Filocolo/Libro secondo/18

Da Wikisource.
Libro secondo - Capitolo 18

../17 ../19 IncludiIntestazione 17 settembre 2008 75% letteratura

Libro secondo - Capitolo 18
Libro secondo - 17 Libro secondo - 19

Florio, che malvolentieri a’ piaceri del padre avea consentito, ricevuto il comandamento del doversi partire la seguente mattina, e partitosi il re da lui, solo pensando si pose a sedere, e fra se medesimo dicea: "Oimè, or che ho io fatto? A che ho io consentito? Alla mia medesima distruzione, per ubidire il crudel padre! Or come mi potrò io mai partire sanza Biancifiore? Deh, or non poteva io almeno dicendo pur di no, aspettare quello ch’egli avesse fatto? Di che aveva io paura? Ucciso non m’avrebbe egli, ché io non m’avrei lasciato. Né niuna peggior cosa mi potea fare che da sé cacciarmi: la qual cosa egli non avrebbe mai fatto; ma se pur fatto l’avesse, Biancifiore non ci sarebbe rimasa, però che meco ove che io fossi andato l’avrei menata; la quale io più volontieri, sanza impedimento d’alcuno, liberamente possederei, che io non farei la grande eredità del reame che m’aspetta. Ma poi che promesso l’ho, io v’andrò, acciò che non paia ch’io voglia tutto ogni cosa fare a mia maniera. Egli m’ha impromesso di mandarlami; se elli non la mi manda, io avrò legittima cagione di venirmene dicendo: "Voi non m’atteneste lo ’mpromesso dono: io non posso più sostenere di stare lontano da lei per ubidire voi". E da quella ora in avanti mai più un tal sì non mi trarrà della bocca, quale egli ha oggi fatto. Se egli me la manda, molto sono più contento d’esser con lei lontano da lui che in sua presenza stare, e più beata vita mi riputerò d’avere". E con questo pensiero si levò e andonne in quella parte ove egli ancora trovò Biancifiore, che tutta di lagrime bagnata ancora miseramente piangea; a cui egli, quasi tutto smarrito guardandola, disse: - O dolce anima mia, qual è la cagione del tuo lagrimare? -. La quale prestamente dirizzata in piè, piangendo gli si fece incontro, e disse: - Oimè, signor mio, tu m’hai morta: le tue parole sono sola cagione del mio pianto. O malvagio amante, non degno de’ doni della santa dea, alla quale i nostri cuori sono disposti, or come avesti tu cuore di dire tu medesimo sì di dovermi abandonare? Deh, or non pensi tu ove tu m’abandoni? Io, tenera pulcella, sono lasciata da te come la timida pecora tra la fierità de’ bramosi lupi. Manifesta cosa è che ogni onore, il quale io qui ricevea, m’era per lo tuo amore fatto, non perché io degna ne fossi, sì come a colei che era tua sorella da molti riputata per lo nostro egual nascimento. E molti, invidiosi della mia fortuna, a me, per loro estimazione prospera e benivola tenuta per la tua presenza, ora, partendoti tu, non dubiteranno la loro nequizia dimostrare con aperto viso, avendola infino a ora per tema di te celata. Ma ora volessero gl’iddii che questo fosse il maggior male che della tua andata mi seguitasse! Ma tu mi lasci l’animo infiammato del tuo amore, per la qual cosa io spero d’avere sanza te angosciosa vita! la quale, ancora che io da te non abbia meritata, mi ha bene investita, però che, quando prima ne’ tuoi begli occhi vidi quel piacere, che poi a’ tuoi disii mi legò il cuore con amoroso nodo, sanza pensare alla mia qualità vile e popolaresca, e ancora in servitudine coatta, in niuna maniera da potere alla tua magnificenza adeguare, mi lasciai con isfrenata volontà pigliare, aggiungendo al tuo viso piacevolezza col mio pensiero. Onde se tu, ora, abandonandomi sì come cosa da te debitamente poco cara tenuta, e Amore, costringendomi di te, da me stoltamente amato, con greve doglia mi punite, faccendomi riconoscere la mia follia, questo non posso né io né alcuno altro dire che si sconvenga. E se non fosse che io fermamente credo che alcuna parte di quella fiamma amorosa, la qual pare che per me ti consumi, t’accenda il cuore, se vero è che ogni amore acceso da virtù, com’è il mio verso di te, sempre accese la cosa amata, sol che la sua fiamma si manifesti, io avrei sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua m’ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello uficio essercitassi in me: e certo io l’avrei per me volontieri fatto, ma dubitando d’offendere quella piccola particella d’amore che tu mi porti, mi ritenni, tenendo solamente la mia vita cara per piacere a te. Ma gl’iddii sanno quale ella sarà partendoti tu, però che io non credo che mai giorno né notte sia, che io non sofferi molti più aspri dolori che il morire non è. Ma forse tu ti vuogli scusare che altro non puoi; ma non bisogna scusa al signore verso il vassallo: tanto pur udi’ io che tu con la tua bocca dicesti d’andare a Montoro! Oimè, or m’avessi tu detto davanti: "Biancifiore, pensa di morire, però che io intendo d’abandonarti", però che tu non dovevi dire sì a fidanza delle vane e false parole di tuo padre, il quale ti promise di mandarmi a te. Certo egli nol farà già mai, però che egli guarda di farti tanto da me star lontano, che io possa essere uscita della tua mente -. Queste e molte altre parole, piangendo e tal volta porgendogli molti amorosi baci, gli diceva Biancifiore, quando Florio non potendo le lagrime ritenere, rompendole il parlare, le disse così: