Gli orrori della Siberia/Capitolo XXIX – Il Baikal

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Capitolo XXIX – Il Baikal

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Capitolo XXVIII – La fuga Capitolo XXX – La “jurta” del lebbroso

Capitolo XXIX – Il Baikal


Il lago Baikal è uno dei più ragguardevoli dell’Asia, ma soprattutto è il più strano di tutti ed anche il più pericoloso.

Situato a millesettecento piedi di elevazione sul livello del mare, fra alte montagne d’origine vulcanica, ha una lunghezza di seicento chilometri ed una larghezza che varia dai cento ai centoventi. È però sopratutto notevole per l’enorme massa delle sue acque, avendo delle profondità straordinarie che toccano i quattromila e perfino i quattromilacinquecento piedi, secondo gli ultimi scandagli, sicché sarebbe il più profondo di tutti i laghi del globo.

Trecento fiumi sboccano in quel vasto bacino e, cosa strana, uno solo ne esce, l’Angarà, il quale, dopo aver bagnato Livenitchnaja ed Irkutsk, va a gettarsi nell’Jenissei, un po’ a monte della città che dal fiume prende il nome. Questa singolarità ha dato luogo ad una infinità di ipotesi e di studi da parte degli scienziati dei due mondi e soprattutto di quelli russi. Dove finisce la massa dell’acqua che versano quei trecento fiumi?... Nessuno ancora ha potuto saperlo. Si suppone che il lago abbia degli sfoghi sotterranei ed alcuni ritengono che abbia comunicazione perfino col mare.

È un fatto che se non avesse altri sfoghi, oltre l’Angara, ben presto le acque del lago si alzerebbero tanto da allagare tutta la grande vallata racchiusa fra i monti Dauria ed Jablonow e quelli del Baikal.

Degli strani fenomeni avvengono pure su quel grande bacino, accrescendo gl’imbarazzi degli scienziati. Ora sono crescenze periodiche che somigliano stranamente al flusso e riflusso degli oceani, sì da far credere che esistano realmente delle comunicazioni coll’oceano Artico o col mare d’Ochotsk; ora magnifici zampilli d’acqua bollente che irrompono dal fondo, ora maremoti che cagionano delle ondate immense.

Le popolazioni che abitano le sue sponde lo temono moltissimo, e con ragione, essendo pericolosissimo, assai tempestoso, e lo venerano come fosse un essere vivente. Dicono che bisogna chiamarlo mare, perché si adirerebbe se lo si chiamasse lago, che ha le sue simpatie e le sue antipatie, e con fede profonda raccontano come sono periti il tale od il tal altro che per isbaglio o per dispregio non gli avevano dato il titolo corrispondente alla sua forza ed alla sua grandezza.

I buriati, che abitano le sue sponde, vi avevano in epoche antiche dei templi ed adorano tuttora certe pietre e certi scogli nudi che sorgono sulle rive o presso le isole e che chiamano kamienie, ossia pietre fatate.

Dall’alto della collina, i fuggiaschi potevano ammirare il grande bacino in tutta la sua maestà e per un tratto immenso. Si distinguevano nettamente le cupole dorate d’Irkutsk, situata presso l’Angara, a meno di venti miglia di distanza; la piccola borgata di Livenitchnaja, mollemente adagiata sulle sponde del lago, all’uscita del fiume; la foce del Selenga, il maggior fiume che dagli altipiani della Mongolia reca le sue acque nel grande bacino; le isole fra le quali spiccava quella di Olkhur che è la più grande, avendo una lunghezza di settanta chilometri con una larghezza di ventiquattro, e la via che da Irkutsk conduce alla Transbaikalia.

Il lago era completamente gelato e sulla sua superficie si vedevano imprigionate parecchie zattere, parecchie barche e piccoli bastimenti i quali attendevano lo scioglimento della crosta per rimettersi in viaggio. Numerose slitte scivolavano sul ghiaccio, preferendo quella liscia superficie a quella aspra e pericolosa della nuova strada russa.

– Che stupendo panorama! – esclamò Maria.

– È uno dei più splendidi della Siberia, – rispose il colonnello.

– Scenderemo verso il lago?

– Esito, sorella mia. È troppo frequentato da slitte e preferirei intraprendere la traversata delle montagne per raggiungere la frontiera cinese.

– Tale è anche la mia opinione, colonnello, – disse l’ingegnere.

– Ed i nostri compagni evasi? Abbiamo dato loro appuntamento sulle rive meridionali del lago. Essi ci attenderanno senza dubbio sulla nuova strada, presso Chaia Mürinsk.

– È vero, – disse l’ingegnere. – Allora scendiamo sulla nuova via che non è mai frequentata durante la stagione invernale. Faremo doppia strada, ma sfuggiremo più facilmente agli occhi di tutti.

– Se andiamo a Chaia Mürinsk, non ci arresteranno?

– Abbandoneremo la via prima di giungervi e ci getteremo attraverso ai boschi, – disse lo studente.

– È il piano migliore, Iwan, – disse Sergio. – Caliamo sulla via.

L’jemskik e Dimitri spinsero i cavalli su di un sentiero appena praticabile che scendeva, descrivendo grandi curve, la collina, e poco dopo la slitta e la troika scivolavano sulla via che da Irkutsk va a Chaia Mürinsk.

Quella strada, che gira attorno alle sponde meridionali del lago, non è stata aperta che nel 1868. Prima di quell’epoca, la traversata del lago non si faceva che con barche o con piroscafi, e con slitte in pieno inverno, ma durante lo scioglimento dei ghiacci, per due mesi interi le relazioni della capitale della Siberia orientale con la Transbaikalia rimanevano interrotte.

Il governo russo, per ovviare a quel grave inconveniente, dannosissimo al commercio, non esistendo altre strade attorno al lago fuorché sentieri praticabili ai soli contrabbandieri, si decise di aprirne una carrozzabile.

Quel lavoro, uno dei più giganteschi, fu eseguito con spese immense e con molte fatiche, a motivo dei grandi ostacoli del terreno, quasi tutto montagnoso.

Dapprima furono impiegati i forzati, ma dopo la cattiva prova fatta da quegli sciagurati, fu completata da braccianti scelti fra i contadini del paese.

Essa comincia dal monte Kai, sulla sponda sinistra dell’Angara, scende poi nella romantica vallata del fiume Kai, poi corre quasi parallela ad Irkutsk e s’inoltra fra i monti. Ora accostando ii al lago ed ora allontanandosi, supera il monte Allegro dopo Kultuk, così chiamato per lo splendido panorama che si gode dalle sue cime, poi scende a Bojorsk che è l’ultima stazione della strada che circuisce, verso mezzogiorno, il Baikal. Di là poi si stacca un’altra via che mette capo a due importanti mercati russo-cinesi, posti presso la frontiera, di Kiachta e di Maimatckin.

La slitta e la troika, salendo e discendendo gli avvallamenti della strada, ora passando fra montagne dirupate e boscose che nascondevano interamente la vista del lago, ed ora sopra piccoli altipiani, procedevano con molta rapidità.

Fortunatamente nessuna persona percorreva quella via. Tutti preferivano la traversata del lago, meno aspra e di gran lunga più corta. Verso le dieci del mattino i fuggiaschi s’arrestarono sul margine del bosco per cercare un rifugio, non osando continuare la via di giorno per tema d’incontrare qualche buriato, il quale, per guadagnare il premio che il governo siberiano accorda, non avrebbe mancato di denunciarli, se avesse avuto il sospetto che fossero dei deportati evasi. Erano anche costretti a fermarsi per fare riposare i cavalli, già sfiniti da quella lunga e furiosa corsa, onde si mantenessero gagliardi al momento opportuno, essendo certi di essere già inseguiti dai cosacchi e di averli più tardi alle spalle.

Iwan e l’jemskik, mentre Dimitri e l’ingegnere preparavano un po’ di the si misero in cerca d’un rifugio, avendo la speranza di trovare qualcuna di quelle ampie caverne che sono così comuni sui contrafforti dei monti Kajan e nei dintorni del Baikal.

Una mezz’ora dopo ritornavano recando la buona notizia di aver scoperta, nel mezzo d’una fitta pineta, una vasta grotta che si addentrava nei fianchi d’una enorme rupe e dove potevano trovare comodo ricovero non solo gli uomini, ma anche i cavalli e le slitte.

– Potremo attendere la notte senza correre il pericolo di venire scoperti, – disse Iwan, – e potremo anche accendere un bel fuoco e approfittare delle provviste della slitta per allestirci un pranzetto.

– Deve essere una caverna meravigliosa, se non vi manca nemmeno il camino, – disse Maria, sorridendo.

– Non pretendo che vi sia, ma lo costruiremo noi, è vero Dimitri?...

– Sì, signor Iwan, – rispose il polacco, – e offriremo alla signorina Maria una zuppa eccellente. Ho scoperto due sacchetti di pemmican fra le provviste del capitano e ci daranno una bevanda migliore del the.

– Seguitemi, – disse Iwan allegramente.

Si misero in cammino attraverso alla folta pineta, mentre Dimitri e l’jemskik conducevano i cavalli per le briglie, essendovi non poche difficoltà a far passare la slitta e la troika; e si diressero verso la gigantesca rupe la cui cima, biancheggiante per la neve che la copriva, si vedeva ergersi sopra le piante più alte.

Dopo molto girare e rigirare, la comitiva giunse al rifugio. Stavano per entrarvi, quando l’ingegnere additò alcune tracce che si vedevano impresse sulla candida neve e che si dirigevano precisamente verso la caverna.

– Cosa sono queste? – chiese all’jemskik. – Sembrano le orme di qualche belva.

– Mi sembrano le tracce di qualche stepnaia koschke, – rispose il cocchiere. – Forse qualcuno di quegli animali avrà cercato un ricovero nella caverna.

– Sono bestie pericolose? – chiese Maria.

– Sono specie di grossi gatti selvatici, dal corpo robusto, che s’incontrano di sovente nei boschi della Transbaikalia, – disse il colonnello. – Non sono affatto da temersi, poiché vivono bensì di rapine, ma si limitano a prendersela colle lepri bianche e coi piccoli rosicanti.

– Se ne troveremo qualcuno nella grotta, lo metteremo in fuga con una buona legnata, – disse Iwan. – Dei gatti non ho mai avuto paura, nemmeno di quelli selvatici.

La comitiva entrò nel rifugio, con una certa precauzione però, non essendo certa che quelle orme fossero state lasciate da un inoffensivo gatto selvatico.

Quella caverna assai spaziosa, poteva contenere comodamente una cinquantina di persone, ed una dozzina e più di cavalli; era di forma circolare con parecchi antri tenebrosi, specie di gallerie che si addentravano nei fianchi della colossale roccia, e con la vôlta altissima, tanto che in certi punti non si arrivava a scorgerla.

Mentre il colonnello, Maria e l’ingegnere si accomodavano alla meglio e Dimitri e l’jemskik staccavano i cavalli, Iwan fece il giro della caverna e perlustrò le gallerie servendosi d’una lanterna della troika, per vedere di scovare il gatto selvatico, ma non trovò alcun animale. Vide però, in un angolo oscuro, delle ossa spolpate appartenenti anche a grossi animali e che parevano fossero state rosicchiate di recente, poiché alcune erano ancora lorde di sangue fresco.

– Bah?... – diss’egli alzando le spalle. – Se il gattone vorrà rientrare dovrà chiedere il permesso a noi e lo manderemo a passeggiare ancora al fresco.

Intanto Dimitri e l’jemskik, fatta provvista di rami resinosi e secchi, avevano acceso un allegro fuoco, mettendo a bollire una pentola di rame piena d’acqua e di pemmican1 per allestire una buona zuppa.

I fuggiaschi, che avevano estremo bisogno di riscaldarsi lo stomaco, perdurando il freddo, fecero tutti molto onore al pasto, poi certi di non venire disturbati, si sdraiarono sulle pellicce trovate nella troika, mentre l’jemskik montava il primo quarto di guardia presso l’entrata della caverna.

Erano trascorse quattro ore e dopo Dimitri, Iwan era subentrato nella guardia, quando gli parve di udire al di fuori come un sordo brontolio che annunciava la presenza di qualche animale.

– Che sia il mio gattone?... – si chiese, alzandosi sollecitamente ed afferrando un grosso ramo di pino. – Ora lo accomodo io, se crede di venirci a importunare. Non vi sono lepri bianche da spolpare qui dentro, mio caro.

Si spinse verso l’uscita guardando al di fuori, ma subito retrocesse vivamente, mormorando con una certa apprensione:

– Altro che gatto!... Quello è un gatto gigante!... Per simile animale ci vuole il fucile, non un bastone!...

A venti passi dalla caverna, ritto presso un grosso pino, in atto di spiccare un gran salto innanzi, aveva scorto un grosso animale che non aveva di certo l’apparenza tranquilla. Se invece di essere in Siberia si fosse trovato nell’India, lo studente l’avrebbe facilmente preso per una tigre o per un leopardo, quantunque un po’ diverso nel pelame.

Quell’animale somigliava realmente ad un leopardo. Era lungo oltre un metro e mezzo, era alto uno, aveva una lunga coda simile a quella delle tigri, l’aspetto feroce, sanguinario, ma cosa strana, il suo pelame invece di essere fulvo a chiazze od a strisce nere, era grigio biancastro a riflessi giallognoli, con delle macchie nerastre di forma circolare e sul dorso aveva una larga riga opaca. I suoi orecchi inoltre erano corti e tagliati come quelli dei gatti ed aveva dei baffi lunghi, irti, bianchi e neri.

Iwan non sapeva con quale animale avesse da fare, né se era pericoloso o meno; essendo però coraggioso lasciò andare il ramo e s’armò del remington, risoluto a respingere quell’avversario. Certo del suo colpo, non si prese nemmeno la briga di svegliare l’jemskik per chiedergli a che specie apparteneva quell’animale. Temendo però di venire bruscamente assalito, uscì con precauzione tenendo il dito sul grilletto del fucile per essere pronto a far fuoco.

Appena si trovò all’aperto vide che l’animale si era arrampicato su d’un grosso pino, tenendosi presso l’estremità d’un robusto ramo che s’allungava verso l’entrata della caverna.

– Toh!... – esclamò lo studente, stupito. – Se quella bestia si arrampica, deve essere il gattone che abitava il nostro rifugio. Ha però un aspetto troppo fiero ed una taglia un poco troppo grossa per essere un gatto selvatico e non vorrei che fosse più audace e più pericoloso di quanto io supponga.

Alzò il fucile e lo prese di mira. L’animale, comprendendo di essere minacciato, si raccolse su sé stesso, come fanno le tigri quando stanno per prendere lo slancio e piombare sulla preda e fece udire un rauco miagolìo, che rassomigliava al sordo grido del leopardo. I suoi occhi, contratti, si fissarono sul coraggioso studente.

Iwan esitò un momento, poi premette risolutamente il grilletto. Alla detonazione fragorosa che si ripercosse nella folta pineta, tenne dietro un urlo feroce, terribile.

Lo studente aveva fatto rapidamente un passo indietro per ricaricare l’arma, ma ad un tratto si sentì atterrare. La belva aveva fatto un gran salto, l’aveva urtato violentemente, mandandolo a gambe levate, poi con un secondo slancio si era precipitata nella caverna, seguita da un’altra compagna che era improvvisamente balzata dai rami d’un pino, fra le cui fronde doveva essersi tenuta fino allora nascosta.

Sergio, Maria e tutti gli altri, udendo quello sparo, si erano svegliati, precipitandosi all’aperto colle armi in mano, credendo di essere stati sorpresi da una banda di cosacchi.

Vedendo Iwan a terra, il colonnello e Maria accorsero a lui, mentre i loro compagni puntavano i fucili in tutte le direzioni, cercando i nemici.

– Siete ferito? – chiese Sergio.

– No, colonnello, – rispose lo studente, alzandosi prontamente, – però sono vivo per miracolo.

– Ma dove si sono riparati i cosacchi che hanno fatto fuoco su di voi?

– I cosacchi!... Ma che cosacchi?... Sono stato io a scaricare il fucile.

– Contro chi? – chiese Maria.

– Su di un grosso animale che cercava di assalirmi.

– Sullo stepnaia koschke? – chiese l’jemskik.

– Credo che fosse qualche cosa di peggio d’un gatto selvatico, poiché era grosso quanto un leopardo.

– Dov’è questo animale? – domandò il colonnello.

– È fuggito nella caverna, seguìto da un compagno.

– Che animali saranno? – si chiese Sergio, con una certa inquietudine. – Abbiamo i cavalli nella caverna e sono troppo preziosi per perderli. Amici, andiamo a scovare quegli ospiti importuni.

– Adagio, signore, – disse l’ingegnere, arrestandolo. – Non sappiamo ancora con quali fiere abbiamo da fare.

– Saranno dei grossi gatti selvatici.

– Non credo, colonnello. – disse Iwan. – Mi sembravano leopardi.

– Dei leopardi qui!... – esclamò Maria. – Siamo in Siberia e non già in Africa o nell’India.

– Non mancano nemmeno qui, signorina, – disse l’ingegnere. – Temo che quei due gatti siano irbis, ossia due leopardi delle nevi. Avevano forse il pelame bianco-giallastro a chiazze nere?...

– Sì, – rispose Iwan.

– Allora non mi sono ingannato. Abbiamo da lottare con due animali pericolosi quanto i leopardi dell’India e dell’Africa.

In quell’istante entro la caverna si udirono i cavalli nitrire e sferrare calci, pareva che si difendessero o che cercassero di spezzare i legami per fuggire all’aperto.

– Assalgono i nostri animali, – disse il colonnello, impallidendo. – Se li perdiamo non potremo sfuggire all’inseguimento dei cosacchi:

– No, signore, – disse l’jemskik. – Eccoli che hanno spezzate le corde e che escono.

Era vero: i cavalli della slitta e della troika, che erano stati legati l’uno all’altro con una semplice cordicella, uscivano in massa, pigiandosi contro le rocce dell’apertura.

Il cocchiere, Dimitri, l’ingegnere ed Iwan si slanciarono verso di loro per impedire che fuggissero attraverso la pineta e riuscirono ad arrestarli, legandoli nuovamente e radunandoli attorno ad un abete, mentre il colonnello e Maria puntavano le armi credendo che uscissero anche i due leopardi delle nevi, ma rimasero delusi.

Le due belve, vedendo quella truppa d’uomini, si erano prudentemente ritirate, prevedendo che nulla avrebbero guadagnato nella lotta.

– Credo che non lasceranno così facilmente il loro rifugio, – disse il colonnello a Maria.

– Lasciamoli a goderselo in pace, – rispose la giovanetta. – Andremo a cercarne un altro.

– Abbiamo la slitta e la troika là dentro e quei due veicoli non usciranno di certo da soli.

– Non ci avevo pensato. E così dovremo scovarli?...

– È necessario, Maria.

– Sono realmente pericolosi?...

– Quando gli irbis sono assaliti si difendono con pari vigore e ferocia dei leopardi. Ordinariamente se la prendono colle capre e colle pecore dei pastori, però non di rado, quando sono spinti dalla fame, osano affrontare anche gli uomini.

– E come si trovano qui simili animali, mentre i loro congeneri abitano i climi caldi?...

– Amano invece il freddo, poiché si trovano per lo più sulle montagne, a tremila e perfino a cinquemila metri d’altezza. La loro fitta pelliccia basta d’altronde a preservarli dai geli.

– Ebbene, colonnello, cosa facciamo? – chiese in quell’istante l’ingegnere. – Dobbiamo scovarli?...

– Non possiamo farne a meno, se vogliamo ricuperare la slitta e la troika.

– Se cercassimo d’affumicarli? – chiese Dimitri.

– Sarebbe una faccenda troppo lunga. Siamo bene armati e tutti abili bersaglieri, possiamo quindi affrontarli.

– Andiamo adunque, – disse l’ingegnere. – Sangue freddo e apriamo per bene gli occhi, poiché i leopardi delle nevi si difenderanno ferocemente.

Pregarono Maria di starsene presso i cavalli coll’jemskik, onde non esporsi inutilmente a quel grave pericolo, poi il colonnello e l’ingegnere dinanzi e Iwan e Dimitri, di dietro, si avanzarono con precauzione, tenendo le armi puntate. Giunti presso l’entrata della caverna sostarono un istante per ascoltare, ma non udirono il più lieve rumore.

– Temo che i leopardi si siano ritirati in qualche galleria, – disse Sergio.

– Lo credo anch’io, – rispose l’ingegnere.

– Ed in quale?... Ecco quello che vorrei sapere.

– Si faranno udire, colonnello.

Ripresero la marcia, con cautela, guardando attentamente dinanzi, a destra ed a sinistra. Fortunatamente il fuoco non si era ancora spento e illuminava una parte della caverna.

Appena entrati udirono, in fondo ad una galleria, un rauco brontolio e guardando attentamente in quella direzione videro brillare due occhi verdastri a riflessi gialli.

– Adagio, – disse l’ingegnere. – Un leopardo è là.

– E l’altro?... – chiese Iwan.

– Saranno insieme, suppongo, – disse il colonnello. – Giacché scorgo quel paio d’occhi, mando una palla al suo proprietario.

Puntò il remington e mirò per alcuni istanti con profonda attenzione. Gli occhi della fiera che scintillavano fra le tenebre della galleria, rimanevano fissi sul gruppo degli intrepidi cacciatori.

Il colonnello fece fuoco. La detonazione era appena echeggiata, quando si vide il leopardo slanciarsi, con un salto immenso, fuori della galleria e cadere a tre passi dal colonnello.

Iwan e Dimitri stavano per scaricargli addosso i loro fucili, quando l’ingegnere li trattenne gridando:

– È morto!... Attenti all’altro!...

Il secondo leopardo si era pure slanciato addosso ai cacciatori, forse coll’intenzione di vendicare il compagno e di aprirsi il passo. Sfuggì alle scariche dello studente e di Dimitri e si rovesciò addosso al colonnello che stava caricando il fucile, tentando di abbatterlo con un colpo di zampa.

L’ingegnere però aveva veduto ogni cosa. Rapido come il lampo si era gettato dinanzi a Sergio, puntando il remington.

Il leopardo, furioso, afferrò fra le potenti mascelle la canna del fucile, tentando di stritolarla o di strapparla dalle mani dell’ingegnere. Questi fu lesto a premere il grilletto.

La belva inghiottì la palla, il fumo e la vampa e cadde a terra col cranio fracassato dibattendosi fra le ultime strette dell’agonia.

– Bel colpo!... – esclamò Iwan.

– Grazie, ingegnere, – disse il colonnello, stringendo vivamente la mano del valent’uomo. – Vi devo la vita.

– Ed io vi devo la libertà, signore, – disse l’ingegnere, – questa libertà che vale ben più della vita.

Maria, che erasi avanzata per prender parte alla lotta contro le due fiere, temendo che i suoi compagni non bastassero, andò pure a stringere, con commozione, la mano dell’ingegnere, dicendogli:

– Siete un valoroso e devoto compagno, signore.

– Partiamo, signori, – disse l’jemskik. – Le tenebre cominciano a calare e la via è lunga.

– Mi rincresce però dover abbandonare queste splendide pellicce, – disse Iwan.

– Ci manca il tempo per scuoiare questi due leopardi e poi non ci sarebbero di alcuna utilità pel momento, – osservò Sergio. – Orsù, partiamo.


Note

  1. Carne secca ridotta in briciole e mescolata a del grasso.