Il Circolo Pickwick/Capitolo 35

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Nel quale il signor Pickwick pensa bene di andarsene a Bath e ci va in effetto

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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Nel quale il signor Pickwick pensa bene di andarsene a Bath e ci va in effetto
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— Ma certo, mio caro signore,— disse il piccolo Perker stando in camera del signor Pickwick mentre questi terminava di far colazione il giorno dopo la causa,— certo voi non intendete sul serio... dico sul serio, realmente, a parte il puntiglio, via... di non voler pagare queste spese e questi benedetti danni.

— Nemmeno un mezzo penny, — rispose con decisione il signor Pickwick, — nemmeno un mezzo penny.

— Orrore pel principio, come disse lo strozzino quando non volle rinnovar la cambiale,— osservò Sam, che sparecchiava.

— Sam, abbiate la bontà di ritirarvi, — disse il signor Pickwick.

— Subito, signore,— rispose il signor Weller, obbedendo.

— No, Perker,— riprese a dire con molta serietà il signor Pickwick; — i miei amici qui si sono adoperati in tutti i modi per dissuadermi da questa determinazione, ma senza cavarne nulla. Io attenderò alle mie solite occupazioni, fino a che la parte avversaria non avrà spiccato contro di me un atto legale; e se saranno così abbietti da valersi di questo mezzo e di farmi arrestare, ebbene io mi vi presterò con la massima soddisfazione. Quando è che potranno agire?

— Tra due mesi, mio caro signore, tra due mesi; il termine preciso per l’atto esecutivo.

— Benissimo. Fino allora, mio caro, non se ne parli altro. Ed ora,— proseguì il signor Pickwick, volgendosi agli amici con un sorriso di buon umore ed un luccicar d’occhi che nessun occhiale al mondo poteva appannare o nascondere, — la sola questione da risolvere è questa: dove andremo?

I signori Tupman e Snodgrass, commossi dall’eroismo dell’amico loro, non seppero rispondere una parola. Il signor Winkle non aveva ancora dimenticata la sua sciagurata deposizione e non si sentiva di aprir bocca.

— Ebbene,— disse il signor Pickwick dopo un momento — se vi rimettete a me, io sarei per Bath. Credo che nessuno di noi ci sia mai stato.

Nessuno c’era mai stato; e siccome la proposta fu caldamente appoggiata da Perker, il quale vedeva molto probabile che un po’ di distrazione e di allegria avrebbe indotto il signor Pickwick a pensare meglio sul suo proposito, e peggio di una prigione per debiti, così all’unanimità fu accettata, e Sam andò subito al Cavallo Bianco per fissar cinque posti con la diligenza delle sette e mezzo del giorno appresso.

C’erano appunto due posti interni disponibili e tre sull’imperiale. Sam li fissò tutti e cinque, e dopo avere scambiato qualche buona parola col bullettinaio a proposito di una mezza corona di stagno che gli veniva data nel resto, se ne tornò al Giorgio ed Avvoltoio, dove ebbe un gran da fare prima di andare a letto per ridurre i vestiti e la biancheria nel più breve spazio possibile, ed aguzzando il suo ingegno meccanico nella costruzione di vari ingegnosi ordegni per chiudere i coperchi di scatole e bauli che non avevano nè toppe nè gangheri.

La giornata era tutt’altro che propizia per un viaggio — umida, fredda e nebbiosa. I cavalli delle diligenze soffiavano e fumavano in modo da rendere invisibili i passeggieri. I venditori di giornali erano fradici e parevano muffiti; la pioggia scorreva in rivoletti dai cappelli delle venditrici d’arancie che cacciavano il capo per gli sportelli delle carrozze e ne rinfrescavano piacevolmente l’interno. Gli Ebrei coi loro temperini a cinquanta lame li chiudevano disperati; e gli spacciatori di taccuini dimostravano praticamente che la loro merce era tascabile. Le catene d’orologio e le forchette per abbrustolire si vendevano al ribasso, e gli astucci di matite e le spugne non valevano gran fatto sul mercato.

Lasciando Sam a riscattare il bagaglio dai sette o otto facchini che vi si erano selvaggiamente scagliati sopra nel punto stesso che la carrozza si fermava, e trovando che ci volevano ancora una ventina di minuti per l’ora della partenza, il signor Pickwick e i suoi amici entrarono per ricoverarsi nella sala dei viaggiatori,— ultima risorsa della umana miseria.

La sala dei viaggiatori al Cavallo Bianco è naturalmente incomodissima, altrimenti non sarebbe una sala per viaggiatori. È la camera a destra, nella quale un ambizioso camminetto di cucina si è introdotto e installato, seguito da una paletta e da un par di molle ribelli. È divisa in tanti scompartimenti ad uso dei viaggiatori, ed è fornita di un orologio a pendolo, di uno specchio e di un cameriere vivente, il quale ultimo articolo vien tenuto in serbo in una specie di canile per risciacquare i bicchieri in un angolo della sala.

Uno di cotesti scompartimenti era occupato quella mattina da un signore sulla cinquantina, dalla cera arcigna, col capo calvo e lucido, con molti capelli neri alle tempie e sulla nuca, e gran fedine anche nere. Portava un soprabito scuro abbottonato fino al mento; e sulla seggiola accanto avea posato un pastrano, un mantello e un gran berretto da viaggio di pelle di pescecane. Alzò gli occhi dal suo tavolino all’entrata del signor Pickwick con un’aria fiera e perentoria; e dopo aver ben bene scrutato quel signore e i compagni, si diè a zufolare un’arietta come per dare ad intendere che un gran sospetto egli aveva che qualcuno gliela volesse accoccare, ma che ci perdeva il tempo e la fatica.

— Cameriere!— chiamò il signore dalle fedine nere.

— Signore? — rispose un uomo dall’aspetto sudicio con in mano un tovagliuolo come l’aspetto, sbucando dal canile testè accennato.

— Degli altri crostini.

— Sissignore.

— Imburrati, badate bene,— disse il signore terribilmente.

— Subito, signore.

Il signore dalle fedine tornò a zufolare la sua arietta, ed aspettando i crostini si andò a situare davanti al caminetto, e alzatesi sulle braccia le falde del soprabito, si guardò le punte degli stivali e ruminò.

— Vorrei proprio sapere, — disse il signor Pickwick affabilmente volgendosi al signor Winkle, — dove tira a Bath questa diligenza.

— Eh? che cos’è?— gridò il forestiero, alzando il mento.

— Facevo un’osservazione al mio amico qui, signore, — rispose il signor Pickwick sempre pronto ad appiccar conversazione. — Domandavo dove tira la diligenza di Bath. Forse voi me ne potreste dir qualche cosa.

— Andate a Bath? — domandò il forestiero

— Per l’appunto, — rispose il signor Pickwick

— E questi altri signori?

— Anch’essi.

— Non già nell’interno, spero bene... voglio esser dannato se venite nell’interno.

— No, non tutti, — disse il signor Pickwick.

— No, non tutti,— disse con enfasi lo strano signore.— Io ho preso due posti. Se poi vogliono spremere sei persone in una scatola infernale che ne contiene appena quattro, prenderò per me una carrozza di posta e li chiamerò in giudizio. Io ho pagato i miei bravi biglietti. Non me la fanno, no; l’ho già detto al bullettinaio che a me non me la fanno. So che di queste cose se ne son fatte. So che se ne fanno tutti i giorni, ma io non mi son mai fatta passar la mosca al naso non me la farò passar mai. Quelli che mi conoscono lo sanno, tuoni e fulmini!

Così dicendo il terribile signore tirò con gran violenza il campanello, e disse al cameriere che gli portasse fra cinque secondi i crostini, altrimenti gliel’avrebbe fatta vedere.

— Mio caro signore, — disse il signor Pickwick, — mi permetterete di osservare che la vostra irritazione è assolutamente inutile. Io non ho preso che due soli posti all’interno.

— Bravissimo, son lieto di saperlo, — rispose quel signore. — Vi fo delle scuse. Eccovi il mio biglietto di visita. Onoratemi della vostra conoscenza.

— Col massimo piacere, — disse il signor Pickwick. — Siamo compagni di viaggio, e spero che troveremo gradita la conversazione l’uno dell’altro.

— Lo spero anch’io. Ne son certo. Mi torna la vostra fisonomia; mi piacete. Signori, qua la mano e i vostri nomi. Son franco, mi si conosce subito.

Naturalmente fu seguito questo grazioso discorso da uno scambio di amichevoli saluti; e il signore feroce immediatamente procedette ad informare i suoi novelli amici, sempre con le stesse frasi a singhiozzi, ch’ei si chiamava Dowler, che andava a Bath per diletto, che aveva appartenuto all’armata, che ora s’era ritirato nella vita privata e messo negli affari, che viveva di guadagni senza intaccare il capitale, e che la persona per la quale avea fissato l’altro posto era nè più nè meno che la signora Dowler sua moglie.

— Una bella donna, — aggiunse il signor Dowler. — Son superbo di lei. Ne ho ben ragione.

— Avrò, spero, il piacere di giudicarne, — disse il signor Pickwick sorridendo.

— Lo avrete. Ella vi conoscerà. Vi stimerà. Le feci la corte in circostanze molto singolari. La conquistai per un mio giuramento feroce. Ecco. La vidi, l’amai, la chiesi in moglie. Ebbi un rifiuto. "Ne amate un altro?" — "Per pietà, non mi fate arrossire!" — "Lo conosco io?" — "Sì, lo conoscete." — "Benissimo, se non parte subito, lo scorticherò."

— Misericordia! — esclamò involontariamente il signor Pickwick.

— E lo scorticaste poi? — domandò il signor Winkle pallido come bosso!

— Gli scrissi due righe. Gli dissi che il mio ufficio era penoso. E tale era in effetto.

— Lo credo io! — interruppe il signor Winkle.

— Gli dissi che avevo dato la mia parola di gentiluomo che l’avrei scorticato. Era impegnato il mio carattere. Non avevo alternativa. Come ufficiale al servizio di Sua Maestà, non me ne potevo esimere. N’ero afflitto, addolorato; ma non c’era rimedio. Egli non era testardo, capì la ragione. Riconobbe che le norme del servizio erano imperative. Fuggì. Io la sposai. Ecco la diligenza. Quella lì è la sua testa.

E il signor Dowler, conchiudendo, accennò ad una carrozza che arrivava in quel punto. Da uno degli sportelli si affacciava un grazioso visino incorniciato in un cappellino cilestre, e guardava fra la folla cercando probabilmente con gli occhi l’uomo terribile. Il signor Dowler pagò il conto ed uscì in fretta col berretto da viaggio, il pastrano e il mantello; e il signor Pickwick e gli amici gli tennero dietro per prender possesso dei loro posti.

I signori Tupman e Snodgrass s’erano messi a sedere di fuori; il signor Winkle s’era cacciato dentro, e il signor Pickwick si disponeva a seguirlo, quando Sam gli si accostò e parlandogli all’orecchio con aria di profondo mistero, gli domandò licenza di dirgli due parole.

— Che c’è Sam, che c’è di nuovo?

— C’è del buio, c’è.

— Che cosa?

— C’è questo, ch’io ho paura che il proprietario di questa diligenza non ce n’abbia a fare una delle sue.

— Vale a dire? non sono scritti i nostri nomi sulla bolletta di viaggio?

— Non solo sono scritti sulla bolletta, ma gli hanno anche dipinti sullo sportello della carrozza.

E così dicendo, Sam additò quella parte dello sportello che suol portare il nome del proprietario, sulla quale spiccava in belle e massicce lettere dorate il magico nome di Pickwick!

— Perbacco! — esclamò il signor Pickwick, stupito alla strana coincidenza; — che cosa davvero straordinaria!

— Sì, ma non è tutto, — disse Sam, richiamando di nuovo l’attenzione del padrone sullo sportello; — non contenti di avere scritto Pickwick, ci mettono anche davanti tanto di Mosè, il che mi pare aggiungere l’insulto all’ingiuria, come disse il pappagallo quando non solo lo portarono via dal suo paese, ma gli impararono poi a parlar la lingua inglese.

— Non c’è dubbio che la cosa è strana, Sam, — disse il signor Pickwick; — ma se noi ce ne stiamo qui a discorrere perderemo i nostri posti.

— E non s’ha da far nulla per questo? — esclamò Sam, assolutamente stupefatto alla freddezza grande con cui il signor Pickwick si disponeva a cacciarsi dentro.

— Fare! e che vorreste fare?

— Non s’ha da conciar nessuno per questa libertà che s’hanno preso, signore?— domandò il signor Weller, il quale s’era aspettato di essere per lo meno incaricato di sfidare seduta stante il conduttore e il vetturino ad uno scontro di pugilato.

— Ma no di certo, rispose con calore il signor Pickwick,— no assolutamente. Montate subito al vostro posto.

— Ho gran paura, — borbottò Sam da sè a sè, — che qualche rnalanno gli abbia preso al padrone, altrimenti una cosa simile non l’avrebbe mai sopportata. Spero che quella causa benedetta non gli abbia fatto del male; ma i segni son brutti, brutti di molto!

Il signor Weller crollò gravemente il capo, ed è degno di nota, per mostrare com’ei pigliasse a cuore questo incidente, che non aprì più bocca fino a che la diligenza non fu arrivata alla barriera di Kensington, vale a dire per un tempo così lungo relativamente alla sua loquela, che il fatto si può considerare senza precedenti.

Nulla di veramente notevole accadde durante il viaggio. Il signor Dowler narrò vari aneddoti tutti intesi ad illustrare la prodezza disperata dell’animo suo, chiamando in testimonianza la sua signora; e la signora Dowler tirava fuori immancabilmente, in forma di appendice, qualche fatto notevole o qualche circostanza che il signor Dowler avea dimenticato o omesso per modestia, perchè in effetto l’aggiunzione serviva sempre a dimostrare che il signor Dowler era un essere molto più maraviglioso di quanto egli stesso diceva. Il signor Pickwick e il signor Winkle prestavano ascolto ammirati, e di tratto in tratto scambiavano qualche parola con la signora Dowler la quale era veramente una persona graziosa ed affascinante Così tra per le storielle del signor Dowler, tra per le attrattive della sua signora, e il buon umore del signor Pickwick e l’attenzione del signor Winkle, i viaggiatori di dentro riuscirono ad ammazzare discretamente il tempo

Quelli di fuori se la cavarono alla meglio, come i loro posti comportavano. Allegri e discorsivi al principio di ciascun rilievo, si facevano pigliar dal sonno e dalla noia lungo la via, per tornare, in prossimità dell’arrivo, desti e di buon umore. C’era un giovanotto con un pastrano di guttaperca che fumava sigari senza smettere un momento; e un altro giovanotto con indosso una specie di pastrano in caricatura che ne accendeva molti dei sigari e sentendosi evidentemente poco bene dopo la seconda boccata di fumo li buttava via quando gli pareva che nessuno lo guardasse. C’era poi un terzo giovane a cassetta che pretendeva intendersi di cavalli, e un vecchio dalla parte di dietro che era versatissimo in agricoltura. C’era poi una successione costante di nomi e di nomignoli in giacche grigie, che il conduttore invitava a salire un momento e che conoscevano tutti i cavalli e gli stallieri della via e fuori via; e vi fu finalmente un desinare che sarebbe stato a buon mercato per mezza corona a testa, se vi fosse stato il tempo di mangiarlo.

Alle sette di sera il signor Pickwick e i suoi amici, e il signor Dowler con la moglie, si ritirarono ciascuno nei loro privati appartamenti del Cervo Bianco, posto di faccia alla gran sala dei bagni in Bath, dove i camerieri pel costume che indossano si potrebbero scambiare per studenti di Westminster, se però non distruggessero questa illusione conducendosi molto meglio di quelli.

Terminata appena la colazione il giorno appresso, un cameriere venne a portare un biglietto di visita del signor Dowler che domandava il permesso di presentare un amico. Subito dopo si fece avanti il signor Dowler in persona, menando seco l’annunziato amico.

Era questi un grazioso giovane poco più che cinquantenne, vestito di uno splendido soprabito turchino con bottoni dorati, calzoni neri, e scarpe lucidissime e sottilissime. Attaccata ad un largo nastro nero gli pendeva al collo una lente di oro; una tabacchiera d’oro gli splendeva nella mano sinistra; innumerevoli anelli d’oro gli brillavano alle dita, ed un vistoso spillo di brillanti raggiava sulla gala della camicia. Aveva un orologio d’oro ed una massiccia catena d’oro con grossi sigilli d’oro; e portava un bastoncino flessibile di ebano con sopra un gran pomo d’oro. La sua biancheria era della più bianca, della più fine e della meglio inamidata; la sua parrucca, lucidissima, nerissima e arricciatissima. Il tabacco della tabacchiera era tabacco del Reggente; il profumo che portava indosso bouquet du roi. Aveva le labbra e tutte le fattezze contratte in un perpetuo sorriso; e i suoi denti spiccavano in un ordine così perfetto che era difficile assai a breve distanza poter distinguere i veri dai falsi.

— Signor Pickwick,— disse Dowler,— il mio amico Angelo Ciro Bantam, magister ceremoniarum. Bantam, il signor Pickwick. Conoscetevi.

— Benvenuto a Bath, signore. È un vero acquisto che noi facciamo. Benvenuto di cuore. È molto, è molto davvero, signor Pickwick, che non prendete le acque a Bath. Mi pare un secolo, signor Pickwick, un secolo. Curiosa!

Tali furono le espressioni con le quali Angelo Ciro Bantam M. C. afferrò la mano del signor Pickwick, trattenendola intanto e profondendosi in inchini sopra di essa, come se non si sapesse decidere ad affrontar la dura prova di lasciarla andare.

— In effetto,— rispose il signor Pickwick,— è moltissimo tempo che non prendo queste acque; perchè, a quanto ne so io, non sono mai stato qui altra volta.

— Mai stato a Bath, signor Pickwick!— esclamò il Gran Maestro, lasciando presa dallo stupore.— Mai stato a Bath! Ah, ah, signor Pickwick, voi celiate. Non c’è male, non c’è male. Bravo, bravo. Ah, ah! ah! curiosa!

— A mia vergogna, debbo dire che parlo con la massima serietà. Realmente ci vengo ora per la prima volta.

— Oh, vedo, vedo! sicuro, sicuro! benissimo! di bene in meglio! Voi siete quel signore di cui s’è parlato tanto. Sicuro; vi conosciamo, signor Pickwick, vi conosciamo.

— I resoconti del processo in quei maledetti giornali, — pensò il signor Pickwick. — Hanno saputo tutto anche qui.

— Voi siete quel signore che dimora a Clapham Green, — riprese Bantam, — che perdette l’uso delle membra per aver commesso l’imprudenza di esporsi al fresco dopo aver bevuto del porto; che non si poteva muovere dall’acutezza dei dolori, e che si fece venire col diretto l’acqua imbottigliata a centotrè gradi fino in camera sua, dove fece il bagno, starnutì, e il giorno stesso fu ristabilito. Molto curiosa!

Il signor Pickwick accettò l’implicito complimento, ma ebbe nondimeno l’abnegazione di respingerlo; e profittando di un momento di silenzio da parte del M. C. domandò licenza di presentargli i suoi amici, i signori Tupman, Winkle e Snodgrass: presentazione che naturalmente venne a colmare il M. C. di piacere e di onore.

— Bantam, — disse il signor Dowler, — il signor Pickwick e i suoi amici son forestieri. Bisogna che scrivano i loro nomi. Dov’è il registro?

— Il registro dei visitatori di qualità in Bath si troverà nella sala del Circolo oggi stesso alle due. Vorreste voi stesso condurre i nostri amici in quelle splendide sale e offrire a me l’occasione di procurarmi i loro autografi?

— Certamente. Ma la visita è già troppo lunga. È tempo di andar via. Tra un’ora sarò qui di ritorno. Andiamo.

— Stasera c’è ballo,— disse il M. C. riafferrando la mano del signor Pickwick, ed alzandosi.— I balli a Bath sono momenti involati al paradiso, ed hanno tutta la magia della musica, della bellezza, dell’eleganza, della moda, dell’etichetta, e... e... soprattutto dell’assenza della gente di commercio, che a dirittura non si può accordare col paradiso, e che si amalgama in certo modo al Guildhall ogni quindici giorni, il che, per lo meno, è curioso. Addio, addio!

E protestando sempre nello scender le scale ch’egli era soddisfattissimo, e contentissimo, e confusissimo, e lusingatissimo, Angelo Ciro Bantam M C. montò in un elegante carrozzino che aspettava alla porta e si allontanò al trotto.

All’ora fissata, il signor Pickwick e i suoi amici, guidati dal signor Dowler, entrarono nelle sale del Circolo, e scrissero i loro nomi nel registro: singolare condiscendenza alla quale Angelo Bantam rimase più che mai sopraffatto. Bisognava preparare dei biglietti di invito al ballo della sera per tutta la brigata; ma siccome non erano pronti, il signor Pickwick s’impegnò, a malgrado di tutte le proteste di Angelo Bantam, di mandarli a prendere per mezzo di Sam alle quattro pomeridiane a casa del M. C. in Queen Square. Fecero poi una giratina per la città, ed arrivati che furono alla unanime conclusione che Park street rassomiglia a capello a quelle vie perpendicolari che si vedono in sogno e che non si riesce mai a salire, se ne tornarono al Cervo Bianco e spedirono Sam per compiere la commissione cui era stato destinato.

Sam Weller si pose il cappello un po’ da una parte, e cacciate le due mani nelle tasche della sottoveste, si avviò difilato a Queen Square, zufolando per via vari motivi popolari adattati con movimenti affatto nuovi per gli istrumenti da fiato, bocca o altro che siano. Arrivato al numero cui era stato diretto, lasciò di zufolare e diè al portone un’allegra bussata a cui rispose subito un portinaio massiccio, incipriato e tutto gallonato.

— Abita qui il signor Bantam, amicone?— domandò Sam Weller, niente affatto abbagliato dallo splendore che emanava dall’omaccione incipriato e gallonato.

— Perchè lo volete sapere, giovinotto?— domandò a sua volta il portinaio parlando dall’alto in basso.

— Perchè in questo caso, mi fareste la finezza, caro perticone, di portargli questo biglietto e dirgli che il signor Weller aspetta, — disse Sam.

E così dicendo, entrò tranquillamente nel cortile e si mise a sedere.

Il portinaio incipriato sbatacchiò violentemente la porta e corrugò solennemente la fronte; ma così la porta sbatacchiata come il cipiglio non ebbero effetto di sorta sul signor Weller, il quale s’era messo a guardare un ombrellinaio di mogano con tutti i segni di una critica minuta e soddisfatta.

Il modo con cui il padrone avea ricevuto il biglietto dovette, si vede, disporre assai bene il portinaio incipriato in favore di Sam; poichè, tornando di sopra, sorrise amichevolmente e disse che la risposta sarebbe venuta subito.

— Benissimo, — rispose Sam. — Dite al vecchio signore che non faccia una sudata. Non c’è fretta, perticone. Ho già bell’e desinato.

— Desinate presto, — osservò il portinaio incipriato.

— Gli è perchè mi trovo meglio, quando poi vado a cena.

— Siete da molto tempo a Bath? Non ho mai avuto il piacere di sentire il vostro nome.

— Non ho ancora fatto niente di sorprendente qui, visto che io e gli altri della brigata non siamo arrivati prima di iersera.

— Bel posto questo qui.

— Così mi pare.

— Società piacevolissima. Dei domestici molto per bene.

— Lo credo io. Gente alla mano, sempliciona, che vi guarda e non vi guarda, come se non ci foste.

— Oh, altro che!— disse il portinaio incipriato, prendendo come un complimento l’osservazione di Sam. — Altro che! Ne adoperate qualche volta?— domandò poi, porgendo una piccola tabacchiera con sopra una testa di volpe.

— Qualche volta sì, ma ci sternuto, — disse Sam.

— Capisco, è difficile trattenersi. Ci si può arrivare a poco a poco. Il caffè è il mezzo migliore. Io ho fiutato caffè per molto tempo. Rassomiglia molto al rapè, signore.

A questo punto una furiosa scampanellata mise il portinaio incipriato e gallonato nella ignominiosa necessità di cacciarsi in tasca la testa di volpe e di correre tutto umile e sollecito nello studio del signor Bantam. Diciamo qui di passata che non ci è mai accaduto di conoscere un uomo il quale, per qualche lettera scritta o qualche romanzo sfogliato, non possedesse una stanza qualunque da lui battezzata col nome di studio.

— Ecco qua la risposta, — disse tornando il portinaio incipriato.— Temo che l’abbiate a trovar troppo grossa.

— Non importa, — rispose Sam pigliando dalle mani di quello una letterina.— Non c’è pericolo di rimanerci sotto, e anche una prova come questa la può sopportare la debolezza dell’umana natura.

— Spero che ci rivedremo, signore, — disse il portinaio incipriato, fregandosi le mani e accompagnando Sam fino, sulla porta.

— Troppo gentile, signore,— rispose Sam.— Prego, prego, non vi scomodate. Considerate quel che la società aspetta da voi e non vi sciupate col soverchio lavoro. Per amore del vostro prossimo, statevi tranquillo il più che potete; pensate soltanto che perdita per tutti sareste voi.

E dicendo queste patetiche parole, Sam Weller si allontanò.

— Un giovane molto singolare, — disse il portinaio incipriato, guardando dietro al signor Weller con una cera che mostrava chiaramente com’ei non sapesse da che parte pigliarlo.

Sam non disse nulla. Strizzò un occhio, crollò il capo, sorrise, tornò a strizzare; e con una espressione molto soddisfatta per una cosa o per l’altra si allontanò svelto ed allegro.

La sera stessa, alle otto meno venti, Angelo Ciro Bantam, maestro cerimoniere, smontò dal suo carrozzino davanti alla porta del Circolo, con la stessa parrucca, gli stessi denti, la stessa lente, lo stesso orologio, gli stessi sigilli, gli stessi anelli, lo stesso spillo di diamanti, e lo stesso pomo d’oro. Le sole variazioni notevoli nel suo complesso consistevano in ciò ch’ei portava un soprabito turchino più splendido del primo con fodera di seta bianca, scarpini neri, calze di seta nera, sottoveste bianca, ed era, se fosse stato possibile, un tantino più profumato.

Così vestito, il Maestro Cerimoniere per compiere rigorosamente i gravi doveri del suo gravissimo ufficio, si piantò nelle sale per ricevere gli invitati.

Essendo Bath molto popolata, gl’invitati affluivano e così pure i sei pence pel tè. Nella sala da ballo, nelle due sale da gioco, la bislunga e la ottagonale, per le scale, pei corridoi, il suono delle voci e il fruscio dei piedi facevano a dirittura uno strepito assordante. Gli strascichi delle signore strisciavano e spazzavano, le piume svolazzavano, i lumi splendevano e i gioielli scintillavano. C’era la musica — non già dell’orchestra, che non ancora era cominciata; ma la musica di gentili piedini accompagnata di tratto in tratto da uno scoppio di riso limpido e argentino — un riso delicato e soave, che è sempre bello udire in una voce di donna, sia a Bath sia altrove. Da tutte le parti si vedevano brillare occhi neri od azzurri accesi dal piacere imminente; passava e spiccava fra la folla qualche forma squisita e seducente, e non appena perduta di vista, veniva subito sostituita da un’altra non meno graziosa e ammaliante.

Nella sala del tè, e intorno ai tavolini da giuoco, se ne stavano un discreto numero di vecchie signore e di signori decrepiti, chiacchierando e pettegoleggiando col miglior gusto di questo mondo. Mescolate a questi gruppi vedevansi tre o quattro mamme accorte, le quali, mostrandosi assorte nella conversazione cui prendevano parte, non mancavano di tanto in tanto di gettare un’occhiata di fianco alle figliuole, le quali, memori del materno consiglio di fare il miglior uso possibile del loro tempo, aveano già cominciato a tentare delle leggiere civetterie, ora perdendo una piuma, ora mettendosi un guanto, ora posando una tazza, e via via; tutte cose da nulla in apparenza, ma che nelle mani delle ragazze pratiche possono esser cagione di effetti sorprendenti.

Indugiandosi sotto le porte o negli angoli remoti, si aggruppavano dei giovanotti perfettamente imbecilli, facendo bella mostra di ogni sorta di stupidaggine, divertendo col loro spirito annacquato tutta la gente sensibile che stava loro vicino, o figurandosi con molto compiacimento di essere l’oggetto dell’ammirazione generale — bella e gradita illusione che nessuna persona onesta vorrà mai contrastare.

E finalmente, sedute sopra alcuni sgabelli in fondo, dove aveano già presa la loro posizione per tutta la serata, se ne stavano varie zitelle di età matura, le quali, non ballando per difetto di cavalieri e non giuocando a carte per paura di esser messe a posto come ragazze, si trovavano nella favorevole situazione di poter menar la lingua su tutti senza rifletter punto a sè stesse. In breve, di tutti potevano dir male, perchè tutti erano lì. Era una scena gaia, splendida, vistosa: ricchezza di abbigliamenti, specchi luccicanti, pavimenti incerati, girandole, candele di cera: e in tutti i punti della scena scivolando di qua e di là con silenziosa dolcezza, inchinandosi tutto ossequioso a destra, facendo un saluto familiare a sinistra, sorridendo a tutti, vedevasi l’azzimata persona di Angelo Ciro Bantam, gran maestro cerimoniere.

— Andate nella sala del tè. Prendetene anche voi per sei pence. Danno acqua tiepida e si permettono di chiamarla tè. Bevetela, bevetela,— disse il signor Dowler ad alta voce, guidando il signor Pickwick che s’avanzava alla testa della piccola brigata con a braccetto la graziosa signora Dowler, Entrò dunque il signor Pickwick nella sala del tè; e vedutolo appena, il signor Bantam si aprì una via fra la folla e gli diè con estasi il benvenuto.

— Mio caro signore, sono onoratissimo. Bath è veramente fortunata. Signora Dowler, voi abbellite queste sale. Vi fo i miei complimenti per le vostre piume. Curiose!

— C’è nessuno?— domandò in aria sospettosa Dowler.

— Nessuno! L’élite di Bath. Vedete, signor Pickwick, quella signora in turbante di velo?

— Quella vecchia signora grassa?— domandò innocentemente il signor Pickwick.

— Zitto, mio caro signore, prego! nessuno è grasso o vecchio a Bath. Quella lì è la vedova lady Snuphanuph.

— Davvero?

— Nè più nè meno, ve l’assicuro. Zitto. Fatevi un po’ in qua, signor Pickwick. Voi vedete quel giovane così elegante che viene alla nostra volta?

— Quel giovane con tanti capelli e con una fronte che appena si vede?

— Precisamente. Il più ricco scapolo in Bath. Il giovane Lord Mutanhed.

— Proprio?

— Già. Lo sentirete di qui a poco, caro signor Pickwick. Mi dirigerà la parola. L’altro signore ch’è con lui, con la sottoveste rossa e i baffi neri, è l’on. Crushton, suo amico intrinseco. Come sta vostra signoria?

— Un gvan caldo, — rispose sua signoria.

— In effetto è insopportabile, — confermò il M. C.

— Ovvibile, — approvò l’on. Crushton.

— Avete veduto la carrozza di posta di sua signoria, Bantam? — domandò l’on. Crushton, dopo una breve pausa, durante la quale Lord Mutanhed s’era sforzato di confondere coi suoi sguardi fissi il signor Pickwick, e il signor Crushton era stato ad escogitare un soggetto di conversazione meglio adatto alla signoria sua.

— No, pur troppo! — rispose il M. C.— Una carrozza di posta! Che idea eccellente. Curiosa!

— Pevbacco! — disse sua signoria, — io cvedevo che tutti l’avessevo vista la cavvozza: è il più elegante, e il più gvazioso quattvovuote del mondo, dipinto vosso con una cassetta colov cvema.

— Con una vera cassetta per le lettere, e tutto completo, — disse l’on. Crushton.

— E una sevpe davanti, con un manubvio di fevvo pel cocchieve,— aggiunse sua signoria. — L’ho povtata a Bvistol l’altvo ievi, quando io in giubbettino vosso, con due sevvitovi che venivano dietvo a cavallo un quavto di miglio lontano; e vi giuvo che la gente veniva fuori dalle povte e covveva sulla stvada e mi fevmava addivittuva pevchè si cvedevano che io eva la posta. Stupendo, mevaviglioso!

A questo aneddoto sua signoria rise di gran cuore, come naturalmente fecero anche i suoi ascoltatori, Appoggiandosi quindi all’amico ossequioso on. Crushton, lord Mutanhed si allontanò.

— Piacevolissimo giovane sua signoria,— disse il maestro cerimoniere.

— Così mi pare, — disse secco il signor Pickwick

Cominciate le danze, fatte le necessarie presentazioni, aggiustati tutti i preliminari, Angelo Bantam raggiunse il signor Pickwick e lo menò nella sala da giuoco.

Proprio nel momento ch’essi entravano, la vedova lady Snuphanuph e due altre signore di aspetto antico e da whist si avvicinavano ad un tavolino da giuoco disoccupato; e non appena ebbero gettato gli occhi sul signor Pickwick guidato da Angelo Bantam, si scambiarono delle occhiate, riconoscendo in lui la persona che ci voleva per far la partita.

— Mio caro Bantam,— disse la vedova lady Snuphanuph carezzevolmente, — trovateci qualche persona a modo che ci completi il tavolino; via, da bravo!

Il signor Pickwick si trovò in quel momento a guardare da un’altra parte, sicchè la vedova accennò verso di lui e fece un movimento di sopracciglia molto espressivo

— Il mio amico signor Pickwick, signora, sarà fortunatissimo, — disse subito il M. C. pigliando l’imbeccata. — Signor Pickwick, lady Snuphanuph, — la signora colonnella Wugsby, — la signorina Bolo.

Il signor Pickwick s’inchinò a ciascuna di queste signore, e trovando impossibile ogni sfuggita, pigliò il suo posto. Il signor Pickwick e la signorina Bolo contro lady Snuphanuph e la colonnella Wugsby.

Nel momento che la carta di atout veniva voltata a principio della seconda mano, due signorine entrarono correndo nella sala, e presero posto di qua e di là alle spalle della colonnella Wugsby, dove pazientemente aspettarono che la mano fosse finita

— Che c’è, Giannina?— domandò la colonnella voltandosi ad una delle ragazze.

— Son venuta a domandare, mammà, se posso ballare col più giovane dei Crawley,— bisbigliò la più carina delle due.

— Buon Dio, Giannina, come vi vengono di coteste idee! — esclamò la mamma indignata. — Non avete inteso ripetere le mille volte che suo padre non ha che ottocento sterline di rendita, che finiscono con lui? Mi vergogno io per voi. Per nulla al mondo, ve lo proibisco.

— Mammà,— susurrò l’altra ragazza, più attempata della sorella e molto insipida e affettata, — lord Mutanhed mi è stato presentato. Gli ho detto che mi pareva di non essere impegnata, mammà.

— Siete sempre un amore, carina, — rispose la colonnella Wugsby, dando un colpettino del ventaglio sulla guancia della figliuola, — e vi si può lasciar fare. Egli è immensamente ricco, cara mia. Che il Signore vi benedica.

E così dicendo, la colonnella Wugsby baciò teneramente la sua primogenita, e guardando l’altra con aria di severa ammonizione, mescolò le carte.

Povero signor Pickwick! non gli era mai capitato di giuocare con tre giocatrici consumate. Erano così disperatamente accorte da spaventarlo. S’ei giuocava una carta per un’altra, la signorina Bolo pigliava l’aspetto di una piccola armeria di daghe; se si fermava a pensare che carta dovesse giuocare, Lady Snuphanuph si gettava indietro sulla seggiola e sorrideva con uno sguardo d’impazienza o di pietà alla colonnella Wugsby, al che la colonnella rispondeva con, una scrollatina di spalle e un colpettino di tosse, come per dire che avrebbe proprio voluto sapere s’egli si sarebbe una volta deciso. Poi, al termine di ogni mano, la signorina Bolo domandava con aspetto lugubre e con un sospiro di rimprovero perchè il signor Pickwick non avea risposto a quadri o tagliato picche o scartato il fante o tirato fuori l’asso o giuocato contro il re e simili; e in risposta a tutte queste gravissime accuse, il signor Pickwick si trovava nell’assoluta incapacità di giustificarsi, avendo dimenticato tutti i particolari che quella signorina si ricordava così bene. Di più c’erano di quelli che si accostavano per vedere, il che rendeva il signor Pickwick nervoso. Oltre a tutto questo, si faceva un gran discorrere presso al tavolino tra Angelo Bantam e le due signorine Matinters, le quali, essendo sole e zitelle, facevano una gran corte al maestro cerimoniere, nella speranza di cogliere di tanto in tanto un cavaliere sperduto. Tutte queste cose, combinate coi rumori e le interruzioni dell’entrare ed uscire della gente, fecero sì che il signor Pickwick giocasse male; si trovava anche per caso un po’ in disdetta, sicchè quando smessero di giocare dieci minuti dopo le undici, la signorina Bolo si alzò molto agitata e se n’andò subito a casa in un torrente di lagrime e in una portantina.

Raggiunto dai suoi amici, i quali protestarono tutti che non avevano mai passato una serata più piacevole, il signor Pickwick gli accompagnò al Cervo Bianco, e sollevati i suoi sentimenti con qualcosa di caldo, se n’andò a letto e a dormire quasi simultaneamente.