Faust/Parte seconda/Atto quarto/La tenda del pseudo-imperatore

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Atto quarto - La tenda del pseudo-imperatore

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Johann Wolfgang von Goethe - Faust (1808)
Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
Atto quarto - La tenda del pseudo-imperatore
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LA TENDA DEL PSEUDO-IMPERATORE.


Ricchi addobbi: trono.


HABEBALD, EILEBEUTE.

Eilebeute. Eccoci prima d’ogni altro, qui!

Habebald. Non ci ha corbo che voli sì ratto come noi.

Eilebeute. Cazzica! Qual monte di ricchezze! Donde s’ha a cominciare? Dove finire?

Habebald. N’è gremita per ogni lato la tenda! Sto in bilico dove metter prima la mano.

Eilebeute. Quello sfarzoso coltroncino sarebbe per me un vero gioiello; chè il mio canile ne sta per lo più male assai.

Habebald. Veggo qui a pendere una mazza d’acciaio; gli è gran tempo che mi struggo d’averne una cosiffatta. [p. 443 modifica]

Eilebeute. Codesto mantello di porpora con frange d’oro mel sogna’ io non ha molto.

Habebald, brandendo la mazza. Con tal ninnolo in pugno c’è poco da fare: s’accoppa l’avversario, e via! Tu hai già messo da banda un bel mucchio di roba, e ancora non ponesti nel sacco cosa che valga. Caccia alla malora tutto quell’orpello, e abbranca una di codeste cassette! Qua dentro evvi il soldo destinato all’armata; le son piene zeppe d’argento e d’oro.

Eilebeute. Uh! come pesa! la mi vuol direnare! Non reggo a levarla su, gli è al tutto impossibile ch’io la porti.

Habebald. Spicciati, via! fa di chinarti! incurva un po’ le spalle, ed io su ve la carico.

Eilebeute. Oi! oi! sono spacciata. Il fardello mi accoppa. (La cassetta balle sul terreno, e va in pezzi.)

Habebald. Che bel mucchio di zecchini lampanti! Non si perda tempo; mena a tondo le mani, e arraffa.

Eilebeute, accosciandosi. Lesti, lesti nel mio grembiule! E avronne ad ogni modo carpite tante da averne assai.

Habebald. Basta così! basta, ti dico. Sbrigati dunque. (Eilebeule rizzasi in piedi.) Misericordia! Il grembiule s’è sfondato! Ad ogni passo che fai, per tutto dove ti arresti, versi giù l’oro a macca.

I Lanzi del nostro Imperatore. Che fate qui, miserabili, per entro al sancta sanctorum? Che andate frugando nel tesoro imperiale?

Habebald. Abbiam posto pur noi la vita a risico, [p. 444 modifica]e però ci pigliamo la nostra porzion di bottino nelle tende nemiche, giusta la consuetudine, chè noi altresì siamo soldati.

I Lanzi. Non comportammo mai e poi mai che soldato e mariuolo fosse tutt’uno. Chi tien da presso al nostro Imperatore, ha da essere cima e fior d’onestà.

Habebald. Onestà! la conosciam noi troppo bene; in altri termini vien detta: contribuzione. Voi altri zoppicate tutti quanti d’un piede: Date qua canaglia! ecco la parola d’ordine del mestiere. (A Eilebeute) Scappa, scappa, e portati via il tuo gruzzolo! Non siamo i benvenuti qui! (Exeunt.)

Primo Lanzo. Perchè, dimmi non hai tu schiaffeggiato quel temerario insolente?

Secondo Lanzo. Non saprei; mi venne meno il coraggio: in quel ceffo scorgevasi un non so che di fantasima.

Terzo Lanzo. Avev’io gli occhi invischiati; mi tremolava dinanzi un certo lume, ond’era impedito di veder chiaro.

Quarto Lanzo. Affè, la è singolare, non so come spiegarmi. Per quanto fu lunga la giornata v’ebbe tale un’afa che soffocava, l’aria era pesante, angosciosa, l’uno resisteva e l’altro stramazzava, l’intoppare e il battere andavano di pari passo. Ad ogni fendente un avversario mordea la polvere: e frattanto sentivi come una grossa nebbia che ti dava negli occhi. S’udiano oltracciò zufolamenti, tintinnii, fischi dentro alle orecchie continui, incessanti; talchè vedendoci qui sani e salvi neppur noi bastiamo ad intendere come abbia ciò potuto in tanto subbisso avvenire. [p. 445 modifica]

L’IMPERATORE e QUATTRO PRINCIPI s’avanzano.

I Lanzi si ritirano.

L’Imperatore. Che monta? nostra è la vittoria, e il nemico sbaragliato e disperso si sparpaglia per gli aperti campi. Sorge quivi il trono abbandonato; e il tesoro seducente, da ricchi tappeti coverto, ingombra tutto il luogo. Noi, colmi d’onoranze, ricinti da’ nostri bravi lanzi, aspettiamo colla maestà di imperatore gl’inviati del popolo; da tutte parti ne piovono buone novelle: oh scenda por una volta la pace su quell’impero che riconosce lieto e festoso la nostra sovranità! Se la stregoneria se n’è anch’essa ingerita, da ultimo noi l’abbiam pagata colla nostra persona. Il caso dichiarasi a pro dei combattenti; grossi macigni cadono giù dal cielo, piove sangue sopra nemico, e dall’imo delle caverne strane grida si levano, grida alte e di tal tenore che a noi si dilata, e in petto al nemico strignesi il cuore e s’aggela. Il vinto è caduto a sua eterna vergogna, il vincitore glorioso e trionfante un inno intuona alla deità propizia, e tutti gridano secolui, senza ch’abbiasi a darne ordine alcuno, Te Deum laudamus, per miriadi, con quanto ne hanno in gola! E frattanto, per sublime e riverente omaggio, volgo alla mia propria coscienza un’occhiata di tenerezza, lo che prima d’oggi ben di rado io faceva. Diasi pure un giovine, principe a sciupare i suoi dì folleggiando, abusandosi della ventura che gli è sortita, e sapranno gli anni renderlo accorto della preziosità d’un istante. Quindi è che senza [p. 446 modifica]por tempo in mezzo, vi dichiaro meco congiunti, voi i quattro più meritevoli, sicchè abbiate ad aiutarmi nel reggimento della famiglia, della corte e dell’impero. (Al primo) A te, o principe, andiamo debitori della saggia direzione data all’esercito, e dell’ardire ed eroismo ond’esso diè prova nel punto decisivo. Seguita a fare in tempo di pace quanto sieno le circostanze per dimandare: io li nomino maresciallo ereditario, e li fregio della spada.

Il Maresciallo Ereditario. Quando la fedele tua milizia, occupata finora nell’interno dello Stato, avrà da spingersi alle frontiere per consolidare la tua possanza e il tuo trono, siane consentito, di mezzo alla immensa moltitudine raccoltasi a festeggiarti entro a’ saloni dell’avito tuo castello, il dar ordine alla cerimonia. Dinanzi a te, a te di costa, io vo’ brandire codesta spada, salvaguardia in perpetuo della più sublime e più eccelsa maestà.

L’Imperatore, al secondo. E tu che al valore sai delicatezza congiungere e cortesia, sarai gran ciamberlano, dignità che non è poi sì agevole e da poco. Tu meriti la precedenza fra tutti quelli della mia casa, che divisi tra loro per cagione d’intestine discordie, sonmi diventati servi traditori e malvagi: l’esempio tuo faccia quindinnanzi manifesto quanto sia pregevole ed onorato chi sa acquistarsi la buona grazia del suo signore, della corte, di tutti!

Il Gran Ciamberlano. L’eseguire i grandi concetti del mio re, mi pone in grado di soccorrere ai buoni, e di non punto nuocere a chicchessia, fin anco a’ tristi; di mostrarmi schietto senza artificii, e senza trufferie pacato e tranquillo. Se il tuo sguardo, o [p. 447 modifica]sire, può leggere nell’intimo della mia coscienza, io son più che soddisfatto. Non mi fia disdetto, cred’io, lo spingere tant’oltre la fantasia che mi rappresenti la viva immagine di una tal festa? Tu stai assiso alla mensa, ed io son quegli che li porge la coppa d’oro; io che tengo le anella, onde in quei momenti d’ebbrezza e di voluttà, alle mani, intanto che una tua occhiata mi fa giubilare.

L’Imperatore. Per verità, troppo son io sbalordito, perchè possa nascermi in capo l’idea di comandare una festa; ma sia pur come ti aggrada! che eziandio dalla gioia un po’ di ben ne deriva. (Al terzo.) Io ti scelgo per grande scalco! Le cacce, l’uccelliera, i tenimenti sieno da ora in poi sotto la tua ispezione; a te lo invigilare che mi vengano messe in tavola in ogni tempo le mie pietanze favorite, secondo portano le stagioni, e soprattutto confezionate a dovere!

Lo Scalco. Mi sarà dolce cosa il tenermi a denti asciutti fino a tanto che, posto dinanzi a te, un piatto gustoso e succolento non t’abbia fatto buon pro! Gli ufficiali addetti alla cucina dovranno accordarsi meco, a ravvicinar le distanze, e ad affrettare le stagioni. Chè non sono nè i camangiari venuti di lontano, nè le primizie onde va superba la tavola, che ti fan gola; si veramente hai più cari i cibi semplici e sostanziosi.

L’Imperatore, al quarto. E dappoichè n’è forza il tener proposito di feste, tu, mio giovine eroe, li trasformerai in coppiere. Arcicoppiere dell’impero, sorveglia d’or innanzi a che le nostre cànove sieno [p. 448 modifica]a dovizia di squisiti vini provviste; e sii tu stesso sobrio e riservato, nè avvenga mai che ti lasci cogliere dalla tentazione di cioncare oltre quanto comporti un’allegria convenevole e ragionata.

L’Arcicoppiere. Sire, gli sbarbatelli, se veggansi trattati a fidanza, si cangiano in uomini più tosto ch’altri sel pensi. Ed io non meno son tratto in mezzo a questo sontuoso apparecchio: e disposta con isplendidezza un’imperiale credenza, la cuopro con vasellame di gran valsente, d’oro insieme e d’argento; ma di quante ve n’ha, fia trascelta per te la coppa operatrice di malie, d’un puro cristallo di Venezia, nel cui fondo ogni bene è riposto, coppa che dà al vino un sapore più piccante, e ne modera alquanto quelle particelle che ti scompigliano la ragione. Spesse fiate per altro ci fidiamo un po’ troppo a talismani di tal fatta: la tua sobrietà, o sire, fia per te senza meno la miglior guarentigia.1


Entra l’ARCIVESCOVO.2

L’Imperatore. A quali incarichi vi ebbi in quest’ora solenne destinati, l’udiste in confidenza dal mio labbro infallibile. La parola dell’Imperatore è [p. 449 modifica]possente, e v’assicura il beneficio; ad ogni modo, perchè all’alto autorevole nulla manchi, vuolsi aggiungervi il titolo ufficiale, la firma; e per la redazione in piena regola, ecco all’uopo venirne l’uomo indispensabile.

L’Imperatore. Quanto una volta si commette alla sua chiave, mantiensi incrollabile per secoli e secoli. Tu miri colà quattro principi, co’ quali abbiam testè concertata la costituzione della imperial nostra casa. Ora poi, quanto codesto impero nel suo seno comprende, vo’ che su cinque forte e potentemente s’appoggi! Primeggino essi fra tutti in possessioni, e a tale effetto l’ampiezza de’ loro dominii si accresca da questo punto del pingue patrimonio goduto per lo innanzi da coloro che sonosi da noi separati. A voi pertanto, o miei fidi, assegno buona mano di belle borgate, aggiungovi il sovrano diritto di stendervi più lungi ancora, giusta l’occasione, sia per acquisto, sia per iscambio. Inoltre, abbiatevi la facoltà di esercitare pacificamente le ragioni di signoria che vi competono. Come giudici, pronunzierete sentenze assolute: a nessuno fia dato appellarsi contro codesto tribunale supremo.3 Sieno pure di vostra spettanza le imposte, i censi, i diritti d’omaggio e di scorta, i pedaggi, i monopolii delle miniere, delle saline, delle zecche: avendovi noi dato, in contrassegno della nostra piena riconoscenza, il primo luogo dopo la nostra Maestà.4 [p. 450 modifica]

L’Arcivescovo. A nome di tutti, salgano insino a te i più vivi ringraziamenti! Tu ne rendi forti e di gran potenza, consolidando insieme la tua.

L’Imperatore. Nè basta ancora; essendo nostra mente di elargire a ciascuno tra voi dignità più elevate di queste. Io vivo tuttavia pel mio impero, nè certo emmi venuta meno la voglia di vivere; ma la serie non interrotta de’ miei avi mi tragge a sviare lo sguardo impensierito da codesto turbinio di faccende che mi suscita in mente non altro che idee cupe e sinistre. Ed io pure, come sia trascorso il mio tempo, dovrò da’ miei fidi staccarmi: a voi quindi impongo il sacro obbligo di nominare il successore. Coronato che sia, traetelo presso all’ara del Santo; e possa in que’ giorni acquetarsi nella pace la fiera tempesta, che n’ebbe pur ora affannato cotanto!

L’Arcicancelliere. Pieni d’orgoglio nel seno, umili nell’aspetto, i principi, che il primato godono in sulla terra, s’inchinano dinanzi a te. Infino a tanto che un sangue affezionato e fedele scorrerà per entro alle nostre vene, saremo noi un corpo cui il volere tuo solo farà muovere a beneplacito.

L’Imperatore. Ora dunque, per venire alla conclusione, quanto abbiamo fino a qui deliberato, con alto solenne ed ufficiale da me sottoscritto, passi di secolo in secolo ad allestarlo alle età più lontane! Vostro è pertanto il possesso intero e libero, quale compete a sovrano, a patto però ch’egli rimanga indiviso tra voi, e che, comunque vi riesca di [p. 451 modifica]accrescere i beni da me ricevuti, al solo primogenito si consenta di ereditarne tanti e non più.

L’Arcicancelliere. Men vo tosto, pieno di letizia, a confidare alla pergamena codesto decreto che tanto rileva al nostro ed al pubblico bene. Il cavarne copia, e l’apporvi l’imperiale suggello fia compito della cancelleria: e tu poi, o sire, avrai la degnazione di convalidar l’atto colla sacra tua firma.

L’Imperatore. E adesso do a voi il commiato, affinchè possa ciascuno, nel raccoglimento, meditare su questa grande giornata. (I Principi temporali si allontanano.)

Il Principe della Chiesa, parlando con enfasi. Il cancelliere è partito, il vescovo rimane. Un grave presentimento lo spinge d’accosto al tuo orecchio, per avvisarli del rischio; le paterne sue viscere ansiose ed affannate per te sentono tutte commuoversi.

L’Imperatore. Qual mai angoscia può dunque straziarti in quest’ora di ventura e di gaudio? Parla!

L’Arcivescovo. Con che amarezza e cordoglio non veggo in tale istante il sacro tuo capo stretto in alleanza con Satana! Assicurato, è vero, per quel che ne pare, in sul trono, ma, ahi lasso! dispetto a Dio nostro signore, dispetto alla Santa Sede. Se n’avesse il Papa alcuna notizia, l’imporrebbe di tratto un terribile castigo, e col divino suo fulmine codesto impero, impero del diavolo, annienterebbe: chè non gli è ancora passato di mente, siccome, nel giorno della tua incoronazione, rimandasti libero lo Stregone. Il primo lume di grazia [p. 452 modifica]che raggiasse dal tuo diadema, discese per tal atto, in danno della cristianità, su quella fronte maladetta! Batti ora il tuo petto, e fa in questa fortuna illegittima, fa il debito luogo al santuario. L’ampio territorio di colline ingombro e di poggi dove la tua tenda s’ergeva, dove gli spiriti maligni ti vennero in soccorso, e dove tu prestavi facile orecchio al principe della menzogna, sia per te, in uso pio convertendolo, a qualche santa opera destinato. Vi aggiungi per dote la montagna, e la fitta boscaglia per quanta tratta quella e questa si stendono, le alture che ammantate di perpetua verzura porgono grassi pascoli al gregge, e limpidi stagni ove tanta è la copia de’ pesci, e i ruscelli senza numero che serpeggiando con rapido corso si precipitano in seno alla valle; e questa valle altresì, e i prati con essa, le pianure, le borre: così facendo li darai a vedere pentito, e la grazia scenderà sopra di te.

L’Imperatore. L’immensità del mio fallire m’empie tutto quanto di orror, di spavento! Segna tu stesso i confini, ch’io me ne rimetto al tuo senno.

L’Arcivescovo. Innanzi tutto, codesto spazio profano, ove la colpa veniva consumata, si voti fin d’ora al culto dell’Altissimo. Giả, col pensiero, parmi vedere forti e spesse mura elevarsi; il raggio del Sole oriente pel coro si spande a illuminarlo; l’edifizio in costruzione allargandosi, piglia forma di croce; la nave si prolunga, s’innalza sotto agli occhi de’ fedeli esultanti. Già, tutti infervorati fan ressa a guisa di fiume che traripi, dinanzi alle auguste porte. Il primo rintocco de’ sacri bronzi echeggia lungo i monti [p. 453 modifica]e le valli, e lo scampanio si propaga dalle torri sublimi che toccano il cielo. Ecco il peccatore s’avanza per rinascere a vita novella. Nel dì magnifico e solenne della inaugurazione — oh non sia tardo a spuntare! — la tua presenza sarà il più bello ornamento di cotal festa.

L’Imperatore. Un’opera sì grandiosa attesti la pia volontà che abbiamo di rendere omaggio al Signore, e d’espiare i nostri peccati! E ciò basti! Sento fin d’ora il mio spirito sgravato da un peso enorme, importabile.

L’Arcivescovo. Come cancelliere, penserò io a stendere i decreti, e ad adempiere a qualsia formalità.

L’Imperatore. Un documento chiaro e preciso pel quale venga la Chiesa di tali domini investita! Tu mel porrai soll’occhio, ed io avrò il contento di apporvi il mio nome.

L’Arcivescovo, dopo essersi congedato, torna indietro. Ben inteso che l’assegno al nuovo Santuario di tutte le rendite del luogo, de’ censi e delle decime, dovrà durare in perpetuo: che abbisognano larghe somme a provvedere convenientemente una fondazion come questa, e l’amministrarla con iscrupolo costa assai caro. Intanto, ad affrettare la erezione del monumento sovra un’area così ineguale e restía, ne darai un po’ d’oro del tuo grasso bollino. — Converrà inoltre, non è cosa da passar sotto silenzio, converrà dico che tu ne provveda di legname, onde mancano al postutto questi dintorni, di calce, d’ardesie, e di altri materiali che ne possano occorrere. Il popolo quindi penserà ai trasporti, tosto ch’egli [p. 454 modifica]sia fatto dal pergamo consapevole, che la Chiesa è larga di benedizioni a coloro i quali per essalei si affaticano. (Exit.)

L’Imperatore. Oh di che enorme, orribile peccato sonmi lordala l’anima! Codesta razza maladetta di stregoni m’ha posto per entro a certe mene così intricate, che l’uscirne senza danno s’ha ad avere per miracolo!

L’Arcivescovo, tornando un’altra volta, e inchinandosi profondamente. Perdonami, o sire! Quel tristo e perduto uomo cui dèsti in feudo le spiagge del regno, caccerà, siine più che certo, ogni cosa in malora, se decime, censi, rendite e diritti di quel dominio non conferisci, tutto compunto, alla Chiesa.

L’Imperatore impazientito. Ma codeste borgate non esistono; vi dorme ancor sopra tutta quanta l’acqua de’ mari.

L’Arcivescovo. A chi ha diritto e pazienza, nè il dì nè l’ora son mai per mancare. Accordane il favore dell’inviolabile tua parola. (Exit.)

L’Imperatore solo. Per poco ch’io seguiti a dar retta a costui, vedrommi ridotto a segnare l’atto di donazione di tutto quanto l’Impero!



Note

  1. Le quattro dignità conferite dall’Imperatore a’ suoi ministri sono gli attributi degli elettori d’Alemagna: quello di Sassonia è arcimaresciallo; quello di Brandeburgo, arciciamberlano; quello del Palatinato, arcicoppiere; quello in fine di Boemia, grande scalco. Alle feste dell’incoronazione imperiale, gli elettori attendono in persona alle fuozioni di servizio indicate qui dall’Autore. (Si confronti questa scena colla Ballata di Schiller: Il Conte di Ausburgo.)
  2. L’arcivescovo, che è ad un tempo arcicancelliere, rappresenta qui l’elettore di Colonia, il quale, a partire dall’anno 1246, quella doppia dignità in sè riunisce.
  3. Privilegium de non appellando, — che è una delle prerogative degli elettori dell’Impero.
  4. Sembra che Goethe si studii di riprodurre il tuono e le espressioni della Bolla d’Oro, che l’ebbe così al vivo toccato nella sua giovinezza, al tempo dell’incoronazione di Giuseppe II. — (Dichtung und Wahrheit, T. 1, S. 248.)