Grammatica Piemontese/Prefazione

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Prefazione

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Ai cortesi lettori Capo I. Dell'alfabeto piemontese

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PREFAZIONE



Fra tutti que’ dialetti, che in tanti paesi dell’Italia nostra si usano, secondo quel che io avviso (ed al giudizio mio non pochi Letterati concorrono), il Piemontese a buona equità può riputarsi tra i più dolci, più gentili e più esprimenti, sia che di questo la pronunzia si consideri, sia che si osservi la proprietà e copia dei vocaboli che il compongono, sia che il fonte si riguardi onde trae l’origine.

Io non niego già, che il dolce amor della patria, per cui, al dire dell’immortal Metastasio nel Temistocle:

“    .    .    .    .    . amano anch’esse
Le spelonche natie le fiere istesse „

abbia tanta forza sul cuore umano, che tutto bello rappresenti quanto nella patria si racchiude. Ma se taluno, scevro affatto dai pregiudizi di questa natural prevenzione vorrà, circa quanto son per dire intorno al dialetto nostro, eziandio in confronto di tanti e tanti altri instituire un retto giudizio, mi giova il credere che darà gloria singolare al Piemontese, a cui la presente Gramatica è destinata.

Infatti non ha l’idioma nostro la pronunzia nè troppo lunga e sgradevole, nè troppo ratta e confusa, nè gonfia e rimbombante, nè fra denti interrotta, e quasi con fischio che sentir facciasi; nè ha finalmente tant’altre, le quali troppo lungo sarebbe il nominare, difettose maniere di proferire, che a molti altri dialetti con ragione vengono ascritte, e con tedio non poco dai forestieri udite. [p. 8 modifica]Coll’idioma Piemontese ogni cosa che ad uso possa servire, agevolmente ed in brieve spiegar possiamo, comunicarci le idee e ragionare sopra qualunque soggetto, ed al vivo delinearlo. Se poi il fonte si rimira cui egli riconosce, apertamente pure si scorgerà che altro esso non è nella massima sua parte, che un linguaggio italiano alterato o mozzo, e in parte puro e mero italiano, come anche in qualche parte linguaggio francese alterato e parte puro 1, cosi che in ricchezza di vocaboli e di espressioni a queste lingue per alcun conto non la cede.

Ciò posto adunque, perchè, diss’io, un dialetto cotanto gentile e copioso non potrà egli scriversi, o, se si scrive, avrà egli a durarsi gran fatica in leggerlo? Al che rivolgendo il pensiero compresi quanto era desiderabile, anzi necessario, che le opportune regole si dessero per leggerlo e scriverlo; ma compresi nel tempo medesimo le gravissime difficoltà di quest’assunto.

Ardua cosa è in vero il gettare i fondamenti d’un dialetto, il quale sebben vivo sia nelle bocche, e se scritto od eziandio dai torchi fatto uscire, dalle vere regole (mi perdonino gli autori) egli è tuttavia assai lontano; poichè da questi ben o mal gettati, dipende la maggiore o minore perfezione del medesimo; onde a chi s’accinge a tal impresa conviene aver attento l’occhio, ad un gran numero di cose, acciò non incorra ne’difetti nei quali inciamparono tanti altri, sì dialetti che lingue, le quali danno occasione di doglianze agli scrittori; essendo certissimo, che dopo lo stabilimento e di lingue e di dialetti, forza è non di rado ritenere ciò che hanno di cattivo, ed è difficile lo emendarne gli errori. A ciò conseguire, primo: si ricercherebbe il consenso della Repubblica letteraria, altrimenti ne nascerebbe una confusione; vi vorrebbe in secondo luogo uno studio particolare per intendere gli scrittori che la Riforma precedettero.

Già da moltissimi valenti Letterati si riconobbe la necessità di questo lavoro, e si sa che parecchi professori d’umane lettere si accinsero a far un Alfabeto, una Gramatica ed un Vocabolario per uso dei Piemontesi; ma non so qual sia stata la cagione per [p. 9 modifica]cui non mandarono ad effetto un disegno, al parer mio s plausibile, se forse non furono ributtati e respinti dalle gravissime difficoltà incontrate. Ma queste non valsero a trattenermi dallo accignermi a questo arduo impegno, ricordevole di quel saggio avvertimento, che ci dà Orazio

... Eheu!
Quam temere in nosmet legem sancimus iniquam!

avendo presente, che il vantaggio pubblico dee essere il principal motivo di nostre azioni. Ond’è, che comunque da taluno io sia per esser tacciato di audace, mi consolerò sempre con quel detto dello stesso Orazio

Felix, qui posuit rerum vestigia primus.

Ho dunque creduto cosa non inutile e non disaggradevole al nostro paese il pubblicare un Alfabeto con un saggio di declinazioni e coniugazioni, e di dar quindi per esercizio di lettura alcune lettere nel nostro idioma colla loro versione italiana, come anche una raccolta di Proverbi e Modi proverbiali. Ma siccome per lo studio e l’intelligenza d’una lingua la Gramatica sola non basta, così ho parimente compilato un Vocabolario nel nostro dialetto, a cui risponderanno le voci italiane, ed anche nella precipua sua parte le Latine e Francesi. Pubblicherò finalmente una Raccolta di Poesie Piemontesi, che mi venne fatto di raccogliere, le quali nel loro genere, secondo me, hanno tutta quella dolcezza e quel bello che la poesia richiede, così che il nostro dialetto bastano a sufficientemente commendare e a farlo più giustamente apprezzare da chi nol cura, e ansiosamente studiare da chi lo ignora. La qual cosa perchè tutta avesse quella faciUtà e chiarezza, che i principii di ogni lingua non che d’ogni dialetto richieggono, ho procurato, per quanto ho potuto, di non iscostarmi dalla maniera di scrivere degli italiani, e di assegnare a ciascuna lettera di questo Alfabeto esattamente quel suono, che nel parlar comune e volgare da’Piemontesi si fa sentire. Ho pertanto ritenuti tutti i caratteri usati dagli italiani, eccettuata la k, la x, la y e la &, le quali inutili sarebbero nel nostro Alfabeto. Per esprimere però certi suoni che nell’italiana lingua non hanno luogo, mi fu forza modificarne altri sei, due vocali cioè, due semivocali, una consonante [p. 10 modifica]ed un dittongo, e di assegnare un suono diverso alla ſ che lunga volgarmente vien chiamata. Ho quindi notati alcuni difetti e rilevati alcuni dubbi, nei quali da uomini non poco addottrinati nel pronunziare di alcune vocali italiane s’incappa; e a questo fare sono stato costretto dalla necessità di vie meglio chiarire il suono delle nostre vocali.

Ora, siccome l’introdurre caratteri di nuova forma, affatto cosa inconveniente non che stravagante avrebbe potuto sembrare, ho perciò riputata cosa migliore servirmi di caratteri usati, o raddoppiandoli, o ponendo loro un segno particolare.

E qui parmi cader in acconcio d’avvertire i leggitori d’alcune cose, e primieramente, che io qui pretendo bensì, che con questo Alfabeto si possa scrivere e leggere qualunque dialetto del Piemonte, ma non già di metter in uso indifferentemente qualunque vocabolo termine che in ogni dialetto Piemontese abbia corso, perciocché quanto a’ termini, penso a quel dialetto dovermi attenere, che più intelligibile, più colto e più civile è riputato: e questo io chiamerò Torinese o Cortigiano, ad imitazione del Castelvetro, il quale ragionando sul nome di Cortigiana dato alla lingua d’Italia da Vincenzo Calmeta2 dice «che la Corte d’una Città che abbia Principe, parla più nobilmente che non parlano i provinciali, quelli del contado, ed ancora il comun popolo della Città;» in secondo luogo, che quanto alla maniera di pronunziare io seguito la Torinese e non altra: finalmente, che io, oltre al tacer di tante definizioni e di tante parti, che in ogni Gramatica si usano, perchè per queste richiamo il leggitore ai principii della lingua italiana, intralascierò nel Vocabolario le voci delle cose spettanti all’arte Medica, riserbandomi a parlare di questi nel mio Dizionario universale ragionato di Medicina, per uso spezialmente dei Piemontesi, che fra breve io renderò pubblico, per l’intelligenza del quale moltissimo gioverà questa mia Gramatica, che non per altro fine ho da più anni intrapresa, se non se per l’interesse ch’io prendo nella gloria e nel vantaggio della Nazione. E questo lavoro, perchè animato da un così nobile oggetto fummi di non leggier sollievo non solo nelle mie gravi occupazioni intorno alla [p. 11 modifica]Medicina pratica e ne’ vari scritti riguardo alla medesima compilati, ma servì anche a distogliere l’animo mio dalle tetre rimembranze, che l’avrebbero oppresso per la perdita fatale di persone, delle quali fui un giorno

... (Mel dice amore)
Fortunato consorte, e genitore.

Qualunque pertanto sia per essere la mia fatica, ricevila in buon grado, o Lettore, e come cortese

Da veniam scriptìs, quorum non gloria nobis

Caussa, sed utilitas, officiumque fuit.


Maurizio Pipino.

Note

  1. Le voci Francesi, che abbiamo adottate, si pronunziano per lo più da noi come si scrivono, o in maniera non molto diversa.
  2. Giunta alle prose del Bembo, pag. 34 in foglio.