I Mille/Capitolo XLIII

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Capitolo XLIII. Napoli

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CAPITOLO XLIII.

NAPOLI.

     Quand plus heureux jadis aux champs de Partenope
Mes jeunes miliciens ont étonné l’Europe
Essujant leurs pieds dus sur les tapis des rois
Donnant à leur pays ce qui fut tant de fois
Le rêve, le soupir, l’espoir de nos ancêtres,
Ce n’était point - crois-moi - pour servir a des maitres
Ils marchaieut sous l’élan que la justice donne
Et servaient l’Italie mais ne servaient personne.
(Autore conosciuto).


Abbiam lasciato i Mille, divenuti esercito Meridionale, nella bella Partenope, coi loro avamposti a S. Maria, S. Angelo e Maddaloni, e con una rispettabile riserva a Caserta. — Caserta, splendidissima villa della cacciata Dinastia, ove i pezzenti militi di Calatafimi e di Melazzo si divertivano alla caccia dei fagiani ed alla pesca delle trote, abbondantissimi in quella regia tenuta.

Che scandalo! che licenza! Cotesti impudenti straccioni con fagiani, trote, davanti a loro, sulle reali mense e lavandosi poi la gola con del Montepulciano, del Lacrima-Cristi, del Falerno, senza [p. 238 modifica] morire d’indigestione! Si potrebbe proprio dire col Casti:

O mondo insano! popolo corrotto!
E intanto, tracannarne un altro gotto!

Tali licenze però ci furono acerbamente rimproverate da certo commissario regio, un principe di cui non ricordo il nome, delegato alla custodia delle reali caccie, e giunto in Caserta quando i regi liberatori cominciarono a gettar le ugne sulla preda.

Dalla Verminaria d’Italia, ove abbiam contemplato l’impostura in tutto il suo sudiciume, ed in tutta la sua corruzione nella vecchia Capitale del mondo, giungiamo in questa allegra Partenope, redenta, e giubilante della sua redenzione, nel suo stile gentile, grazioso e sublime.

Redenta! intendiamoci bene, per aver veduto fuggire degli esosi padroni. Redenta, colla speranza d’aver a fare con un governo migliore. — Redenta, perchè sanata una delle sette piaghe d’Italia, e reintegrata nel seno della grande famiglia Italiana, che abbisogna di stare unita, serrata, per far testa a certi nostri prepotenti vicini, amanti delle nostre frutta e del nostro cielo, che offuscarono già tante volte per nostra sventura.

Cotesti tracotanti stranieri sono cevados (direbbero gli Spagnuoli), parola che non so tradurre in italiano, e che significa assuefatti, e perciò disposti invincibilmente a ripetere il pasto. [p. 239 modifica]

Cevados si dice generalmente di fiere, che già assaggiarono carne umana o di animali domestici. Dunque cevados sono, sì, cotesti signori d’oltremonte, ai godimenti del bel paese, e sarebbe tempo che noi millantatori di certa genealogia e di certo valore, facessimo intender loro, che nostri sono questi frutti del sudore della fronte, e nostre queste bellissime figlie d’Italia.

Ogni volto, nella popolazione della grande metropoli, brilla di gioia, e chi vorrà turbare un istante di gioia di quest’animatissima gente, spiritosissima, che un segno de’ neri suoi occhi vi racconta una storia di felicità e di sventure? Io no!..... Eppure, benchè io m’abbia l’aria di scrivere romanzi, io scrivo storia qui, e storia che non mi fu contata. Storia, sì! del mio popolo, della mia terra! da cui gli stolti vollero cacciarmi, e che mi caccerebbero a brano se a caso.....

Mai dimenticherò nella vita, quel segno uno fatto coll’indice, con cui i due grandi popoli di Palermo e di Napoli, accennavano all’Unità della patria Italiana.

Italia una!..... era scritto su quell’indice del popolano delle due capitali, che potevan dar sole, cento mila armati, per sostenere l’attuazione del desiderio sacro! E comunque si dica, Palermo e Napoli, la prima in maggio, e la seconda in settembre, hanno imposto coll’indice a cento mila Borbonici di ritirarsi, e furono ubbidite.

Sì! veramente redento poteva essere questo [p. 240 modifica] povero popolo, se non avesse trovato sotto diversi colori gli stessi e più affamati mangiatori delle genti. — E redento, con più profitto di codesti privilegiati, se volessero anteporre la gentil voluttà d’esser pii, la maggior di tutte le mondane voluttà, alle miserabili libidini del ventre e delle lussurie!

Lo ripeto: povero popolo! perchè non toglierlo dalla ignavia, in cui l’educarono venti generazioni di tiranni e di preti, l’una peggiore dell’altra? Esso depravato, esso corrotto, esso cresciuto all’infamia, e da chi? E qui devo tornare per la millesima volta, al fetido scarafaggio dell’umana famiglia, che tanto serve al dispotismo coll’inganno e colla corruzione del popolo.

Napoli, la maggiore delle metropoli italiane, è ridotta, come carattere generale della sua plebe, a ben mediocre stato. Eppure, chi negherà spirito, intelligenza, valore, a quei nostri meridionali concittadini?

Non mancan di valore, intelligenza, spirito: ne han da vendere. — Ciò che manca loro è un governo, che sia governo per la nazione, e non della classe di coloro che per la grazia di Dio sono destinati a mangiare quella robaccia che si chiama popolo. Pasto, che diventa possibile col pervertimento d’una metà, colla fame e colla miseria dell’altra!

In una bella serata di settembre, di quelle con cui il cielo italiano bea codeste condannate popolazioni, poco prima della battaglia del [p. 241 modifica] Volturno, passeggiavano sulla piattaforma di Castel S. Elmo due individui, uno dei quali in assisa militare, vecchio maggiore, che avea principiata la sua carriera sino dal regno di Carlo III, e che millantava non so quanti anni di servizio in compagnia della sua vergine durlindana, che per fortuna dell’umanità, era tirata ogni giorno dal fodero per essere pulita soltanto.

Era di costituzione robusta, e ciò si scorgeva dall’ampio suo petto e ricca quadratura delle spalle: solo il suo volto avea un non so che di ributtante, giacchè del color rosso-peperone, esso largheggiava d’una fioritura di bottoni, certo men piacevoli alla vista de’ bottoni di rosa; il suo naso poi avea perduto ogni forma originale ed era diventato una rossa germogliante patata. Sotto l’assisa del soldato egli millantava il marziale, nelle parole e nel contegno, e senza quella sua mutria da osteria, si sarebbe potuto credere che egli avesse anche solcato qualche campo di battaglia. Ciò però non era, e la vita dell’avvinato maggiore s’era passata tranquilla nel tranquillo Castello S. Elmo, ove quarant’anni prima era entrato semplice soldato, e vi avea guadagnato a forza di devozione e di servilismo alla dinastia, le spalline granate.

L’altro era un conosciuto nostro, elegantemente vestito, avvenente della persona, ma con tutto ciò, puzzando di prete a qualunque olfato, un po’ pratico di questi nemici del genere umano.

«Non dubitate, maggiore, — disse monsignor [p. 242 modifica] Corvo al secondo comandante del forte, maggiore Fior di Bacco — non dubitate, fra giorni l’esercito di S. Maestà stanziato a Capua e sulla sponda destra del Volturno, ascenderà a circa cinquanta mila uomini delle migliori truppe del regno, e comandate da famigerati capi. E che potranno questi quattro pelati, che per far ridere presero il titolo di esercito meridionale e che si trovano senz’ordine e senza disciplina disseminati sull’immensa estensione di paese che da Napoli va a Maddaloni, e da questa a S. Maria e S. Angelo?».

«L’esercito nostro certamente farà a pezzi codeste masnade, ma fa d’uopo che nello stesso tempo, i leali difensori della religione e del trono prendano alle spalle questi scomunicati, acciò nessuno di loro possa fuggire alla giustizia di Dio!» (Che merli! È da notare sopratutto la veracità del vaticinio).

«Monsignore può assicurare S. M. che per parte mia farò il possibile pel maggior bene del reale servizio, e per la maggior gloria di Dio». (Stava fresca la maggior gloria di Dio, con messer Fior di Bacco! — se invece fosse stata la gloria d’un fiasco d’Orvieto, se ne poteva sperare ampio successo).

«Io procurerò di far introdurre qui, a notte scura, quanti leali servitori sarà possibile, acciocchè il forte S. Elmo si trovi in nostro potere all’apparizione delle prime truppe nostre vittoriose. Ciò mi riescirà tanto più facile, in quanto che [p. 243 modifica] il comandante del forte nominato dal prodittatore (e qui Fior di Bacco fece un sogghigno di scherno, come se avesse voluto disprezzare il venerando martire dello Spielberg), marciò anche lui per il Volturno con quanti avventurieri potè raccogliere (avventura non del gusto di Fior di Bacco che volea conservar la pelle intatta, per certi usi a lui conosciuti), giacchè essi presentono la tempesta che si sta formando per annientarli». — «Bene, maggiore! La causa di Dio presto trionferà, e gli Amalechiti cadranno sotto la spada di fuoco de’ suoi Arcangeli» . (Gli abbiam veduti veramente gli Arcangeli alla difesa del Borbone, dell’Infallibile).

«Bene! vi lascio perchè devo vedere alcuni de’ nostri capi in città, conferire con S. M. al campo, e recarmi poi ad Isernia, ove altre faccende interessantissime per me e per la causa santa mi chiamano».

Gl’interlocutori si porsero la destra, ma per abitudine, ed una reciproca occhiata di diffidenza squadrò da capo a piedi reciprocamente i due agenti del Sanfedismo.

Fior di Bacco corse a prenderne un gotto per modificare la sete cagionata dal lungo discorso, e Corvo s’incamminò verso il ponte levatoio, uscì dal forte e precipitossi per le vie di Napoli, onde abboccarsi coi magnati dei partitanti del Borbone, e preti e frati, e stimolarli a dar addosso agli eretici, nel gran giorno di vittoria dell’esercito liberatore. — Dico precipitossi, giacchè dal giorno [p. 244 modifica] della fuga di Marzia e dei trecento, egli non avea riposato, e di virulente natura com’era, Corvo trovò i piroscafi e le vie ferrate lentissime, perchè non lo portavano colla celerità del suo desiderio a vendicarsi di quei suoi nemici, che percorrevano in questo stesso periodo le cime dell’Apennino per dividere i pericoli e le glorie de’ loro fratelli dell’esercito meridionale.