Fior di Sardegna/Capitolo XIV

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Capitolo XIV

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XIV.


Quella notte Lara non dormì; la febbre le ardeva il sangue, tutto intorno mille voci voluttuose susurravano le parole care che Nunzio le aveva detto, e nel fruscio arcano, fra il profumo ardente di quelle frasi d’amore l’anima sentimentale della fanciulla andava trasformandosi lentamente, lentamente, da larva in farfalla, da bocciolo in rosa.

I nervi di Lara rimasero tutta la notte in sussulto; la testa gravava sul guanciale come di piombo, anzi nell’incubo della febbre sembrava a Lara che la sua testa fosse uno scoglio flagellato dalle onde; i grandi occhi spalancati nell’oscurità della camera silenziosa vedevano arrivare da lontano le onde bianche verdastre, le onde che danzavano intorno alla barca mentre Nunzio le diceva: «t’amo!» e avvicinarsi rapide, tremule, corruscanti al raggio della luna... Si avvicinavano, si avvicinavano, erano lì!.... Lara chiudeva gli occhi. Le onde le bagnavano tutta la testa, che non poteva muovere; lei lo sentiva, sentiva il loro mormorio prolungato, il susurrio strano che si confondeva con le altre voci della notte per dirle tante belle cose, e pensava confusamente a’ suoi sogni passati, immersa in un torpore profondo, tiepido, vellutato.

Un sussulto balzante, inquieto, passava ratto ratto sotto la pelle bianca e rorida di sudore delle sue braccia abbandonate sul lenzuolo ardente, ma Lara non sentiva ciò mentre sentiva tante altre cose immaginarie, e ciò solo indicava la sua veglia. Una volta si addormentò o sognò di trovarsi sulla spiaggia: era notte, ma il sole dardeggiava lo stesso un calore intenso, canicolare, attraverso le tenebre. Lara non vedeva, non poteva muoversi, sudava, assetata e morente di caldo: cercava levarsi le vesti che la soffocavano, ma non poteva alzare le braccia. Ad un tratto si accorse che Nunzio le stava accanto, e che era il suo sguardo che produceva quello strano caldo intorno a lei: tanto caldo, che le sembrò di tramutarsi in una statua di carbone. Si svegliò rantolando; rise quasi forte del suo sogno e a poco a poco ripiombò nel sopore e nelle visioni velate e vaghe di prima. [p. 61 modifica]

I castelli neri delle montagne, le isole verdi del mare sfumavano dalla fantasia di Lara; rimaneva il castellano e questo era Nunzio. Che importavano oramai a Lara le sale, i paesaggi e le storie? Ciò che prima era ben distinto diventava sfumatura e in mezzo al quadro spiccava «lui», non più biondo, ma bruno, pallido in viso e gli occhi neri splendenti.

E Lara vedeva lui solo; la piccola castellana dal costume alla Agnese Sorel non la vedeva più, perchè sapeva che non poteva essere insieme a Nunzio. No! Nunzio era lontano da lei, dunque Nunzio stava solo: finchè tutto il quadro viveva soltanto nella fantasia di Lara, i «due» potevano ben stare sempre insieme; ma ora che il quadro si realizzava, non era più possibile, oh no! Nunzio stava solo e lontano, molto lontano, ma ora ben distinto e profilato nella lontananza. Ma realmente Lara lo amava?

Glielo aveva detto nell’ebbrezza della luna e della solitudine. Pensava a lui da vari giorni, con un sentimento vago e indistinto, ma forse avrebbe respinto la sua dichiarazione se fatta alla luce del sole ed in un diverso ambiente. Pensava a lui tuttora, sentiva un’arcana felicità nel sapersi amata da lui, ma forse non lo amava ancora.

Che importava! Lara non aveva mai provato un vero piacere morale, mai aveva raggiunto un suo sogno; ora si aggrappava a quell’unico svago e voleva vedere come era fatto l’amore con una curiosità strana di bambina. Non le bastava più l’affetto di un’amica; no, i suoi diciassette anni fiorenti di sogni e assetati di realtà avevano bisogno di sensazioni forti e violente! Lara sentiva la sua anima gelida, aggranchiata, repressa, e si abbandonava al suo primo amore per ricevere una scossa che le riscaldasse l’anima e le desse le ali per varcare la nebbia degli orizzonti che le nascondevano regioni verso cui agognava di volare. — Chi era Nunzio? — A Laura poco importava di saperlo; i grandi occhi del giovine le promettevano baci di fuoco, le sue prime parole d’amore avevano già cambiato i suoi pensieri. Ella gli aveva detto di amarlo e credeva di amarlo, perchè aveva una buona abitudine: quella di non dire mai bugie dannose. — Ora, [p. 62 modifica]— pensava Lara levandosi all’alba, — qual danno non recherebbe la mia bugia in questo caso?

Perchè Nunzio le aveva detto, fra le altre cose: — Lara, tu sei la mia vita; se mai venisse a mancarmi la speranza che ho in te, morrei! — Morire un uomo per causa sua! Mai più! Però, bisogna ben dirlo, Laura si sentiva molto lusingata da quel pensiero e conchiudeva: — Come non amare Nunzio, se lui mi ama a quel punto?

Naturalmente, subito confidò tutto a Mariarosa: la buona fanciulla, che nello sua mente gentile e poco sperimentata credeva tutto facile in questo basso mondo di egoismo e di orgoglio, restò contentissima che i due giovani si fossero così presto intesi, e disse a Laura che la sera prima non aveva voluto andare in barca, appunto per dare a Nunzio agio di spiegarsi con lei. Lara rise, poi le baciò le mani esclamando: — Sei proprio come ti avevo sognato!

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Oh, i sogni! Chi non ricorda i sogni di sedici anni e chi non pianse al loro sfasciarsi? Il secondo sogno di Lara durò ben due settimane; sogno etereo, tutto sguardi e fantasia.

Nunzio l’amava davvero; glielo diceva sempre con gli occhi, con la canzone che le susurrava sotto la finestra, col sorriso e con le lettere che trovava modo di scriverle, poichè dopo la prima sera, non si erano più trovati soli, tanto che la fanciulla finì con l’amarlo in realtà anche essa.

Come l’amicizia di Mariarosa aveva guarito Lara, così l’amore di Lara guarì Nunzio. L’estremo pallore del suo viso si raddolcì in una lieve tinta rosea, tornò allegro e spiritoso, e così a Lara piacque di più, ma diede anche nell’occhio ai bagnanti, che, osservata prima la sua misantropia e vistala poi ad un tratto sparire, si dissero Nunzio doveva aver fatto qualche grossa conquista. Mariarosa era troppo poco; doveva esser Lara! Si osservò, si spiò, si scoprì la verità, e, dopo due settimane, ciò che Lara credeva fosse un profondo segreto fra lei, Nunzio e Mariarosa, si sapeva sino dai bimbi del piccolo stabilimento.

Come sempre accade, don Salvatore fu l’ultimo a [p. 63 modifica]saperlo. Provò una scossa tale, che diventò pallido in volto, il che significava qualche cosa di grosso in lui. Tuttavia volle illudersi, rise in faccia a chi glielo diceva, e rispose che Lara era ben savia ed educata per mettersi così ad amoreggiare in pubblico e con chi!... — Don Salvatore sapeva Nunzio figlio di una poverissima famiglia di pastori Logudoresi, e che, non potendo più studiare, doveva entrare impiegato. Ora, nessuna classe del mondo era da don Salvatore disprezzata come gli impiegati. Aveva conversato qualche volta con Nunzio, perchè lo riteneva ancora come studente; ma è più che certo che non l’avrebbe più neppure guardato in viso tre mesi dopo, cioè quando il giovine avrebbe contato sul ventisette di ogni mese per pagare le sue scarpe e il suo cappello... L’impiegato! quell’essere meschino che vive mese per mese a furia di economie e che s’ingolfa nei debiti se non fa queste ultime, — che non possiede un palmo di terra al sole, nè conosce il biglietto da mille; che deve vivere in stanze d’affitto; che deve passeggiare, se ha voglia di andare in campagna, nella polvere dello stradale, contentandosi di guardare dal di fuori le vigne, di cui compra il vino litro per litro pagandolo solo alla fine del mese?....

Così pensava don Salvatore: nella sua mente grassa di cavaliere, foderata di biglietti di banca nascosti, ebbra di terre e di armenti, egli aveva un profondo disprezzo per gli impiegati e li metteva nella classe dei servi, dei suoi servi che lavoravano la gleba e guidavano le greggi; gli uni e gli altri venivano pagati, dunque erano eguali; solo la servitù degli impiegati era una servitù più dura, «servitù d’anima», diceva il padre di Lara, perchè il suo italiano non arrivava al punto da permettergli di dire «servitù morale», servitù più vile e disonorante ai suoi occhi. Il perchè dei perchè poi era che don Salvatore non avrebbe mai concesso sua figlia in isposa ad un impiegato, perchè... povero!

Certo, povero! Per ricco don Salvatore intendeva un uomo come lui, come Ferragna, o che infine uno che vivesse di rendita. Vivendo di rendita, uno non ha bisogno di essere impiegato; essendo impiegato, deve necessariamente essere povero; e così seguendo i calcoli della sua corta esperienza, don Salvatore conchiudeva che ogni [p. 64 modifica]impiegato era un povero, cioè un essere incompleto e da disprezzarsi specialmente in fatto di matrimonio.

Oh, signori miei, avete osservato che brutta cosa è l'esser povero?

Ma non sapete a qual punto arrivi la bruttezza di questa «cosa» in paesi ignoranti, in paesi in cui i meriti di un cristiano salgono e scendono secondo la gonfiezza del suo portafoglio. Là, se un povero è bello, vien detto brutto, mentre un ricco è bellissimo se anche orrendo di viso; un povero è pazzo, è cattivo, è perverso, è un verme su cui stà preparata una spada se mai osa innalzare il capo dalla polvere su cui la fortuna lo ha lanciato: nulla gli vale, nè l’istruzione, nè la bellezza, nè la bontà.

Si possono forse avere queste doti quando la tasca è vuota, quando non si possiedono che due mani per guadagnarsi il pane quotidiano?

In altri luoghi creati dal buon Dio, se non altro si riconosce nel povero l’ingegno, la bellezza, la bontà d’animo, se ce l’ha, e gli si lascia un posto, lo si aiuta a camminare; ma nei luoghi in cui mi intendo io, nulla, nulla vien concesso a chi non ha in sue mani l’infame signore del mondo, lo si calpesta, lo si chiama pazzo se dalla sua mente scintilla l’ingegno, presuntuoso se riconosce in sè qualcosa che gli altri non riconoscono, temerario se osa credersi simile agli altri, e lo si ricopre di polvere e di fango sino alla morte, salvo a prostrarsigli innanzi e farlo simile a Dio se egli, a colpi di frusta e sudando sangue, riesce finalmente ad assidersi fra gli eletti della dea fortuna, riesce a farsi largo fra loro ed a gonfiare la sua tasca come la loro...