Enrico/Atto V

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Atto V

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Atto IV Nota storica
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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Costanza dal suo appartamento, e Riccardo dalla porta comune1.

Riccardo. Questo foglio, signora, è a voi diretto,

L’ebbi teste da un mio fedele amico,
Di don Pietro seguace.
Costanza.   E quai novelle
Reca del suo signor?
Riccardo.   Leggete il foglio.
Cose strane udirete, e tai che forse
Vi faran lieta.

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Costanza. Ohimè! tremante il leggo.

“Alfine han trionfato i miei nemici.
“Enrico è in trono, ed io ramingo e abietto.
“Previdi di Ruggiero il giorno estremo,
“Previdi il mio destin. Le mie vendette
“Già meditai, ma più non giunsi a tempo.
“Enrico è Re; voi lo guidaste al trono;
“Ed ecco la mercè ch’indi ne aveste.
“Pubblici sono i torti vostri, e sento
“Pietà di voi, come di me. Se avete
“Coraggio di seguir un mio disegno,
“Far le nostre vendette ambi potremo.
“Siate mia sposa. Sarà mio pensiero
“Far che la legge di Ruggier s’adempia.
“Sono le genti mie sotto Palermo.
“Datemi un vostro cenno, e mi vedrete
“L’ingrato usurpator balzar dal trono.
Don Pietro cugin vostro e Vostro servo. (resta sospesa
Riccardo. Che pensate, confusa?
Costanza.   Ah non vorrei
Sparso per me de’ cittadini il sangue.
Riccardo. Non temete di ciò; sol che la voce
Di don Pietro si sparga, ei non ha d’uopo
Per esser Re di sfoderar la spada.
Malcontenti già son del Re novello
I grandi e il volgo. Il carcere d’Ormondo
Cauti ci rende, e il non veder concluse
Le vostre nozze, fa temer di peggio.
Costanza. Ite dunque a colui che il foglio diede;
Dategli la mia fè. S’è amico vostro,
Egli vi crederà. Dica a don Pietro,
Che disponga di me; che la mia destra
Per lui riserbo e la ragion del trono.
Riccardo. Lieto men vado a così bella impresa.
(parte per la porta comune

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SCENA II.

Costanza, poi Leonzio e Ormondo, ambi dalla porta comune.

Costanza. Vedrai, perfido Enrico, il degno frutto

Della tua infedeltà. Vedrai che vile
Una figlia di Re l’onte non soffre.
Chi s’abusa d’amor, provi lo sdegno.
Leonzio. Deh principessa, nelle vostre stanze
Permettete che Ormondo inoltri il passo.
Costanza. Per qual ragion?
Leonzio.   Ve la dirò; ma tosto
Concedete ch’ei vada.
Costanza.   Io non lo vieto.
Leonzio. Celatevi colà. (ad Ormondo
Ormondo.   Fremo di sdegno.
(entra nell’appartamento di Costanza

SCENA III.

Costanza e Leonzio.

Leonzio. La libertà d’Ormondo a’ prieghi miei

Concesse il Re, ma i’ non dovea sì tosto
Trarlo di sua prigion. Dimane solo
Era il giorno prescritto. Amor m’indusse
L’ordine a prevenir. Luogo ad Enrico2
Accessibile meno, io più di questo
Trovar non so. Vostra pietade adunque
Concorra all’opra, e fin che dura il giorno
Custodite celato un infelice.
Costanza. Questo superbo Re, per cui cotanto
Sudor spargeste, al precettar fa scorno.
Mirate come i documenti apprese

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Della vostra saggezza. Ei prima offende

li suo benefattor. Genero vostro
Ormondo non rispetta. Ah, dal virgulto
Si conosce la pianta; e se per tempo
Non si svelle dal suol, cresce molesta.
Oggi però ad un sol colpo vedrassi
Una falce tagliare il tristo ramo3.
(entra nel suo appartamento

SCENA IV.

Leonzio, poi Matilde dal suo appartamento.

Leonzio. Ah preveggo pur troppo alte ruine!

Vien l’infante don Pietro, e guida seco
E per terra e per mar falangi armate;
Irritata è Costanza; il popol tutto
Mormora del Monarca. Egli non pensa
Che alla sua debolezza. Ah tutto questo
S’unisce a danno suo...
Matilde.   Deh padre amato,
Che fa il mio sposo? È in libertade, oppure
Ha il piè cerchiato ancor dalle catene?4
Leonzio. (Non s’affidi il segreto ad una5 donna).
Chiuso è in carcere ancora. Al nuovo sole
L’avrete in libertà. Ma sperar posso
Che v’accenda per lui fiamma d’amore?
Matilde. Egli è lo sposo mio, perchè temerlo?
Leonzio. Chiari segni finor da voi non n’ebbe.
Matilde. Posso sentir amor, e non mostrarlo.
Leonzio. Ma ciò non basta ad uno sposo amante.
Presto, Matilde, a respirar andrete
Un’aura più felice. In mezzo a tante

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Pompe di Corte il vostro spirto è inquieto.

Ormondo seco guideravvi al vago
Paese suo, dove natura ed arte
Miransi unite in delizioso nodo.
Matilde. Son disposta a seguir il mio destino.
Leonzio. O saggia, o amabil figlia, o cara speme
Del paterno cor mio!6 Fra mezzo a tanti
Importuni timori, e franco e lieto
Voi mi rendete, e di mia gloria certo.
Ite felice, ed attendete in breve,
Che staccato dall’empia iniqua Corte,
Con voi ne vegna a terminar miei giorni.
(parte per la porta comune

SCENA V.

Matilde, poi Enrico con guardie dall’appartamento reale.

Matilde. Misera! a quale stato io son ridotta?

Per salvar la mia fama affettar deggio
Un amor che abbonisco, e del dolore
Non palesar i mordimenti atroci7.
Consueto conforto a un core afflitto
Sono i pianti e i sospiri, ed io non posso
Piangere e sospirar. Morir io deggio
Senza mostrarne di dolore un segno?
Crudelissimo amor, non ti bastava
Togliermi il caro ben? Volesti ancora
Che all’ira tua sagrifìcassi il core?
Ma non vadan più oltre i tuoi disegni.
Far misera mi puoi, ma non già vile,
Nè ti pensar ch’io di soffrir mi penta
Con eroica costanza il mio destino.
Stelle! Enrico? Ah si fugga. Olà, soldati,
(le guardie occupano tutti i passi

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Liberate quel passo.

Enrico.   Perdonate,
Se uso con voi l’autorità reale;
Bramo di favellarvi, e perchè temo
V’involiate di nuovo agli occhi miei,
Fo dalle guardie custodire i passi.
Matilde. Che pensate perciò? Le vostre guardie
Non mi fanno spavento. Avrò in difesa
Per salvar l’onor mio valor che basta.
Enrico. Deh che dite, Matilde? Io non pretendo
D’oltraggiar l’onor vostro. A voi far noto
Sol bramo un mio pensier. Se otterrà questo
La vostra approvazion, cangiarsi forse
Vedrem la nostra sorte. In ogni guisa
Lascierò in libertà l’arbitrio vostro.
Matilde. Salva la gloria mia, salvo il decoro,
Qualche cosa farei per la mia pace.
Enrico. Rechinsi due sedili, (alle guardie) A me dappresso
(a Matilde
Non vi fia grave il rimaner per poco. (siede
Matilde. Tanto v’ascolterò, quanto mi lice. (siede
Enrico. Ritiratevi, guardie, e alcun non entri,
Sebben fosse Leonzio.
(Le guardie si ritirano, parte per la porta reale, parte per la comune.
Matilde.   (Alma, costanza!) (a parte
Enrico. Siamo soli, Matilde, onde possiamo8
Liberi favellar. La vostra gloria
Vi costringe a fuggirmi; ed io perdono
Questa crudel necessitade a voi.
Mi lusingo però che assai vi costi
Cotesta indifferenza. Io dal mio core
Misuro il vostro. Quello stesso io sono,
Quella stessa voi siete; e qual ragione

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In noi puote cangiar lo stesso affetto?

Infedel mi credeste; io vi credei
Mancatrice, sleal. La mia innocenza
Nota vi feci, ed io la vostra intesi.
V’amo quanto v’amai, nè creder posso,
Che se un giorno mi amaste, ora mi odiate.
Vi replico, Matilde, io qui non sono
Per tradir vostra fama, anzi col sangue
Questa difenderò. Ma per quei primi
Fortunati momenti in cui vi piacqui,
Siate meco sincera. Il vostro labbro
Deh non mentisca. Da colei che un giorno
Tanti sparse per me sospiri e pianti,
Poss’io questo sperar?
Matilde.   Tutto potete
Sperar da me, se il mio decoro è salvo.
Enrico. Non è mai colpa il confessare il vero.
Qui nessuno ci ascolta. In ogni guisa
Salvo è il decoro vostro. Io bramo solo
Questo saper da voi: se ancor mi amate.
Matilde. Poichè, signor...
Enrico.   Deh sospendete ancora
Di rispondermi. Udite. Io già preveggo
Qual sarà la risposta: Io più non v’amo,
Così vuol la mia gloria e l’onor mio.
Sì, v’intendo: Poichè, (volete dirmi)
Signor, son moglie altrui, non posso amarvi.
Ma non parlan così quegli occhi accesi;
Essi a vostro dispetto a me fan noto
Quell’interna passion che nascondete.
Che vi giova negarlo? Un Re che v’ama,
Che v’assicura di non farne abuso,
Non potrà udir dal vostro labbro il vero?
Questo è troppo rigor. Deh non vogliate
Occultarmi, Matilde, il vostro cuore.

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Via; svelatelo a me. L’ultimo dono

Questo è che chiede un infelice amante.
Matilde. Ah v’intendo, crudele. A voi non basta
Il cor che mi rapiste, e quella vita
Ch’io vo perdendo; la mia gloria ancora
Mi volete involar prima ch’io mora.
Sì, trionfatene pur; dirlo m’è forza:
V’amo ancora pur troppo. Ah con qual zelo
Custodia quest’arcano! e voi, crudele,
Mei strappaste di bocca. Io v’amo ancora;
Vel confermo, o signor, ma non sperate
Un sospir, uno sguardo, un atto solo,
Che vi parli d’amor. Nè men sperate
Di vedermi mai più. Sì, da Palermo
Partirò col mio sposo; allor per sempre
Seperati e lontani... (Ah che nel dirlo
Mi si stacca dal sen l’alma dolente!)
Enrico. Partirete voi dunque, ed io per sempre
Vi perderò?
Matilde.   Così il destino impone.
Enrico. Deh soffritemi ancor per un istante,
Giacchè l’ultima volta è ch’io vi parlo.
Ditemi: con qual gioia incontrareste9
Il piacer d’esser mia?
Matilde.   Deh più non dite,
Che mi fate morir. Veggo pur troppo
Che rimedio non v’è...
Enrico.   Non v’è rimedio?
Ah Matilde, non è diffidi tanto
Questa sorte per noi.
Matilde.   Ma questa, Enrico,
È troppa crudeltà! Sognar lusinghe
Per sedur il mio cuore, è un abusarvi
Della mia sofferenza.

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Enrico.   Udite almeno,

Se ho ragion di sperarlo; indi, mia cara,
Condannatemi allor. Dite: d’Ormondo
Chi vi fece consorte? amore, o sdegno?
Matilde. Ah, pur troppo il dirò. Sdegno e vendetta
Mosse la destra mia.
Enrico.   Sembravi questo
Santo e giusto imeneo? Sarebbe al Cielo
Un’offesa il disciorlo?
Matilde.   Ah che mai dite!
E l’onor mio?...
Enrico.   Basta a salvar l’onore,
Ch’a più degno imeneo passi la sposa.
Matilde. Ma chi v’ha sulla terra, a cui spettasse
Questo nodo di sciorre? Il volgo ignaro
Che non guarda più su di sua bassezza,
Vi direbbe tiranno.
Enrico.   Una ragione
V’è per lo volgo ancor. Quando s’intese,
Che un ministro del Re la propria figlia
Senza il regio consenso altrui cedesse?
Quest’insulto soffrir saria viltade,
Nè si può vendicar, che col disciorre
L’empio, ingiusto imeneo.
Matilde.   Ma il padre?
Enrico.   Il padre
È suddito cogli altri.
Matilde.   E Ormondo?
Enrico.   Ormondo
Soffra la sorte sua. Fra il Re e il vassallo,
Chi ha ragion di voler?
Matilde.   Diria che voi
Gli rapite la sposa.
Enrico.   Eh che non siete
Voi la sposa d’Ormondo. Un giuramento

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Dato sol per vendetta a nulla vale.

Nè con voi giacque, nè di voi raccolse
Frutto d’amore. In libertà voi siete.
Matilde. Ma Costanza?
Enrico.   Costanza io non pavento.
Or son già Re, saprò coll’armi ancora
Assicurarmi la corona in fronte.
Matilde. Deh pensate, signor...
Enrico.   Non più, Matilde.
Risolvete: da voi tutto dipende.
Matilde. (Ahimè! Che fo?) (a parte
Enrico.   Voi dubitate ancora?
Ah crudel, non mi amate. Io dirò dunque
Ch’eran finti i sospiri, e che col pianto
M’ingannaste finora. Anima mia,
Movetevi a pietà. Vedrete quanto
Faccio per voi. Della corona a parte
Vi bramo, idolo mio; senza di voi
M’è odioso il regno. E sì tiranna ancora
Negherete conforto a un Re che pena?
Deh per pietà...
Matilde.   (Numi del cielo, aita!
Soccorrimi, o virtù). Deh rammentate
La fatal confession poc’anzi fatta
Dall’incauto mio labbro, indi temete,
Se ’l consente ragion, dell’amor mio.
Or di più vi dirò. L’infausto nodo,
Fatto sol per vendetta, a voi non toglie
Punto di questo cor. Se farvi lieto
Puote l’affetto mio, tutto egli è vostro.
Che vorreste di più? Volgare amante
Quegli è a cui cal di membra vili il dono
Ama lo spirto eterno, ama i costumi
L’eroico amante. Tal voi siate, e allora
Potrò farvi felice, e allora amarvi

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Senza macchia potrò di mia onestade.

Deh vi basti saper ch’io serbo a un punto
Ad Ormondo la destra, a Enrico il core.

SCENA VI.

Ormondo e detti.

Ormondo. Porgi la destra a chi hai donato il core,

Femmina scellerata.
Matilde.   (Aita, o stelle!)
(alzandosi spaventata10
Enrico. Temerario, chi sciolse i ceppi tuoi?
(impugnando la spada11
Ormondo. Il Ciel per mia vendetta.
Enrico.   Anzi t’ha scorto
Degnamente al supplizio. Olà! (escono le guardie
Ormondo.   Venite.
(impugnando la spada
Un disperato cor non ha spavento.
Enrico. Levategli quel ferro.
(Le guardie attaccano Ormondo che si difende.
Ormondo.   Io non lo cedo
Che di sangue bagnato.
Matilde.   Oh Dio! fermate.
Sposo... Ormondo... (Infelice! Io son cagione
Del fatal suo periglio). (a parte
Ormondo.   Ahimè! Son morto.
(rimane ferito
Matilde. Sventurato consorte! A qual estremo
Gelosia vi guidò!
Ormondo.   Potessi almeno (a Matilde con isdegno12
Trarti meco alla tomba. Allor contento
Di mia sorte sarei.

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Matilde.   Giusta è la brama.

Eccovi il seno mio. (s'accosta ad Ormondo
Enrico.   Stelle! che fate? (trattenendola
Matilde. Io faccio il mio dover. Non è il mio cuore,
Barbaro, qual è il vostro. Egli è il mio sposo.
Questa tarda pietade è a lui dovuta.
(accostandosi ad Ormondo
Enrico. Divideteli, o guardie; e il moribondo
Guidate altrove ad esalar lo spirto13.
Ormondo. Barbaro usurpator dell’altrui sposa14,
Il ciel farà le giuste mie vendette.
Sì, crudel, perirai...
(Vien condotto via dalle guardie per la porta comune.
Matilde.   Seguirlo almeno
Potessi anch’io! Deh per pietade, Enrico,
Questo non mi negate ultimo dono.
Deh lasciate ch’io stessa all’infelice
Possa con le mie man chiuder i lumi.
Enrico. Un odiato don voi mi chiedete.
Io non vel do... crudel... v’amo... vorreste?...15

SCENA VII.

Leonzio dalla porta comune, e detti.

Leonzio. Oh spettacolo orrendo! Oh Re crudele!

E tu, figlia, che fai presso il tiranno,
Quando muore il tuo sposo? Oh mio rossore!
Oh perduta mia gloria! Oh figlia indegna!
Matilde. Padre, lo giuro al ciel, trattiene Enrico
A forza i passi miei. Crudel mi vieta
Di seguir il mio sposo. Ah, voi mi siate
Pietoso intercessor.

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Leonzio.   Dove s’intese

Più barbara empietà? Qual core avete,
Enrico, in seno? A un infelice estinto,
A una misera moglie ancor negate
Questo lieve conforto?
Enrico.   Ah di Matilde
Mi predice il mio cor barbaro evento.
Ormondo la vuol morta.
Leonzio.   In ver voi siete
Fedel custode della vita altrui.
O Matilde sen vada, o col mio ferro
Saprò farle16 la strada.
Enrico.   Al genitore
Dovrà tutto la figlia il suo destino.
Vada pur; non lo vieto. Ah che pur troppo
Non la vedrem mai più.
Matilde.   Se questo fosse
L’estremo dì che ci divide, Enrico,
Voi fabbricaste la comun sventura.
Dopo che a voi mi tolse il mio destino,
Dopo che sposa er’io, non dovevate17
Tentar la mia costanza. Alfin son donna,
Facile alla pietà, facile a’ prieghi
D’un amante languente. Il fier contrasto
Del dover, dell’amor ch’i’ avea nel seno,
Voi vedeste pur troppo, e trionfaste
Della mia debolezza. Eccomi cinta
Di vergogna e di duolo. Eccomi indegna
D’amor, di vita e di pietade ancora.
Padre, a ragion di questa figlia ingrata
Voi dolervi potete. Io mal seguendo
Gli alti consigli vostri, al duro passo...
Ma sen muore lo sposo; odo le giuste
Querele sue. Cruda, spietata, infida

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L’infelice m’appella, ed io non corro

A scemar il suo duol ’nanzi ch’ei mora?
Vadasi dunque... Ahimè! qual non inteso
Tremor m’arresta? In quai confusi moti
Palpita il cor? Perchè vacilla il piede?
Ah sarebbe mai questo un qualche avanzo
Dell’indegno amor mio? Sì, sì, t’intendo,
Barbaro, crudo amor. Tu mi vorresti
Avvilita all’estremo. Ah non fia vero;
Se fa remora Enrico a’ passi miei,
Io partirò senza mirarlo in volto.
(parte per la porta comune

SCENA VIII.

Enrico e Leonzio.

Enrico. Deh seguitela almeno...

Leonzio.   Oh Re infelice!
Non vedete il destin che vi sovrasta?
Altro non s’ode per le quattro strade,
E per le piazze, e nella reggia stessa,
Che il nome di don Pietro. Ei con le navi
Occupa il porto. Di cavalli ha piena
La vicina campagna, ed egli stesso
Alla testa sen sta di mille fanti.
Enrico. Che pretende per ciò?
Leonzio.   Balzar dal trono
Chi è indegno di regnar.

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SCENA IX.

Riccardo dalla porta comune e detti.

Riccardo.   Signor, venite (a Leonzio

La figlia a riveder l’ultima volta.
Leonzio. Perchè l’ultima volta?
Riccardo.   Ella già muore.
Enrico. Ahimè! come? che dite?
Leonzio.12 Oh me infelice!
Riccardo. A piede18 delle scale Ormondo giace;
Che non soffrì d’esser più oltre scorto
Pe ’l sangue che spargea. Posato appena
Sull’ultimo gradin, di due soldati
Fra le braccia pietose, un mesto pianto
S’udì dall’alto, che d’Ormondo il nome
Fra singhiozzi e sospiri accompagnava.
Alzò gli occhi languenti il moribondo,
Vide la sposa, e con le braccia aperte
Chiamolla a sè. Come se l’ali avesse
Rapida scese, e in men ch’io non lo narro,
Si slanciò tra le braccia dello sposo19.
Finse pietà l’iniquo, ed amoroso
D’abbracciarla mostrando, dal suo fianco
Cacciò uno stile e gliel piantò nel petto.
Mori, disse ferendo20, e meco vieni
Fedele in morte, se noli fosti in vita.
La misera baciò la man crudele
Che l’aveva ferita e nulla disse,
Chè morte le gelò repente il labbro21.
Leonzio. Infelice Matilde, in quello stato
Di vederti non soffre un vecchio padre!

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Crudelissimo Enrico, ah voi la fonte

Siete d’ogni mio mal.
Enrico.   Voi l’uccisore
Siete di vostra figlia. Ecco il bel frutto
Del vostro zelo, di quel zelo, ingiusto,22
Che offendeva il mio cuore e la fortuna
Di Matilde tradiva.
Leonzio.   Io feci quanto
A ministro d’onor si conveniva.
Voi mancaste al dover di giusto prence.
Distinguer dovevate23 una passione
Che offendea vostra fama. Il frutto è questo
Della mia fedeltà? Barbaro, ingrato,
Io v’innalzo sul trono, e voi tentate
Di sedurmi una figlia? Io tutto faccio
Per rendervi felice, e voi mi fate
Il più misero padre? Ah che pur troppo
Prevederlo dovea. Come sperate
Trovar chi fido al vostro trono assista?
Come sperate, o ingrato, su quel trono24
Pacifico regnar? Sul vostro capo
Pende il fulmine pronto25; e non avrete
Chi a sottrarvi s’esponga.
Enrico.   Olà: tacete.
Toglietevi dinanzi...

SCENA ULTIMA.

Costanza dalla porta comune, e detti.

Costanza.   Enrico, io vengo

D’ordine di don Pietro ad intimarvi
O rinunzia del trono, o ceppi e morte.

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Nè fia per voi scarso favor che venga

Nunzio del destin vostro una Regina.
Enrico. Come! don Pietro?
Riccardo.   Sì, già di Palermo
Tutte occupò le vie. Sale la reggia;
Si dice il Re.
Enrico.   Che fanno i miei soldati?
Riccardo. Sono vostri nemici.
Leonzio.   Ecco dal Cielo
11 fulmine scagliato.
Enrico.   E con qual dritto
Don Pietro aspira di Sicilia al trono?
Costanza. Con quel dritto che a lui diede Costanza.
Enrico. Ah crudeli, v’intendo. Uniti tutti
Siete contro di me.
Costanza.   Che? Pretendete26
Impunemente calpestar le leggi
Dell’estinto Ruggiero? Alla mia fronte27
La corona usurpar? Non vi bastava
Possederne di lei la maggior parte?
Ora scendete da quel trono, a cui
Con inganno saliste, ed apprendete
Che tirannico impero ha tristo fine.
Leonzio. Oh mal spesi sudori! oh mie fatiche
Mal compensate! oh zelo mio schernito!
Enrico. No, non fia ver che questo regno usurpi
La rival di Matilde. Estinta ancora
Regnerà sul mio soglio in quella guisa
Che regna nel mio cuor. Venga don Pietro,
Venga l’eroe della Sicilia. Anch’io
So maneggiar la spada, ho core anch’io
Che i cimenti non teme, e che i diritti
Può sostener del contrastato soglio.
Seguitemi, o fedeli. Ancorchè pochi

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Bastarete28 al grand’uopo. Io vi precedo;

La ragione ci assiste; e quel furore
Che il destin di Matilde in sen mi desta,
Farà prove inaudite. Andiam; si pugni;
E si vinca, o si mora. Io sono in tale
Stato, che non so ben se più mi giovi
Disperato morire, o viver mesto. (parte colle guardie
Leonzio. Oh non m’avesse la severa Parca
Sì lungamente differito il colpo!
Cotanto infausti avvenimenti al certo
Veduti non avrei. Misero Enrico!
Il suo delitto a volontaria morte
Già lo guidò. Deh qui restate, amici,
Non vi curate di mirar la fine
Del più misero Re. Ma lui vi serva
D’instruzione ed esempio. Oh ree passioni!
Come indomite mai ne’ cori umani
Vi fate ognor della ragion tiranne!29


Fine della Tragedia.

  1. L’ed. Bettinelli, del 1740, aggiunge: s‘ incontrano.
  2. Bett.: Luogo sicuro, — Vicino alla sua sposa, e ad Enrico ecc.
  3. Bett.: Uditemi, Leonzio: Oggi può darsi, — Ch’una falce recida il triste ramo.
  4. Bett.: Soffre ancora il destin delle catene?
  5. Bett.: a mobil.
  6. Bett.: amor mio.
  7. Bett.: Celar nel sen le dimostranze amare.
  8. Bett.: potiamo.
  9. Così il testo.
  10. Bett.: s’alzano.
  11. Bett.: impugna la spada.
  12. Bett.: verso Matilde.
  13. Bett.: a terminar suoi giorni.
  14. Bett.: spose.
  15. Bett.: Importuna pietà voi mi chiedete. — Non vi lascio in balia d’un disperato.
  16. Bett.: fargli.
  17. Bett.: più non dovevi.
  18. Bett.: piedi.
  19. Bett.: Fece tutta la scala. In braccio tosto — Si gettò dello Sposo, ed egli allora, — D’abbracciarla mostrando, dal suo fianco — Cacciò uno stilo, e trapassagli il seno.
  20. Bett.: in ferindo.
  21. Bett.: Che l'estremo dolor le chiuse il labbro.
  22. Bett.: dì quel zelo ingiusto.
  23. Bett.: Coltivar non dovevi.
  24. Bett.: come sperate su quel trono ecc.
  25. Bett.: il fulmin del cielo.
  26. Bett.: Sperai forse ecc.
  27. Bett.: a me volevi.
  28. Così il testo.
  29. Bett.: Alle passioni — Non vi ralenti (sic) il fren; vogliono queste — Sempre della ragion farsi tiranne.