Diario di un privilegiato sotto il fascismo/1926

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1926

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Diario 1927

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I


7 Ottobre.


Posso cominciare un diario della mia vita ora che so di non scriverlo per un candido sfogo di malinconie. Questo sarà il diario della mia virilità, poiché, se Dio vuole, in questi giorni, o allucinata e tragica giovinezza, sei morta.

Non rimpiango la mia giovinezza. Mi appaga e conforta l’idea che d’ora innanzi non proverò più dei sentimenti che per la seconda volta.

Del resto, chi sa? Il Destino riserva forse a certi uomini il lugubre e straziante privilegio di rimanere sempre giovani. [p. 38 modifica]8 Ottobre.

Alle volte, quando penso a che cos’è l’Italia di oggi mi domando perchè mi stremo a lavorare. I contemporanei non ti amano, non ti aiutano, spesso ti ingiuriano e ti calunniano, i posteri ti dimenticano. Dello Zibaldone di Leopardi si è fatta una sola edizione e nessuno l’ha letta. E se finisci nella gora scolastica non è forse peggio?

Se ti si legge non ti si ama. Oh! Non essere amati da nessuno! Sapere che nessuno si occuperà delle tue opere, dopo che sarai morto, come nessuno se n’è occupato mentre eri vivo!

Dunque è il destino degli intellettuali, che non vogliono titillare le cattive passioni degli Italiani. Per sopravvivere bisogna che mi trovi un piccolo mondo fuori d’Italia.


14 Ottobre.

Sono parecchi giorni che non scrivo qui sopra — e non perchè mancassi di [p. 39 modifica]materia. Ma alle volte era materia troppo tenera e umile perchè osassi affrontarla, subito dopo questa introduzione — e questo mi rivela che anche qui dove dovrei essere assolutamente io, un inconscio e urgente bisogno di composizione ed unità, mi limita la sostanza interiore. Bisognerebbe arrivare a dire le cose terribili di me. A che scopo scrivere quello che si può dire? Non mi ci trovo ancora qui dentro, sono impacciato, avrei da lamentarmi di tante cose che fanno a mio padre, ma non so da che parte rifarmi.


20 Ottobre.

Questo mio diario mi secca. Parlare di me in fondo non mi diverte. Sono però successe e succedono tuttora, e continueranno a succedere tante cose attorno a noi che mi sento in dovere di continuare. Domani parto per Trieste... ripiglierò al ritorno. [p. 40 modifica] 1° Novembre.

Eccomi di ritorno. In viaggio grande subbuglio e facce spaventate, strani rumori. «C’è stato un attentato a Bologna contro il duce». Cè un fuggi fuggi generale. «Chiudono le frontiere, non danno più passaporti». Non capisco che relazione ci sia fra un attentato al duce e la chiusura delle frontiere. Poiché il duce non è morto, e neanche ferito; poiché l’attentatore è stato inchiodato al muro, manca perfino la scusante di non lasciar fuggire l’assassino.

Trovo all’Ulivello la casa sossopra. Non però per l’attentato di cui nessuno sa nulla, ma per il ritorno. La cameriera ci lascia, la mamma vuol scendere a Firenze per cercarne un’altra, per sistemare la Nina1 che quest’anno non andrà più al ginnasio. Deve anche farsi fare un vestito, perchè il 15 il babbo e lei devono andare a Ginevra e a Chambéry a tenere alcune [p. 41 modifica]conferenze. Il tempo è splendido, è un vero peccato lasciar la campagna.


4 Novembre.

Papà mi manda a Firenze a cercare i passaporti. Li avevo lasciati andando a Trieste. Ritorno a mani vuote. «Per ora non si danno più passaporti». C’era alla Questura una povera vecchia signora che implorava. Aveva il biglietto per Buenos Aires, partivano i figlioli, doveva restare sola in Italia? Non si era mai occupata di politica, il ritardo aveva per lei conseguenze incalcolabili. Gli impiegati si erano stretti nelle spalle: «Ordini superiori».


6 Novembre.

Rieccoci a Firenze; papà va in persona dal Questore. «I passaporti non ci sono». «Quando ci saranno»? «Non sappiamo». «Ma non si tratta di un viaggio di piacere, si tratta di conferenze [p. 42 modifica]pubbliche, annunciate da sei mesi, all’Università di Ginevra; se non possiamo partire, dobbiamo prevenire gli organizzatori...». «Non prevenga, gli ordini possono cambiare da un giorno all’altro, ritorni» ecc. ecc.


12 Novembre.

L’altr’ieri sono tornato in Questura. Ieri è ritornato il babbo, oggi sono tornato io. I passaporti non ci sono. Il papà telegrafa all’Università di Ginevra e agli amici che avevano preparato ricevimenti in onore suo e della mamma a Ginevra e a Chambéry — «Non possono andare a tenere le indette conferenze perchè sono stati loro rifiutati i passaporti» .


13 Novembre.

Il Questore ci fa sapere «che è molto seccato del nostro modo di procedere»... «che si poteva telegrafare in altra [p. 43 modifica]maniera» ... «che i passaporti non sono stati negati, ma protratti, ecc.».

In regime di dittatura la menzogna è il primo e più impellente dovere del cittadino e del funzionario; un dovere d’altronde che il capo non si limita a imporre, ma di cui dà esempi costanti e diuturni.


14 Novembre.

Al tramonto usciamo ad accompagnare fino a Porta Romana gli ultimi amici attardatisi al nostro ricevimento domenicale. Poco prima di Porta Romana incontriamo Fidelio che vien su di corsa. Alto, dinoccolato, due occhi celesti intensamente dolci e buoni, Fidelio è il prototipo dell’Italiano onesto al cento per cento, di quegli onesti passati al filtro di tutte le prove, che si trovano solo nei paesi come il nostro, sottoposti da secoli a governi che hanno metodicamente combattuto l’onestà e l’intelligenza. Egli ha amici in tutte le classi e [p. 44 modifica]i partiti, perchè gli uomini profondamente onesti si cercano, si attirano indipendentemente dalle classi e dai partiti a cui appartengono.

Un confidente della Questura l’ha prevenuto che papà è strettamente sorvegliato, e quel che è peggio destinato al confino. Mercoledì devono essere fatte le designazioni. Il confino, il tribunale speciale sono pene nuove, votate precipitosamente dopo l’attentato di ottobre. Le autorità possono mandare al confino un uomo incensurato senza che l’imputato abbia neanche conoscenza dell’imputazione. E quando si è presi nell’ingranaggio non se ne esce più. Papà dovrebbe — secondo il confidente partire immediatamente per Roma.

Papà si rifiuta. «In tempi di rivoluzione più frottole che in tempo di guerra; l’amico si informi. Domani ci riferisca». [p. 45 modifica]

II


15 Novembre.

Altri amici intimi si precipitano a casa nostra con la stessa notizia di Fidelio e gli stessi consigli: «Papà parta subito, il nostro portinaio è un agente della questura, la nostra cuoca ci fa la spia, il nostro telefono è sorvegliato, la nostra posta aperta, ecc. ecc.».

«E’ inutile che parta — dice papà — . A Roma, all’albergo dovrei declinare nome e cognome, sarò reperito più facilmente che a casa mia. Di persone per bene a cui ricorrere non ho che il Senatore Tittoni, Presidente del Senato. Scriverò a lui esponendogli il caso. O la mia lettera agisce o non agisce. Se agisce non ho bisogno di partire, se non agisce, non ho che da lasciarmi arrestare e mandare al confino ». [p. 46 modifica]

«Scriva — dicono gli amici — e parta. Se non vuol andar a Roma vada altrove, ma non resti a Firenze. Si tratta di una ondata. Se questi ordini non sono eseguiti subito, spesso non sono eseguiti più. Papà si ecclissi».


17 Novembre.

Notte di veglia, quella fra il martedì e il mercoledì. A mezzanotte si precisa un piano. Papà uscirà all’alba senza valigia, in modo che nè la cuoca, nè il portinaio, nè i poliziotti (che sono alla porta, ma che alle sei antimeridiane sonnecchiano) sospettino di nulla e prenderà a una stazione secondaria un treno omnibus per un villaggio vicino. La mamma lo raggiungerà con la valigia e proseguirà per Roma. Nina porterà all’ora solita la colazione in camera. La cuoca così non saprà nulla. Poveretta, è una brava donna questa cuoca. E’ con noi da vent’anni. E darebbe la vita per noi... ma non comprende niente. [p. 47 modifica]Papà l’ha minacciata di mandarla via sui due piedi se continua a fare la spia. «Che Dio mi uccida all’istante se dico male di loro o se dico una bugia!». Impossibile farle intendere che dire al portinaio se noi andiamo o restiamo, che dare ai poliziotti il nome degli amici che vengono a casa o che telefonano è «fare la spia», è «danneggiarci». Far la spia in fondo non è molto differente dallo spettegolare, uno spettegolare anzi più interessante perchè attira in modo speciale l’attenzione di colui a cui parli e ti conferisce maggior prestigio. Come può una cuoca semplice, anche se fidata, intendere la differenza? La cameriera (sedici anni) resiste meglio, perchè sa meno, o perchè è bella ed ha altri mezzi per essere corteggiata.

Alle quattordici la mamma parte colle valigie, diretta ostentatamente a Torino (tutti sanno che deve tenere al 20 una conferenza) ma in realtà va a Roma. [p. 48 modifica]' 21 Novembre.

Nina e io siamo restati tre giorni senza notizie. Ieri ricevemmo una lettera dalla mamma da Torino. Tittoni aveva ricevuto la lettera di papà e ne era indignatissimo. Come Presidente del Senato si era opposto alle leggi eccezionali, aveva sostenuto che i fascisti se ne sarebbero serviti per intensificare i loro soprusi. Il duce lo aveva persuaso che no, queste leggi «eccezionali» transitorie erano una difesa dei galantuomini contro le esagerazioni delle teste calde del partito.

Altri illustri personaggi di Roma si erano interessati al minacciato confino di papà, fra gli altri il senatore Campello, aiutante del re. «Benissimo, benissimo — aveva detto costui. — Se fanno questa designazione, la legge salta; una legge assurda che non è una legge, che nessuno voleva votare ecc. ecc.».

Evidentemente Tittoni aveva parlato al duce e ottenuto che telegrafasse alle questure di Firenze e Torino, che in nessun [p. 49 modifica]modo nè Ferrerò, nè la sua signora fossero toccati, perchè al concerto di sabato tutti ci attorniano come non avevano fatto da un pezzo.


29 Novembre.

Papà e mamma ricongiunti a Pisa tornano assieme ostentamente da Torino. Al Solito ricevimento la domenica seguente, la casa è fitta di amici; anche i meno fidi avevano tenuto a farsi vedere. Tutti hanno saputo dello scampato pericolo, del telegramma al Questore... il che ha dato un’alta idea della potenza di papà. E un po’ come alla caserma dopo la mia malattia che avevano creduto simulata.


14 Dicembre.

Parecchi giorni or sono papà era andato a Milano, Trieste, Torino, per parlare con critici amici della «Rivolta del Figlio», che doveva uscire a febbraio. Torna [p. 50 modifica]domenica verso le sedici. Il solito ricevimento domenicale era animatissimo. Molti amici venuti a congratularsi ancora dello «scampato pericolo», molti critici venuti a parlare del romanzo, molti curiosi venuti a sentire se papà sapeva qualcosa della fuga di Turati, avvenuta in questi giorni. Andando a riaccompagnare gli amici a Porta Romana, vediamo dei ceffi sospetti. «Che diavolo vogliono costoro?».

Ieri lunedì papà aveva un appuntamento dal dentista, alle sedici. Quando esce alle diciasette fa cenno a una vettura. Un signore gli si accosta gentilmente e chiede di salire con lui. Papà si rivolta:

«In automobile con me non ci voglio nessuno».

«Sono un agente, questi sono gli ordini».

«Se vuol seguirmi prenda un altro automobile».

«Non ho ordini in proposito».

«Allora andiamo tutti e due a piedi».

Papà rientra furioso, scrive una lettera al Prefetto protestando. Nessuna risposta. [p. 51 modifica]Due agenti si sono installati davanti al cancello del giardino e seguono papà quando si muove. Papà dichiara che non uscirà più.


20 Dicembre.

Stamane papà trova due agenti in giardino che passeggiano davanti alla casa.

«Via di qua! Chi vi ha dato il permesso di entrare qui dentro?».

«I nostri superiori».

«Violazione di domicilio, articolo 161 del codice penale. I poliziotti hanno il diritto di arrestarmi, di seguirmi ma non di stare nel mio giardino».

«Lei ha ragione. Scriva al Questore, noi saremmo felicissimi di obbedirla, ma questi sono gli ordini».

Papà scrive al Questore e al Prefetto:

«Articolo 161, codice penale. Gli agenti hanno diritto di seguirmi, diritto di arrestarmi, ma non di violare il mio domicilio». [p. 52 modifica]

III


21 Dicembre.

Il Questore, il Prefetto non rispondono alla lettera, non sono mai in Questura o in Prefettura quando papà telefona. Oltre ai due poliziotti che gironzolano pel giardino, ce ne sono due altri davanti al cancello del viale: essi interrogano gli amici che vengono da noi, e ne scrivono nome e cognome su un librettino. Fantastico quanta impressione fanno sul pubblico due loschi individui che ti interrogano.


22 Dicembre.

Papà non cessa di telefonare di tempestare di lettere il Questore e il Prefetto. Finalmente oggi viene un messo del Prefetto: «Papà non si inquieti, i poliziotti verranno tolti o almeno nascosti in modo [p. 53 modifica]che non offendano nè lui nè la legge; il Questore non ha capito... Lei intende... dopo la fuga di Turati 2 se lei se ne andasse, sarebbe una faccenda più grave ancora; tutti noi saremmo dimessi, dal Prefetto, dal Questore, fino all’ultimo poliziotto ». [p. 54 modifica]

«Ma io non ho mai avuto l’intenzione di andarmene — dice papà al Commissario prefettizio — . Loro leggono le mie lettere, loro sanno benissimo che ho rifiutato parecchie offerte vantaggiose per vendere la mia villa. Se volessi andarmene comincerei col liberarmi dei beni stabili che posseggo. Loro che leggono tutto, che sanno tutto sapranno che io ho pubblicato il primo volume di un romanzo e che sto pubblicando il secondo (e glielo mostra) a cui sto lavorando da dieci anni. Quando mai un autore lascia il suo paese proprio al momento della pubblicazione del suo libro? E poi io sono uno dei pochi che vedono chiaro nelle faccende pubbliche del mio paese. Un figlio non lascia la madre quando la vede malata e sanguinante».

«Per carità non si lasci sfuggire di questi paragoni, l’Italia non è mai stata così fiorente, ma i suoi argomenti sono ottimi... Io, lei capisce, condivido perfettamente le sue idee, sono della sua generazione... Personalmente sono un suo grande [p. 55 modifica]ammiratore. Leggo sempre i suoi articoli nella «Illustrazione Italiana» (sono vent’anni che papà non ci scrive più). Perchè non chiede un’udienza al Prefetto? Perchè non ripete al Prefetto quello che ha detto a me?».

«Ci penserò».

«Ad ogni modo siamo d’accordo col Questore, i poliziotti oggi stesso le saranno tolti dal giardino».

Il messo del Prefetto parte e i poliziotti restano. Papà tempesta di telefonate il Questore. Il Questore risponde che i poliziotti devono uscire, che hanno ordine di uscire. Papà chiama i poliziotti a sentire il contrordine al telefono. I poliziotti rifiutano.

«Così fanno sempre i superiori. Noi dobbiamo eseguire gli ordini tali e quali. I superiori fan finta di disdirci... ma con lei. Noi abbiamo ordine di star qui, noi abbiamo ordine di seguirla, noi abbiamo ordine di entrare nella sua vettura, anche se han detto il contrario a lei». [p. 56 modifica]24 Dicembre.

Stamane è venuto il Commissario della Questura di S. Spirito. E’ piccolo, grasso, pallido, accento meridionale, mani grassocce, untuose, occhi falsi che sbirciano dappertutto anche se ti fissano. Papà in giardino stava facendo una scena terribile ai poliziotti ingiungendo loro, col codice in mano, di andarsene.

«Son qua, son qua per appianare tutto. Scusi, scusi, signor professore. Io sono un suo grande ammiratore, lei ha ragione io sono con lei... io sono dei tempi passati. Ci vuole un po’ di pazienza. I poliziotti saran levati dal suo giardino. Abbiamo preso accordi col padron di casa. Staranno nel giardino del proprietario». E il commissario fa una visita strategica al nostro giardino, a quello di Franchetti e a quello del Bobolino. (Il nostro giardino abbastanza vasto è irregolarissimo; largo anteriormente e folto di alberi e siepi, si restringe a una striscia nuda verso la parte posteriore della villa dove si aprono il salone e la sala da pranzo, sopra ai quali [p. 57 modifica]le camere da letto. Questa striscia strettissima è limitata a est dalle serre del Bobolino, e a ovest dalle serre del proprietario).

Alle sedici i due poliziotti se ne vanno dal nostro giardino e sono sostituiti da altri otto poliziotti che si appostano due davanti alle serre del proprietario a un tiro di fucile dai saloni e dalle camere da letto, due in portineria, due sul viottolo che separa il nostro giardino dal giardino di Franchetti, due nell’automobile destinata a seguirci che staziona davanti al cancello.

I poliziotti si alternano giorno e notte, fa un freddo intenso, nevica, gela. Si sente tossire tutta la notte. Gli agenti fanno dei fuochi in giardino come in un bivacco. Si attendano come possono, si rifugiano chi nelle serre, chi sotto la tenda, chi in automobile.


27 Dicembre.

Questo giuoco ha un non so che di divertente all’inizio, quando ci sono le [p. 58 modifica]telefonate e le scene del papà coi poliziotti, e i Commissari che vengono e vanno, ma uggia quanto più il tempo passa. Tutti sono nervosi, papà è di pessimo umore. Uscire coi questurini che gli galoppano dietro non vuole: passeggiare in giardino con tutti quegli occhi fissi su di lui, lo snerva: non esce più. Gli amici non osano più nè venire, nè telefonare, nè scrivere. La cuoca continua a fare la spia, ma è furiosa contro di noi del male che ci fa. Il portinaio non parliamone. E’ un vero brigante toscano, intelligentissimo, senza senso morale, fa mille mestieri sospetti oltre che il portinaio e il giardiniere, e per quanto la polizia non si occupi di affari di ordinaria amministrazione, non gli accomoda affatto di avere agenti ad ogni ora del giorno in portineria. La cameriera, (sedici anni), civetta coi poliziotti.

  1. Sorella di Leo.
  2. ¹ Fuga veramente rocambolesca, quella di Turati, organizzata da Carlo Rosselli, il capo del partito socialista. Turati abitava a Milano, nel cuore della città, in piazza del Duomo. La casa era letteralmente assediata. Due guardie in permanenza davanti la porta di strada, una nella cucina del suo appartamento. Turati era una figura tipica, alta, quadrata, due occhi nerissimi, vivissimi, mobilissimi, da diavolo, che egli rotea in tutti i sensi, una barbetta corta quadrata. Chi l’aveva visto una volta, non poteva dimenticarlo. Far fuggire un uomo di settantanni, in quelle condizioni, era un’impresa che sorpassava l’immaginazione degli uomini medi, non però quella del Rosselli. Era stato combinato che Turati si desse malato per non dar sospetti alla guardia della cucina. Il giorno determinato, Turati uscì travestito dalla casa accanto. Si rifugiò in un villino poco lungi dalla città, poi raggiunse Parri e Rosselli che lo aspettavano a Savona con Oxilia, da Bova, Pertini ed altri per portarlo in Corsica, con un motoscafo. Viaggio pieno di emozioni, nessuno dei salvatori era marinaio, diressero lo scafo così a lume di naso. Accompagnato Turati in Corsica e consegnato alle autorità francesi, con la stessa imbarcazione ritornarono in Italia, si consegnarono a dei poliziotti che erano sulla spiaggia dove approdarono.

    (Nota del redattore).