Il Misogallo (Alfieri, 1903)/Prosa quinta. Dialogo fra il Re Luigi XVI e Robespierre

Da Wikisource.
Prosa quinta. Dialogo fra l'ombre di Luigi XVI e di Robespierre

../Epigramma XXXI ../Epigramma XXXII IncludiIntestazione 30 dicembre 2020 75% Da definire

Prosa quinta. Dialogo fra l'ombre di Luigi XVI e di Robespierre
Epigramma XXXI Epigramma XXXII

[p. 185 modifica]

PROSA QUINTA.

11 gennaio 1796.

Dialogo fra l’ombre di Luigi XVI e di Robespierre.1

XX.                       . . . . . Claras abstulit Urbi
Illustresque animas, impune, et vindice nullo,
Nec periit, postquam cerdonibus esse timendus
Coeperat.

Giovenale, Sat., IV, vers. 150.

Impunemente ei la Cittade orbava
De’ suoi più egregi Cittadini, e nullo
Vendicator sorgea; nè perì poscia,
Benchè alla Plebe fatto anco tremendo.


Re Luigi. Chi sarà egli costui, che scende pur ora agli Elisi? Al naso arricciato, e alla guatatura insolente e’ mi par di conoscerlo: ma la di lui testa è sfracellata talmente, che io non me ne posso accertare.

Robespierre. Re Luigi, tu mi stai osservando con occhio mal certoL; non mi riconosci dunque più?

Re Luigi. Or sì ti ravviso pienamente alla rauca loquela. Robespierre, così presto mi hai tu seguitato?

Robespierre. In questo secolo a regnar non s’invecchia, e tu il sai. Ti sia dunque noto, che quello che tu sei stato in Francia di nome, io lo sono stato di fatti. Ho regnato sopra le ceneri tue, e de’ tuoi.

Re Luigi. Non mi stupisce ciò punto. Tu avevi i tre pregj necessarj al regnare su i presenti Francesi. Oscuri natali, pessima fama, e scellerata impudenza. Regnar tu dovevi, e più tempo.

Robespierre. Un anno e mesi di trono naturale son pochi; ma di trono usurpato son molti. È vero bensì, che in questo breve spazio mi sono sbizzarrito io assai più, che non dieci dei tuoi antecessori in tre secoli.

Re Luigi. Ma pure l’arte tua a’ miei tempi non era il guerriero; convien dunque, che morto me, tu ti sii portato agli eserciti; di dove poi, acquistandoti un nome, tu sii con la loro forza ritornato a dar legge a Parigi. [p. 186 modifica]

Robespierre. Pienamente t’inganni, poichè io non mi son mosso mai di Parigi. Quel Comitato2 che intitolammo di salute pubblica, al quale io pervenni a poco a poco a dar legge assoluta; quel Comitato comandava assoluto alla Convenzione, la quale comandava assolutamente alla forza armata; la quale (come a’ tuoi tempi) comandava assolutissimamente al resto di quella moltitudine, che voi Principi, e Grandi chiamate plebe, o canaglia, e noi all’incontro (perchè nessuno vuol disprezzare se stesso ne’ suoi simili) con accorta adulazione chiamiamola Popolo: ma il vero suo nome in Francia sarebbe la Tutto-crede, o la Tutto-soffre. Onde tu vedi chiaramente, come io senza spiccare le natiche dal mio tronuccino, ho pur propagato il terror del mio nome nella Convenzione, in Parigi, nella Francia tutta, negli eserciti nostri, e di rimbalzo negli eserciti nemici, ed in tutte le nazioni d’Europa: il che ben dee chiamarsi Regnare.

Re Luigi. Maraviglie mi narri. Non so, se da esse debba io concepire una somma idea de’ tuoi talenti e di te, ovvero una pessima idea della Francia, e di tutta l’Europa, che da un sì miserabile ente qual eri si lasciavano pure atterrire.

Robespierre. Tu, dalla segregata tua reggia, mal imparavi a conoscere e gli uomini tutti, ed i Francesi principalmente. Impara tu dunque a conoscerli ora dal modo con cui gli ho io dominati. Spogliare, atterrire, ed uccidere; indi uccidere, atterrire, e spogliare; e indi ancora atterrire, uccidere, e spogliare; e sempre poi tutti tre questi verbi di regno, raccozzati, e voltati in quanti modi può dare la volontà suprema, e la forza, son soli l’arte e il segreto del pastoreggiare Francesi. Ribelli eternamente costoro contro ai deboli, e benigni trattamenti, ai Re buoni han disobbedito, insultandoli; ai tristi e crudeli hann’obbedito, tremando. Io ho posto loro alle spalle i cannoni, le mannaje, e la fame; ed ho posto loro davanti le rapine, la licenza, il saccheggio. Con tale espediente li ho in brevissimo tempo trasformati nella prima milizia dell’Europa. Quei Generali stessi, che han fatto tremare i nemici, di me semplice Avvocatuccio han tremato. Quella plebe tremenda, che depredava e scannava i signori, perchè troppo bene l’aveano sempre trattata; quella plebe stessa, ha ricevuto da me quasi per grazia il suo pane, e ad oncie contate, e pessimo. A be’ calci, e [p. 187 modifica] percosse, io a viva forza l’ho cacciata alla guerra; io le ho tolti tutti i guadagni, le ho tolto perfin la parola; eppur quella plebe lui ha obbedito, e tremato. Que’ Finanzieri insolenti, che a tempo tuo gareggiando co’ nobili ne’ vizi, e nel lusso, li offuscavano e deridevano; io gli ho spogliati, straziati, decapitati, sperperati; ed i pochi rimasti mi hanno obbedito, e tremato. Quei parlamentari, che a te riuscivano di tanto fastidio, e che tu esiliavi di tempo in tempo, tremando, e che di lì a poco tu richiamavi, piangendo; io quelli ho scherniti, spogliati, ed annichilati. E chi per essi si è mosso? Chi gli ha neppure compianti? Quei nobili, orgogliosi pur tanto, coi quali tu procedevi con tante cautele, e riguardi: quelli che tu dovevi tutto dì confettare, abborrendoli; non uno di essi ho lasciato, che avvilito non fosse, e muto, e pezzente; uccisi gli altri tutti, o scacciati. Quella Convenzione finalmente, che a te toglieva il trono, e la testa, da me nel silenzio, e terrore si lasciava pure strappar quanti membri piacevami di strapparle. Io le ho tolta ogni libertà di suffragi: l’ardire le ho tolto, e quella innata sua garrulità fastidiosa, ed il mormorare, ed il far cenni pur anche.

Re Luigi. Inorridire ad un tempo, e rider mi fai. Codesta tua immane mostruosità di carattere, innestata in un vigliacco qual fosti pur sempre, manifesta in tutta la sua estesissima pompa la stupida imbecillità di chi ti ha sofferto pur tanto.

Robespierre. Ma il tutto ancor non ti ho detto. Odi le rimanenti mie imprese: odile, e ritrova quindi parole, se il puoi, per denominare il tuo popolo. Io, dopo aver tolto, a chi il fratello, a chi il padre, a chi i figli, a chi l’amante o l’amata; io, dopo aver tolto ogni specie della più innocente libertà, e il quieto vivere, e gli agi della vita, e il parlare, e il pensare, e il respirare, ed il piangere, a ciascheduno; io, ad arbitrio mio, e capriccio, ho murate le Chiese, inibito ogni culto divino, distrutti i Sacerdoti, professato, e comandato l’Ateismo: ed io sono stato da tutti obbedito. Vuoi più? Successivamente avvedutomi poi, che gli Dei (quai ch’e’ fossero) assai comodo faceano ad ogni uomo che regna, io ho da prima instituite, e comandate alcune feste pagane, con Deità allegoriche femminine tutte, e di palpabile carne. Le feste mie riuscirono numerose, pompose, e solenni. Lietamente i nostri Francesi passarono, e con dolcissima indifferenza, dall’Eucaristico pane alle mimiche carni di quella prostituita, ch’io Libertà intitolava, o Virtù; e queste come quello adorarono.3 Vuoi più? Ravvistomi io poi successivamente (perchè io [p. 188 modifica] ed i miei Colleghi non eravamo nè di acuta, nè di pronta vista) che un Dio solo, e impalpabile, inspirava maggior credenza, e rispetto, e favoriva quindi assai meglio il nostro Salutar Comitato; io mi rappattumai con questa logorata dottrina. Onde, determinato io ’l giorno, fattomi da massimo corteggio attorniare, io Re, io Pontefice unico, io Creator-banditore, alla barba di tutto il popol Francese, ad alta voce esclamai: Dio sia: e Dio fu.

Re Luigi. Impudente bestemmia! Ma questo per certo fu il punto estremo e della tua tirannica e stolida empiezza, e della loro servil sofferenza. Io non dubito, che nel momento stesso in cui tu stavi recitando quella indecente farsa, più di mille ferri si rivolgessero in te, e in questa sconcia guisa sfregiandoti, a furor di popolo ti trucidassero.

Robespierre. E qui pur anche di gran lunga, o Re Luigi, t’inganni. Dopo quella augusta funzione, io me ne cenai la sera lietissimo in tutta sicurezza con altri de’ miei Sacerdoti accoliti, e si bevve, e si rise alle spalle del credenzone buon popolo Francese. Niuno mai si attentò d’insidiarmi la vita. Una donzella forte, chiamata Carlotta Corday (che è stata il solo nostro Bruto) entrata nella ferma risoluzione di perder sè stessa per pure trucidar un tiranno, non si elesse perciò di trucidar me. Costei, più assai di coraggio che non di senno fornita, uccise nel bagno un vile fazioso, che per infermità già stava morendosi, un mio lodatore, e detrattore a vicenda, che io non amava, nè stimava, nè temea; ma che pure, se non veniva scannato dalla nostra Bruta, l’avrei fatto uccider io, come torbido, e fastidioso. Contuttociò, quand’io lo vidi in tal modo ammazzato, lo vendicai con le leggi: e con tale esempio spaventando io gli altri semi-Bruti, assicurai così me medesimo.

Re Luigi. Ma come dunque, e perchè soggiacesti; ed a chi?

Robespierre. Per non avere ucciso abbastanza fui morto.4 Ed in fatti non fu già un orfano figlio, che in me vendicasse i suoi [p. 189 modifica] genitori svenatigli, non un marito, un fratello, un amante, un divoto, un mendico, che in me vendicassero o la moglie, o il fratello, o l’amata, o i sacerdoti, o gli averi da me depredati, profanati, ammazzati. Non entra vendetta in cuor di Francese. Cristiani in questo soltanto, dal nulla sentire. Due scellerati, che io per soli due giorni procrastinai d’ammazzare, per non morir essi, finalmente mi uccisero: cioè congiurarono, per farmi dalla Convenzione ammazzare, processare e accusare, tre verbi, che il mio regnare ha fatti sinonimi, ed istantanei, precedendo sempre però l’ammazzare. Vero è, che io nella Convenzione stessa imprudentissimamente accusando con dubbie ed oscure parole assai de’ suoi membri, senza pure individuarne nessuno, lasciai in tal guisa sopra tutte le teste di essa vagare il terrore, e la morte. Questo indeterminato universale spavento collegò contro me tutti quelli, che disegnate vittime si credettero. Quindi, ciò che niuno di coloro avrebbe mai ardito tentare per salvare, nè vendicare il congiunto, o l’amico; tutti allora l’osarono, per pure tentare di salvar sè stessi. Io dunque in una sola mattina vistomi subitamente incarcerato, accusato, non udito, abbandodonato, e tradito da’ miei satelliti; trovandomi a mal partito, tentai, con una pistola rimastami, involarmi all’imminente fatal Guigliotina.

Re Luigi. Bene sta: nè alcuno mai poteva esserti degno carnefice, quanto tu stesso.

Robespierre. Ma questa mia mano, mal ferma in sì importante momento, tradivami.

Re Luigi. Insanguinata di tante migliaia di trucidati innocenti, mal seppe uccidere un reo. Tu dunque allora il vedesti, qual differenza passasse fra l’inviare ad altri la morte, e il darla a sè stesso.

Robespierre. Sfracellato così, e semivivo, io fui tosto strascinato su quella piazza medesima, da quel carnefice stesso, sotto la stessa mannaja, che troncò la tua testa; e quivi fu tronca la mia, e mostrata recisa ad un popolo immenso, appunto come la tua. Tanto è vero, che non lo volendo, e senza avvedersene, mi tennero, e trattaron coloro, fino all’ultimo punto, come lor Re.

Re Luigi. Un successor qual tu eri, ampiamente ogni qualunque antecessore discolpa. E benchè il desiderio, ed il pentimento, e le lodi di un popolo, che ha potuto obbedirti, nulla lusinghino un Re di coscienza intatto, e di fama; nondimeno (giacchè su un tal popolo regnai) io voglio riportarne anzi lode, ed amore, che vituperi, ed abborrimento. E fia questa la diversa ma giusta mercede, che ambo noi otterremo dal tempo.

Robespierre. Or va, ben eri tu nato un Guardiano di Cappuccini, ma non il Re mai di un popolo ciarliero e corrotto. [p. 190 modifica]

Re Luigi. Ogni tuo biasimarmi mi onora. Ed or, basti. Ampj son questi Elisi: ed il giusto Minosse a noi due certamente assegnerà una sede diversa e lontana. Addio dunque per sempre, o tu, memorabile

Sbigottitor di sbigottite donne (XXI).

Robespierre. Addio tu pure per sempre, o non credibile, ed unico

Ribellator de’ tuoi sommessi schiavi (XXII).


Note

  1. Robespièrre: uno di quei tanti Avvocatuzzi falliti, che rigenerarono la Francia, e che, per essersi mostrato più crudele, e vigliacco degli altri, ha saputo uscire da quella oscurissima folla, e farsi un nome tal quale.
  2. Comitato, parola che i Francesi accattarono in questo senso dagl’Inglesi, è latina in origine. Equivale alla voce italiana Giunta, e denota Consiglio straordinario sopra alcuna occorrenza dello Stato. E così pure i poveri Galli han tolto in prestito dagli Inglesi Mozione, Ordine del giorno, e tutto in somma il frasario di Libertà, da essi poi innestato sul Governo Algerino, che sol meritavano, ed hanno.
  3. La nota a queste parole è stata fatta già circa 1900 anni addietro da un certo Cicerone, ch’era bastante politico, e conosceva bene sì gli uomini, che i Francesi. Disse questi nell’orazione per Marco Fontejo: «codeste Nazioni (Galle) cotanto dai costumi, e natura delle antiche genti si scostano, che quelle guerre appunto, che tutti gli altri popoli imprendono per mantenere il loro culto, essi contro al culto di tutti, ed al propio, le intraprendono.» E leggi poi quel che segue, ed avrai di che ridere col buon Cicerone alle spese de’ Galli.
  4. È qui da notarsi una somma diversità di maestria nell’arte Dolocratica che volgarmente si direbbe schiavesca, tra gli uomini antichi, ed i presenti Francesi; diversità, che sta interamente a favor di questi ultimi. Gli antichi, al trucidare i loro Tiranni venivano inspirati, e sforzati da un sacro misto furore di libertà, e di vendetta. Ma questo moderno Nabiduccio non veniva già ucciso da un Pelopida, nè da un Trasibulo, nè da un Cassio; un Cetego, un Verre, e simili vili, sfuggiti di carcere, invidiosi bensì del Tiranno, ma in nulla nemici della Tirannide, erano dunque i degni carnefici di un sì fatto carnefice.