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Il Parlamento del Regno d'Italia/Pietro Beltrami

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Pietro Beltrami

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Luigi Barbiano di Belgiojoso Carlo Beolchi
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


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Nato in Bagnacavallo nel 1812, dedicò i primi anni della giovinezza agli studî nella celebre università di Bologna. Ben presto tuttavia l’ardore del suo carattere e la vivacità de’ nobili sentimenti di patria e d’indipendenza lo slanciarono nel vortice delle politiche agitazioni, sicchè nel 1831 il vediamo far parte dell’armata comandata dal general Zucchi ch’ei segui nella ritirata di Bologna.

Nel 1846 fu poi uno dei principali autori del movimento delle Romagne, dietro il quale si vide costretto ad emigrare in Francia.

Da questo momento comincia una nuova fase di esistenza pel conte Beltrami, o per meglio dire, le sue vere tendenze individuali, ricevuto un intiero sviluppo, cercano e trovano un modo d’applicazione, che forma a buon dritto un titolo di gloria pel nostro protagonista, e ravvivano in Francia un’industria che più non esisteva da secoli.

La cosa val la pena d’esser descritta con qualche particolarità.

Al primo suo metter piede sul suolo francese, l’accoglienza che si fece al conte Beltrami non fu delle più ospitaliere. Lo si riteneva per repubblicano, lo si credeva affigliato a società segrete di Francia, e siccome lo si sapeva ricco, si temette la sua influenza — quindi si trattò d’internarlo a Perigueux.

Il Beltrami, che aveva già il suo progetto, e che per eseguire un tal progetto sentiva bisogno di rimanere [p. 95 modifica]nel mezzogiorno, mosse rimostranze e diè assicurazioni che vennero accettate; tuttavia a bella prima lo si confinò a Aix di Provenza sotto sorveglianza politica; sorveglianza, che, ci affrettiamo a dirlo, cessò del tutto una volta che il carattere del conte fu ben noto, e sopratutto che lo si vide darsi con tanta serietà d’intendimento ed efficacia di mezzi e di resultati all’esecuzione del suo grandioso disegno.

Ma vediamo qual fosse questo disegno.

Nel percorrere quelle immense ed insalubri pianure che si stendono nel mezzogiorno della Francia vicino alle foci del Rodano, e cui i Francesi dettero, dietro la sua configurazione, il nome di Delta du Rhône, il conte Beltrami, col colpo d’occhio del gran proprietario e colla prontezza di concepimento e di decisione propria di tutti gli uomini dotati di facoltà speculative, prestabilì di animare quelle vaste solitudini, di fecondare quelle sterili lande coll’impiantarvi estese risaje.

Detto, fatto. Domandate a tal uopo concessioni di terreno, che gli furono subito accordate, fece venire a proprie spese dalle Romagne dei lavoranti, molti dei quali impiegava nelle proprie terre e che conosceva di nome e di persona; fondò una specie di colonia e si pose all’opera. Il resultato fu stupendo, e tale che, riferito al ministero d’agricoltura, questi commise il celebre Rendu perchè si recasse sul luogo, ispezionasse i lavori e i prodotti e informasse in proposito.

Il Rendu che vedeva quelli aridi deserti convertiti in verdeggianti e feraci pianure, rimase maravigliato, e felicitò vivamente il conte Beltrami del suo operato; e tornato a Parigi stese un rapporto de’ più lusinghieri pel nostro compatriotta e per l’opera sua.

Allora si formò una vasta società che ampliò a dismisura i lavori e ne affidò la direzione tecnica al Beltrami; questi fece venire dalle patrie terre altri lavoranti, e le cose camminarono di tal guisa che anche quando il conte Pietro dovette lasciare la Francia, profittando dell’amnistia del pontefice Pio IX per rimpatriare, quella coltura non cessò colla di lui assenza, ma rimase e sussiste tuttora, a segno che bei campioni di riso della Camargue, che si videro figurare [p. 96 modifica]all’esposizione universale di Parigi, provenivano dalla coltivazione fondata dal Beltrami.

Questi non tornò già nel paese natale per rimanersi nell’ozio, che invece, passando dalle pacifiche cure dell’agricoltura alle guerresche, fece tutta la campagna del Veneto in qualità di aggregato allo Stato Maggiore del generale Durando.

Recatosi poscia a Roma, vi fu eletto membro di quell’Assemblea costituente, e fu inviato di quel governo presso la Repubblica francese. Entrati i soldati di quest’ultima nell’antica dominatrice del mondo, il Beltrami si ritirò in Piemonte, ove il genio dell’industria e della speculazione tornò in esso a svegliarsi.

Gettato in certo qual modo uno sguardo intorno a sè, il suo pensiero corse alla Sardegna, terra ricca in varie produzioni, ma poco nota, e risoltosi a visitarla, ebbe ben presto veduto ciò che gli convenisse intraprendere.

Le vaste e gigantesche foreste di quell’isola, doviziose di abbondanti legnami da costruzione e di sugheri, gli sembrarono a ragione dover esser sorgente poco meno che inesauribile di guadagno pronto e sicuro.

La Sardegna doveva profittarvi, mentre abbattendo gran parte di quelle selve l’agricoltura ne avrebbe avuto non poco incremento, e agli abitanti delle località, che trovavano così modo d’impiegare lo proprie braccia in un’occupazione più produttiva che non sia quella della pastorizia, si offriva una insperata occasione di durevole lucro.

Dal concepimento de’ suoi progetti all’attuazione di essi il Beltrami non pose intervallo; messosi subito d’accordo con certi capitalisti inglesi di sua conoscenza, ei si recò a Torino, sollecitò ed ottenne dal governo (nel 1850) le concessioni volute e.... ed ora fornisce di legnami i governi d’Inghilterra, di Francia e d’Italia.

Negli ultimi avvenimenti di questi due anni il conte Beltrami, eletto dapprima dai suoi concittadini membro dell’assemblea delle Romagne, ha ricevute diverse missioni dal governo piemontese, e allorchè si è adunato il primo Parlamento del regno italiano la di lui patria città di Bagnacavallo, ve lo ha, a pieni voti, come sempre, mandato a proprio rappresentante.

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Egli è insignito della croce Mauriziana.

Il lettore non ci saprà mal grado dell’esserci noi alquanto trattenuti sul conto del Beltrami; uomini come lui industriali e speculativi, sopratutto nelle alte classi della società, fanno difetto all’Italia, e non sapremmo mai abbastanza desiderare che ne sorgessero a dovizia, tanto più del genere proprio del nostro conte, il quale — ci dimenticavamo di dirlo, ed avevamo gran torto — se lucra, il fa nobilmente, cioè chiamando a partecipare dei profitti il numeroso personale che impiega, favorendo le arti belle e la letteratura, e non negando il suo appoggio ed efficaci soccorsi a tutti i bisognosi che nel richiedono.