuna memoria dell’imperio romano, e le pretese di rinnovarlo sviar le nostre generazioni, guastar quasi tutta la nostra storia moderna. — E quindi apparisce un terzo nostro dovere, che è di emular sí, ma non pretendere a pareggiare i grandi maggiori; di emularli secondo i tempi mutati e le proprie possibilitá. Tutte le imitazioni servili, troppo simili, nascono da incapacitá, riescono a [p. 97 modifica] mediocritá nell’opera, anche piú che nello scritto. Uno che voglia operare, non dico come l’antico autore di sua famiglia, ma come l’avo di due o tre generazioni, è stolto e si fa risibile a guisa del famoso cavaliero. Cosí qualunque nazione. Noi fummo giá la prima in potenza tra le antiche, la prima in coltura tra le moderne; ma noi siamo (non voglio dire a qual grado) decaduti dall’uno e l’altro primato; e bisogna saperlo vedere. Perciocché tutti quei doveri, comuni a chiunque pretende a nobiltá, sono tanto piú stretti a chiunque si trovi in nobiltá decaduta. Nella quale, i vanti d’antichitá, i vanti della virtú degli avi, i vanti di pareggiarli, si fanno poi non solamente piú risibili ma fatali. La superbia può essere tollerabile quando si cerca ne’ propri meriti, ma non quando si fruga tra gli avi. Per non essere degeneri bisogna saper essere decaduti. Per fare tutto quello che si può, bisogna non pretendere a quello che non si può. Di tutti i sogni che distraggono dalla realitá, i sogni del passato sono i pessimi, perché i piú impossibili ad effettuare; il futuro anche piú improbabile può succedere, ma il passato non succede mai piú. Uno dei grandi vantaggi delle nuove nazioni, come de’ nuovi uomini, è quello di non poter impazzire del proprio passato, di esser tutto al presente e all’avvenire; e tal fu appunto Roma antica, tale è la nazione anglo-americana presente. Del resto, io mi vergogno di dimorar cosí a lungo su queste debolezze; ma elle furono quelle di tutti quanti i secoli che ci restano a percorrere; e sono d’oggi, dicevo io e pur troppo non m’ingannavo, quando scrivevo per la prima volta questa pagina; e guastano, in somma, i giudizi sulle nostre due storie antica e moderna, e sulla presente e la futura ancora. Epperciò parvemi ufficio di storico il segnalarle. — Ma se, tutto ciò lasciando, noi ci sapremo mai innalzare all’intelligenza dell’ufficio, del destino peculiare di nostra nazione in mezzo a quello universale del genere umano (quella intelligenza che è sommo e pratico fine di qualunque storia nazionale lunga o breve), noi non troveremo nulla di meglio né di piú a dire su Roma e l’imperio romano antico, che ciò che ne fu detto dai tre maggiori filosofi storici che sieno stati mai, [p. 98 modifica] sant’Agostino, Dante e Bossuet; cioè, che evidentemente l’ufficio, la missione providenziale di Roma antica, fu quella di riunire, di apparecchiare tutto il mondo antico occidentale a prima sede della cristianitá. E questo modo di vedere si fará a noi tanto piú manifesto nelle due etá seguenti, in che vedremo accorrere le genti barbariche, e sorgere le nazioni moderne a prender lor luoghi nella cristianitá. E vedremo poi nella etá ulteriore, dei comuni, sorgere un nuovo ufficio o destino nostro non meno evidente, non meno bello; quello di ravviare e riunire la cristianitá in una nuova civiltá e in una nuova coltura; e soffrir noi certamente e molto in questa grand’opera, ma compierla meno a pro nostro che d’altrui; e poter quindi rallegrarci ancora dei nostri stessi dolori, riusciti cosí utili nell’ordine universale. E non sará guari se non nell’ultima delle etá nostre, in quella che chiameremo delle preponderanze straniere, che noi troveremo dolori senza compensi, patria storia senza patrio ufficio, senza consolazione, senza gloria. Fino allora, in un modo o in un altro, noi avevamo operato o primi o per lo meno importantissimi sui destini della cristianitá; d’allora in poi non operammo né primi né importanti, facemmo poco piú che durare, sopravivere, poltrire, vegetare, non solamente decaduti ma degeneri. — Ma le nazioni cristiane non possono restar sempre degeneri, senza ufficio, senza opera. E giá si può forse prevedere l’ufficio futuro di nostra nazione, collocata in mezzo al Mediterraneo, centro e via degli interessi materiali, collocata intorno alla sedia pontificale, centro e capo degli interessi spirituali della cristianitá: l’ufficio di procacciare, agevolare, mantenere, perfezionar l’unione, ogni sorta d’unione, delle nazioni cristiane. Sarebbe ufficio simile nello scopo, ma dissimile nel mezzo, per vero dire, ai due altri nostri antichi: noi nol possiamo piú adempiere primeggiando, ma nol potremo adempiere se non pareggiando le nazioni sorelle. E noi siamo lungi da tal situazione; ma alcuni piú o men notevoli passi si son pur fatti ad essa, uno ultimo e grande da quando attendevamo primamente allo studio delle etá nostre passate. Continuiamovi, ostinati dunque tanto piú. Il passato ha piú interesse quanto [p. 99 modifica] piú si vien rischiarando l’avvenire. La storia non serve bene a sollazzo: vi serve meglio qualunque novella alquanto elegante. Né la storia dee servire a ruminazioni, rincrescimenti, piagnistei, vanti, o, peggio, ire; non può, non dee servire se non come raccolta di sperimenti passati, ad uso di coloro che operano il presente, mirando all’avvenire della patria.