I Corsi e la Corsica alla fine del secolo XV

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Carlo Errera

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Questo testo fa parte della rivista Archivio storico italiano, serie 5, volume 7 (1891)

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I CORSI E LA CORSICA ALLA FINE DEL SECOLO XV.

(Da due epistole di Antonio Ivani)


Dei Corsi e della Corsica si è scritto assai; ma troppo spesso, non romanzieri soltanto ma anche scrittori di geografia e di storia, hanno narrato di quegli isolani solo l’animo fiero e pugnace che li rende, tra due regioni fiorenti di coltura e di civiltà, quasi un fenomeno nuovo e strano. Onde, male accozzate le cognizioni raccolte qua e là sulla vita selvaggia e libera di quei montanari, con quelle altrettanto scarse e incomplete sulla grande e fiera storia delle lotte che essi soffersero senza posa per la libertà, non è che troppo facile riscontrare anche oggi presso molti una nozione vaga e povera dei Corsi, come di popolazione che viva liberamente, male obbedendo al freno delle leggi, lunge dalla civiltà, cercando il più sovente nelle giogaie più inaccessibili dei monti rapine e vendette, in un’isola rocciosa e incolta battuta dai venti e dal mare. Tale, e non più esatta o più larga, la cognizione che della Corsica molti hanno nel nostro paese: cognizione che anche oggi, come una volta, mantiene quel!’ isola bella quasi solitaria e ignorata a poche miglia da spiaggie e da terre che nella loro storia e nella loro vita di ieri e di oggi tutti ricercano ed amano.

Ora, se tale oggi, quale dovette apparire un giorno, quando il nome di colui che fu (e resterà, forse) l’ultimo dei conquistatori d’Europa, non aveva ancora riempito tutto il mondo della fama dell’umile Corsica? quando arrivava appena ai popoli del continente ii fragore lontano di una lotta infinita rinascente ogni giorno e il grido di libertà e di vendetta e di dolore degli isolani e il rimpianto degli esuli e l’eco delle magnifiche imposture d’un re da commedia? E quale dovette quella terra apparire in epoca più lontana ancora, quando tutta la vita d’Italia si concentrava e si espandeva nella esuberanza meravigliosa del Rinascimento, se non una terra di orrore, un nido di sangue, un covo invincibile di barbarie?

[p. 391 modifica] Pure oggi, a chi voglia della condizione attuale dell’isola farsi un’idea giusta e adeguata, diversa o più vera di quella che non s’è ancora cancellata nella maggior parte, si offre agevole la via, ed opere scarse ma pregevoli bastano in gran parte all’uopo; e, a chi voglia conoscere la storia e i costumi passati nelle epiche lotte dei secoli più vicini, non è meno facile il modo, nella copia dei monumenti che ci riconducono a quelle età memorande. Forse non è così tuttavia per l’epoca che a questa precede, e chi dicesse ora a noi la coltura e la vita dell’isola sul principiare dell’età moderna, ci darebbe notizie preziose.

Per fortuna tra le memorie e descrizioni di costumi e di paesi, delle quali ha tanta e nuova ricchezza la letteratura del nostro Rinascimento, che ce ne ha lasciati splendidi modelli, anche la Corsica ha la sua parte modesta, e due documenti, fra altri, ci sono rimasti sulla vita e sui costumi dei Corsi, notevoli per la giustezza e l’imparzialità dell’osservazione e per l’accuratezza della relazione. Questi documenti, noti finora soltanto in parte, pubblichiamo ora qui per intero1.

Sono due scritti di Antonio Ivani, figliuolo di quella piccola Sarzana che dette al Rinascimento, oltre a questo nostro storico meno noto, il pontefice Nicolò V e Iacopo Bracelli, lo storiografo di Genova. L’Ivani è conosciuto sopratutto per il suo Commentariolum de Bello Volaterrano2, uno scritto che ha il pregio dell’essere composto da un testimonio oculare (fu egli cancelliere della città di Volterra dal 1466 al 1472) e di essere scritto nel puro ed elegante latino d’allora, ma ha il torto grave di essere troppo sovente un’apologia dei Fiorentini e dell’opera triste di Lorenzo de’ Medici. Dell’autore poco altro si sa. Molto peregrinò per l’Italia, restando tuttavia quasi sempre al servigio dei Fregosi che erano signori della sua Sarzana, e particolarmente di quel Lodovico Fregoso che fu con sì alterna vicenda [p. 392 modifica]di fortune più volte sollevato alla dignità di doge in Genova sua. Probabilmente da lui fu mandato in sul finire dell’anno 1463 in Corsica al vicariato di Biguglia colla missione di dar opera a ritenere in fedeltà gli isolani, i quali fin dal 1460, ribellati al Banco di San Giorgio, obbedivano pur renitenti alla famiglia dei Fregosi e, per essa, a Tomasino, nipote di Lodovico. Tornando dall’isola l’Ivani nell’aprile del ’64 potè vantarsi di aver adempiuto, per quanto stava in lui, all’incarico affidatogli, difficile incarico, tra così varia e torbida condizione di uomini e di cose. Pure l’opera sua non era destinata a lasciare traccia, nè a rialzare il dominio dei Fregosi che, incerto e mutabile entro Genova stessa, era affidato in Corsica alle mani di tale cui forse mancava animo pari all’impresa: talchè l’isola anch’essa, seguendo l’esempio della Liguria passava in breve nelle mani più forti del duca di Milano, Francesco Sforza. Profughi il doge Paolo Fregoso, e Lodovico, e Tomasino, vissero a lungo in esiglio, ridotti i due ultimi per far denaro a vendere a Piero de’ Medici Sarzana e Sarzanello e altri castelli che appartenevano a loro da lunghissimo tempo; tornarono più tardi in alto, e Tomasino riebbe per qualche anno la Corsica, ma senza riuscire a conservarla nè a sè nè ai suoi. L’Ivani rimasto con Lodovico fino al 1466, passò a Volterra, dove prestò al comune l’opera sua fino alla guerra fatale; poi dette il suo tempo alla storia degli avvenimenti a cui egli aveva assistito in Toscana. Più tardi poco altro sappiamo di lui3.

[p. 393 modifica]Della sua dimora in Corsica ci restano i due documenti, che diamo alla luce; il primo è una epistola de moribus corsicanis diretta a Cicco Simonetta, scritta, come risulta dalla lettera stessa, durante l’ufficio dell’Ivani nell’isola; il secondo un’altra epistola de rebus corsicanis diretta al Simonetta stesso, e scritta (ce lo dice una lettera al Tranchedini) nel maggio del 1464. L’uno e l’altro documento sono da considerarsi come vere e proprie composizioni letterarie, non dissimilmente dalle epistole di tutti i dotti del Rinascimento; ma hanno di più il carattere di quelle relazioni, che divennero in epoca di poco [p. 394 modifica]più tarda consueta e mirabile testimonianza dell’acutezza di giudizio e della profondità d’osservazione degli ambasciatori italiani. La seconda delle due epistole si avvicina tanto più a questo carattere, in quanto che essa si presenta come una vera relazione scritta per invito sovrano da un legato reduce dalla sua missione4.

Ciò premesso, ecco i due documenti.


I.

Anthonius Yvanus Sarzanensis

Mag.co d. Cicho ducali secretario.


Postquam in his laboribus et angustiis coniectus sum, amplissime vir, preter litteras vestras nihil nihi iucunditatis allatum est; antea etsi vestre humanitati deberem, nunc certe quas vobis gratias digne sim5 habiturus non plane intelligo. Referrem libenter pro singulari mea in vos devotione, sed, quia neque vos indigetis tenui amici dono neque aliquid hic impresentiarum invenio, quod vestre amplitudini recte conveniat, solum scribam aliquid ad vos de rebus corsicanis: ut6, quemadmodum noticia maximarum omnium rerum ad virtutis vestre prestanciam variis temporibus advolavit, sic rectius intelligere possitis quo vite genere Corsi a ceteris Ytalis differant.

Quingenta millia passuum tocius huius insule ambitus esse fertur, cuius habitatores etsi omnium pene bonarum artium expertes esse censeantur, minus tamen id invenio quam sit opinio eorum quisoli fame credunt. Si enim7 de huiusmodi rebus recte sencio, parum hii a ruralibus, campariis et maritimis hominibus Romane Ecclesie differunt: lingua, meo iudicio, et vivendi ritu haud multum impares esse video. Verum hi sunt corporibus aliquantulum incultiores, ad mutationesque et ad versutias longe magis paratos invenio: nec sane mirum: habent enim inter se multas ac varias factiones. Suos haljent tribunos, capita sive populi caporalles (sic) vulgo [p. 395 modifica]appellantur. Illis etiam principes nonnulli sunt parti cuidam insule libero dominio imperitantes; hii (sic) sepe inter se dissenciunt et ab eis oriri solet mutacionum causa, nam, cum regionum suarum asperitati confidant et neminem sibi nocere posse arbitrentur, suis rebus contenti non vivunt, quin finibus egredientes rapiunt sepe aliena, vimque tenuioribus finitimis inferentes merito (?) se domum recipiunt. Hinc oritur seditio popularis; variis tunc quisque artibus nititur; caporalium alii favent rapinis, illas alii prohibent, hunc8 alii, illum alii sequuntur. Que sane res nullam affert mihi admiracionem, cum insula hec vilis et vicis paucissimis admodum arcibus et oppidis referta sit: liberum genus liberam habet tumultuandi facultatem: menia eorum sunt mare ac montium asperitates: nemini ni sibi ipsis bellum inferunt raroque id paciuntur ab extraneis, nisi propter factionum diversitatem illis ipsi belli sedes tradant.

Duo inter cetera me ad risum provocarunt, ritus videlicet militaris in quo Romuleos pastores pristine illius militie videre videor, et ea que funeri concedunt: verbo hec refferam (sic), si licebit, cum ero apud claritudinem vestram, ne epistola hec ad historiam transeat. Iuramentis quoque parum fidei adhibent, nisi ad oratorium quodam divi Anthonii de Campoloro conveniant: id enim aut venerant aut metuunt, cetera parvi faciunt. Pulcrum est videre, quo studio longis itineribus ad illud oratorium in causis eorum privatis iurandi causa multi homines concurrant: que sane res plurimum adiuvat magistratum, nam in rebus que probari facile non possunt huiusmodi refugio utuntur. Mos autem causidicorum haud aspernandus est, nam sino libellis agunt, sino legibus, solis decretis institutis et racionabilibus argumentis ante tribunal voce contendentes; nec credatis illos eloquentia carere nec dissimulandi arte: absque actione oratores facti sunt, iurisperiti sino legibus, dialetici absque preceptionibus.

Hec experior quotidie, et nunc recte scio quam difficile sit tante multitudini ius administrare, et in tam diversis animis continuo versari. Triginta milia hominum et forte plura huic meo magistratui parent, et hi parent qui in libertate vivunt, que res indicat Corsos non esse adeo perversos ut multi existimant: nam, si pars aliqua nostrarum regionum frequentibus oppidis urbibus et arcibus careret, huiusmodi partis incole tanta libertate fruerentur, nescio an laudabiliorem bis vitam ducerent. Ego autem, etsi agam apud homines tumultuarios et hoc vite genus mihi satis molestum sit, existimavi tamen esse virtutis laudem illis inservire qui onus [p. 396 modifica]hoc debilibus meis humeris imposuerunt, tum quia illis debeo, tum etiam quod ingrati etiam non consueverunt (sic).

Iocundum mihi fuit accepisse fedus istum inter maiestatem regiam Francorum et illustrissimum principem vestrum, tum quia res ipsa lihertatcm Italie concernere videtur, tum etiam quod Mag.re d. meo vestri excellentissimi principis amplitudinem placere admodum intelligo. Fauste omnia utinam feciliterque succedant. Reliquum est ut vostra claritudo me diligat et suorum numero aggregare dignetur.


II.

Anthonius Yvanus Sarzanensis Viro amplissimo

dno Cicho Simonete salutem p. d.


Cupere videtur suis litteris amplitudo vestra reddi a me certior, quot et que oppida civitatesque ac episcoporum dignitates in Corsica existant, quo genere fructuum copiosior sit et qua exercitii voluptate Corsi magis capiantur. Horum primum satis mihi constare arbitrer; aliud parum quia, estivo tempore in insula minime versatus, veram de fructibus reddere racionem non possum, nisi ut vulgo fertur; tertium vero ita mihi est in promptu, ut adhuc videantur eorum mores abhorrere tanquam ab omni civili cultu et splendore virtutis alienos. Verum postrema hec pars explicabitur duplici racione, cum ex tribus Corsorum generibus, vivendi rito duo tantum esse intelligantur.

Ut enim breviter ad rem veniamus. sex Corsica episcopatus continet, Aleriensem, Marianensem9, Sagonensem, Aiacianum10, Ampognanicum, Nebiensem: primi tres commodo et honore prestanciores esse feruntur, posteriores inter parum et nihil constituti satis habent nomen retinere. Hoc omnes Aleriensis dignitate ac redditibus antecedit, cuius annua utilitas circiter trium milium librarum genuensium esse constat; ceteri declinant gradatim usque ad trecentas. In his episcopatibus archidiaconi sunt, plebani, canonici et alla sacerdotum turba imperita, ex quibus plures gramaticam ignorant: quin multos ego vidi suomet in libro legere nescientes. Concubinis indulgent plurimum, quarum parentes aut germani satis nobilitari se existimant, more patrio, si cum sacerdote contrahunt eiusmodi affinitatem. Ex his omnibus pauci sunt quibus beneficia sua trecentas genuenses libras afferant utilitatis.

[p. 397 modifica]Civitates in insula nulle sunt longo iam tempore. Quatuor extant opplda: Bonifacium, colonia Genuensium ut aiunt, Calvium, Bigulum, et Sanctum Florencium. Cetera omnia, preter nonnullas arces, loca sunt sine menibus, ut puta vici et ville sparsaque tuguria, quibus nulla publici aut memorabilis edifficii (sic) memoria extat.

Fructus autem insule hi esse dicuntur: triticum habunde (sic) si erit annona fertilis, at si erit annone caritas, fame coguntur multi cum uxoribus et liberis in agrum Pisanum, Senensem et Romanum transfretare; vini magna illis copia est maritimi et montani; ordeum, castanee, mel, linum, oleum olivarum, carice, cetrones, pisces diversi generis, pecudum et armentorum ingens numerus. Ager fertilis in planicie, que modica est, sed melioribus cultoribus indigens, quem (sic) enim admodum ad agriculturam sunt segnes: ita quidem et omnia Immane vite ornamentum negligunt inculti, barbati, ocreati.

Horum mores quia ad postremam partem narracionis nostre pertinent, eam aggrediamur. Tria, ut predixi, sunt Corsorum genera: principes qui vulgo curarcenses appellantur, caporales, multitudo plebis. Duo priores eodem fere vite genere utuntur: iuvat eos equitare, iaculari, moliri adversa inter se et contra statum publici regiminis, sepe contencionibus ac rapinis intendere, indulgere plurimum ventri ac turpissime parti corporis, omnia ferme reicientes que ad humanitatem et ad veram nobilitatem spectare intelliguntur. Plebs vero, quamvis incultissima sit, certe satis paret honestati, liberalis est in paupertate sua, iusticiamque colit, eiusque ministros, modo sint recti, non modo venerantur sed pro diis habent: huic ego generi hominum comparatior (sic) et sane recolens eorum sortem, doleo ipsos ad perferenda11 omnia impia natos esse. Principum septem sunt familie, due caputconsive (?), quinque curarchenses; caporalium quindecim, quas numerare supervacaneum esset magis quam necessarium: he omnes diversis factionibus plebem trahunt, ac sepe comessacionibus extenuant.

Postremo, ut paucis omnes Corsorum qualitates complectamur, sacerdotes, principes, caporales, pauci mercatores, agricultores, naute, pastores, feneratores, causidici, fures insulam omnem possident.

Fin qui l’Ivani. Malgrado la chiusa, che ricorda per ultimi, quasi la più notevole gente di Corsica, gli usurai ed i ladri (e in [p. 398 modifica]tale ahi! fera compagnia, gli avvocati), non si può dire che la pittura che egli fa dei Corsi sia troppo pessimista, sol che si pensi allo stato orrendo di miseria e di anarchia da cui doveva essere travagliata l’isola, e allo stato d’animo dello scrivente, che dalla pace della sua piccola Sarzana era stato gettato, contro ogni desiderio suo, in quel nido di contenzioni feroci. Uno spirito equo e sagace fa riconoscere chiaramente all’Ivani quante doti rare e preziose si celino nell’animo di genti rese selvatiche e fiere da una sequela non interrotta di oppressioni e di violenze senza nome; e nella giustezza appunto e nella acutezza delle osservazioni raccolte nei tre mesi vissuti nell’isola, sta il merito e il pregio di queste due lettere dell’Ivani.

Per quanto riguarda l’isola in sé stessa, nelle sue particolarità geografiche, nelle condizioni del suolo, nei prodotti, poco veramente è in essa di notevole: qualche dato sparso qua e là: un circuito di cinquecento miglia; un suolo montuoso la più parte, il resto piano e fertile assai solo che fosse meglio coltivato; prodotti, il frumento, l’orzo, il vino, l’olio, il lino, il miele, le castagne, i fichi, i limoni; prodotti animali, i pesci svariati e i greggi e gli armenti in gran numero.

La popolazione dipendente dall’ufficio dell’Ivani (forse la terra del Comune), è di trentamila anime e più; (mentre in quegli anni, se si potesse credere a una testimonianza spropositata di Pietro Cirneo, tutta l’isola avrebbe contenuto più di 400,000 abitanti). La divisione ecclesiastica è in sei vescovadi assai diversi tra loro per ricchezza e per importanza; in essi quattro sole città fortificate (il cronista Pietro ne registra parecchie più), pochi borghi riuniti, molte castella, molti villaggi e ville e poveri casolari sui monti; per tutto divise da profonde avversioni le varie classi della popolazione, nobili, caporali, clero e popolo. Lingua e modi di vita simili a quelli degli abitanti delle campagne e delle coste romane; (cosi il Gregorovius trova egli pure notevole somiglianza tra il parlare dei Corsi e quello dei Romani della citta, sopratutto del transtevere). I nobili, forti per le loro castella inespugnabili, prendon diletto del contendere senza posa tra loro, saccheggiando l’isola e tiranneggiando la popolazione inerme; i caporali si schierano con l’uno o con l’altro dei baroni e taglieggiano anch’essi la plebe; degli uni e degli altri, la vita è tutta in cavalcare, in trar d’arco in contendere fra sé e contro la cosa pubblica, in pugnare, in [p. 399 modifica]far bottino, in cercare ogni turpe diletto. Il clero povero, ignorante e corrotto: pur tenuto in gran conto, in troppo gran conto, dalla plebe. La plebe finalmente mobile, travagliata dalle fazioni, pigra al lavoro, ignorante, selvatica, ma fiera, generosa, onesta e giusta e assetata di giustizia: migliore assai della fama, capace di grandi cose e meritevole di sorte migliore. I difetti stessi del popolo hanno lor scusa nella libertà che hanno sempre goduto, libertà che li fa intolleranti d’ogni giogo, ma che pure non impedisce loro di sottomettersi e di obbedire volontariamente e lietamente a ogni governo che rechi loro vera pace e vera giustizia.

Sugli usi e suì costumi in particolare l’Ivani non si distende, e solo accenna col riso sulle labbra alle costumanze militari che richiamano quelle dei pastori di Romolo, e a quelle costumanze funerarie, che oggi ancora sono fra le più caratteristiche e degne di studio della vita corsa. Nuovo invece quanto egli narra della venerazione per l’oratorio di Campoloro e del sacro valore che acquista il giuramento quivi pronunciato e dell’importanza che indi assume in ogni privata querela quel piccolo santuario; nè il Filippini, nè pure Pietro Cirneo, che scriveva poco dopo l'Ivani, recano notizia di un uso pur tanto caratteristico.

Certo il quadro che dei costumi e della vita dei Corsi reca nel primo libro del suo De rebus corsicis il chierico d’Aleria12 è più esteso e più completo di quello del Sarzanese; ma d’altra parte non mancano negli scritti di questo osservazioni e particolari che invano si cercherebbero nella storia di quello. Pietro descrive e non giudica, l’Ivani descrive e giudica sagacemente ed equamente; Pietro scrive della sua terra e dei suoi a confutare " dira nostrorum inimicorum mendacia „, l’Ivani narra ciò che vede o ha veduto, senz’altra preoccupazione che del ben dividere e comporre la sua epistola secondo i precetti dell’arte retorica; ottimista quegli perchè corso, narra i fatti della sua patria; pessimista questi, perchè con ingrato animo ha assunto un ufficio disforme dall’indole sua. Certo preziosi entrambi alla cognizione della storia e della vita dei Corsi.

[p. 400 modifica]Di fronte a Pietro e all’Ivani sta il Filippini. Benché scritta un secolo più tardi, la sua storia fa sovente delle cose e dei costunni corsi una dipintura eguale alla loro. Anche alla fine del secolo XVI, " quanta sia la pigrizia degli isolani nel coltivare e lavorare il terreno non si potria mai esprimere „; anche allora in tutta l’isola universalmente, una grande ignoranza di lettere „, che " in tanto numero di sacerdoti non ve ne sono forse; una dozzina ch’abbiano grammatica,; anche allora contenzioni, rapine, vendette senza tregua.

Eppure sempre, in tutta la storia dei Corsi, fra così tristi condizioni di popolo, fra così orrendo imperversar di passioni, fra così continuo sparger di sangue, v’è qualchecosa che brilla sempre al di sopra di tutto, ed è l’ardore immenso e inestinguibile per la giustizia e per la libertà: questo ardore nobilita tutta la vita di un popolo; e il giudizio dell’Ivani vale incomparabilmente più, di fronte alla storia, delle querele vituperose di Seneca.



Note

  1. Ne ha parlato per primo brevemente, citandone qualche brano, e senza nessun commento, il Braggio nel suo compiuto studio su Antonio Ivani (cfr. in Giornale Ligustico di archeologia, storia e letteratura, settembre e ottobre 1885).
  2. È pubblicato dal Muratori nei R. I. S., vol. XXIV. Dal citato scritto del Braggio traggo in parte le notizie sulla vita del nostro.
  3. Giova qui riportare le poche lettere, che abbiamo potuto trovare sulla missione dell’Ivani in Corsica, lettere non inutili alla storia degli avvenimenti d’allora e della vita del nostro.
    1. [Antonius Yvanus Nicodemo Tranchedino salutem].
    «Postquam scripsi ad vos ultimis meis ac prolixis litteris, decrevere qui potuerunt, ut in Corsicam repentino hoc recessu traiiciar, ac prope iam birrerem conscendo. Equidem nullo pacto credebam utilis existimari ad insulanos in fide retinendos, cum ab illorum vita moribusque haud parum dissentiam. Necesse erit mihi, scio, rem difficilimam aggredi, quod erit contra naturam meam contendere et alius effici quam hucusque fuerim. Doleo tam infortunatum et inexpectatum casum, cum tuciorem ac sane digniorem vitam vestro medio expectarem; verum parere oportuit sic omnino volentibus. Vobis hec nota facio tanquam venerando parenti et amico optimo, et ut Cichus, vir amplissimus, intelligat maxime me dolore cruciari, quod impresentiarum eius claritudinem adire non possim.... Si placebit, scribatis ad me aliquando tanquam ad vicarium insule, quod, mediante magco duo Plumbinensium, facere quidem facile poteritis: grate enim erunt mihi admodum littere vestre tanquam ex paradiso ad limbum descendentes. Valete et mei interdum estote memor. - Pisis, die 9 decembris 1463.»

    2. Idem eidem.


    «Deserui Corsicam et Corsos omnes, perfectis omnibus diligenter ob que missus fueram. Redii scrutaturus an dominus Thomasinus ad insulam reverti decerneret; nec me id fecisse penitet, nam fractum eius animum et speratas vires admodum debilitatas adinveni, ex quo recte mihi consuluisse arbitror. Diligitur sane plurimum ab insulanis, nec dubitandum erat ipsum esse victoriam integre reportaturum si reditum ad insulam cura peditibus trecentis ad expugnandas arces properasset; declinabit, credo, ob huiusmodi sumptu et labore, opusque erit Corsis aliam salutis viam inquirere laudabiliorem. Utinam et utiliorem viam eligat, nam profecto laude et honore dignus est.... Status genuensium rerum hucusque ad laudem et honorem vestri excell.mi principis felicitar procedit: eius nomen et famam venerantur omnes, mali formidant, boni extollunt: preter arcem paret omnis civitas ac parent districtuales non reluctant[es].... - Sarzane, die xxiiii aprilis 1464.»


    Queste due lettere non hanno bisogno di alcun commento. La seconda è scritta dieci giorni dopo l’entrata degli Sforzeschi in Genova, e l’Ivani si mostra in essa (e anche nella precedente) grande ammiratore dello Sforza, e fors’anco desideroso di passare ai servigi di lui. Gli avvenimenti, ai quali è qui fatto cenno, son noti (cf. Filippini, Istoria di Corsica, libro III); e solo è qui il caso di notare come, contrariamente all’idea espressa nella seconda lettera dell’Ivani, Tomasino tornasse veramente in quell’anno istesso nella Corsica per tentar di mantenerla nel proprio dominio, ma se la vedesse in breve sfuggire tutta quanta di mano e passare anch’essa sotto il dominio dello Sforza.


    Sono tratte ambedue dal Codice Riccardiano 834, e. 124 (Bili. Riccardiana di Firenze); e nel pubblicarle abbiamo emendato le scorrezioni più gravi del copista imperitissimo.

  4. L’una e l’altra epistola sono dall’Ivani inviate in copia al Tranchedini, la prima in data del 21 febbraio 1465, la seconda in data del 1.° giugno 1464; in tal modo ci sono conservate nel codice citato più sopra (cc. 111-112) dal quale le togliamo, riproducendole colle norme già dette.
  5. Il ms.: sum.
  6. Il ms.: et.
  7. Il ms.: eram.
  8. Il ms. ha: nunc.
  9. Il ms. ha: Maranensem.
  10. Il ms. ha: Glacianum.
  11. Il ms. ha: preferenda.
  12. Petri Cyrnei, De rebus corsicis, Parigi 1834 (e in Muratori, R. I. S., vol. XXIV).