Il Viaggio di Parnaso

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Cesare Caporali

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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. I


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VIAGGIO DI PARNASO

DI

CESARE CAPORALI

PERUGINO

PARTE PRIMA

Quell’io, che senza pur buscarmi un grosso,
Servii già un uom, ch’a guisa di fagiano,
Il capo verde avea mutato in rosso:
     Cavalier generoso Canigiano,
Veduto esser le corti tutte a un modo,
E che molti Signori han del Taliano,
     Maledicendo i lor tinelli, e ’l brodo,
Mi risolvei, com’uom c’ha spirto e core,
Girmene in Grecia, e là fermare il chiodo.
     Non per servir altro mortal Signore,
Ma ne la Corte entrar del divo Apollo,
Se non per altro, almen per scopatore.

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     E per non dare in qualche rompicollo,
Bello, e sol fin ad Ostia ir mi disposi,
Indi per mar, benchè svogliato, e frollo.
     Però l’abito indosso mi riposi,
Che fu de jure antiquo, e positivo,
Di certi panni assai lograti, e rosi.
     Ma ciò per colpa del destin cattivo,
Poichè i Signor Grammatici moderni
Hanno dal declinar tolto il dativo.
     Comprai anco una mula; e acciò gl’interni
Pensier comunicar potessi seco,
L’accappai da consigli, e da governi.
     La qual, per quel, ch’ella poi disse meco,
Scese in Tulia già con Carlo ottavo,
Con le bagaglie d’un trombetta Greco.
     Avea una sella, e finimento bravo,
Era di coda lunga, e vista corta,
Nata di madre sarda, è padre schiavo.
     Fui con questa in due giorni a Prima-porta,
Però ch’ogni animal ben che restio,
Sen va, se con gli spron uom ce ’l conforta.
     Or cavalcando pur pel fatto mio,
Passai per Roma, e gii per mezzo Banchi
Vidi la Corte, e non li dissi a Dio.
     Così poressi la moria de’ Bianchi
Vederci un dì passar con la gramaglia,
Che coprisse al caval la groppa, e i fianchi.

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     Che forse smorberia quella canaglia
Voi m’intendete, senza ch’io vi scopra
Di ritto, e di rovescio la medaglia.
     Pervenni insomma ad Ostia, e montai sopra
Con la mia mula ad un naviglio scarco,
Che per tornar a Napoli era in opra,
     Gaieta, e Baia costeggiando varco,
E di Pozzuol le calde, e fetide acque,
Per fin, che in grembo a le Sirene sbarco.
     Dico là, dove il furbo viver nacque,
Che con tanta creanza, e gentilezza,
D’un mio tabarro molto si compiacque.
     Gente a rubar fin da la cuna avezza,
Che mentre su le forche un se n’appicca,
Un altro ruba al Boia la cavezza.
     Intanto per Sicilia odo si spicca
Un’altra nave; io subito vi salto,
E la mia muta dietro mi si ficca.
     Non molto bisognò tenersi in alto,
Però che i naviganti per quei pochi
Dì, con fortuna avean fatto l’appalto.
     Io per mar domandai di molti lochi
D’un’isola fra l’altre, che gran festa
Mostrava, far con molti raggi, e fochi.
     E seppi poi, che Stromboli era questa,
Che s’allegrava assai, che la mia mula
Passasse il mar, senza un dolor di testa.

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     E se ben so, che quella gente adula,
Pur non me ne curai, che non s’affalsa
Il gran giammai se non con esca, o pula.
     Vidi anco nel passar de l’onda salsa,
L’infelice Vulcan tutto abbruciato,
Ch’avea battuto la moneta falsa:
     Alfin giunsi a Messina, ove sbarcato,
Montai sopra un naviglio d’un mercante
Che certi cavai Turchi avea portato,
     Passai Corfu, poi santa Maura, e ’l Zante,
Indi nel golfo entrato di Corinto,
Su l’amato terren posai le piante.
     E dal desio pur di Parnaso spinto,
Rimontai su la mula ancor che buona
Parte a piè gissi per quel labirinto.
     Insomma, come quel ch’affretta, e sprona,
E da sbrigliate, e stringe le calcagna,
E si dimena tutta la persona,
     Giunsi al piè d’un’altissima montagna,
Sotto de le cui balze affaticarsi
Vidi una turba veramente magna.
     Ch’avendo in van stentato d’aggrapparsi
Su per quegli erti, e spaventosi scogli,
Tirata dal desio d’immortalarsi,
     Mille suoi scritti alfin, mille suoi fogli
Cuciva insieme, e a guisa poi di funi,
Gli attorceva a la ruota de gl’imbrogli.

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     Ma non avend’ivi stromenti alcuni
Per attaccar le già tessure scale,
Di quelle corde a certi alpestri pruni,
     Disperata di ciò, per manco male;
S’accostava ad un uom, che con egregio
Titol facea l’uffizio di sensale.
     Quell’era il mal vestito, e vil Dispregio,
Che de i lor scartafaci da dozzina,
Stimandoli di nullo, o poco pregio,
     Ne mandava ogni giorno una ventina
Di risme al Culiseo, ma la più parte
N’avean color, che vendono tonina.
     Io tosto mi rivolsi in altra parte,
Che vidi far di sventurato fine
A quelle sciocche, e mal vergate carte.
     Ma però sempre intorno a le vicine
Radici di quel monte, ove si vola
Fra le siepi a gran rischio, e fra le spine.
     In quelle balze sconsolata e sola
Vidi la buca di quella civetta,
Di cui cantò la morte il Firenzuola
     E fui quasi per farle di beretta,
Volsi dir per cavarmele il capello,
Le parole s’intrican per la fretta,
     Se non che dubitai, che questo e quello
Sasso, che di là su venia rotando
Sul capo non mi desse di livello.

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     Or così intorno al monte cavalcando;
M’apparse a un trano un’ombra, una figura
Di non so che composta, e non so quando;
     La qual per invisibile fissura
M’entrò nel capo, i Medici m’han detto,
Ch’ella è di sottilissima natura.
     Che non dorme, non mangia, e non ha tetto
Se non dentro a certe umide membrane,
Di qualche gentilissimo intelletto.
     E che move i fantasmi, e cose strane
Le appresenta in un trano, e non vien meno
La sera a ritrovarci, che la mane.
     Tutte di grilli, e di chimere ha pieno
Il manto, non già d’oro, o filaticcio,
Ma d’un sottile, e subito baleno.
     Or mentre di stupor tutto m’arriccio;
Non temer (sento dirmi) anzi abbi caro,
Ch’io mi ti scopra; io son il tuo Capriccio;
     Che se non sei lunatico scolaro,
M’offro guidarti per vie chiare, e come,
A veder quel dottissimo somaro.
     Quel poledro elegante, che sul monte
Del vicino Elicona ebbe ardimento
Cavar col piè la favolosa fonte.
     Pur che tu mostri con qualche argomento,
Ch’oltre che ’l tuo gran Medici con grato
Parlar, ti s’abbia offerto in ogni evento,

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     T’ha per suo famigliar anco accettato,
Con privilegio di poter far versi,
Senza pericol mai d’esser balzato.
     Però che quando gir pe ’l mondo spersi
I Medici, cacciati da Fiorenza,
E che fin si vestiro da conversi,
     Arrivaro in Pirnaso, e con licenza
Di Apollo, ci comprar non so che terre,
Dove poi fabbricaro una sapienza.
     Ma sappi, ch’essi beni (acciò non erre)
Perch’eran feudi de le sacre Muse,
Leon gli liberò dopo le guerre.
     Dove, chiamato a suon di cornamuse,
Dovea gir per rettore il divin Pico,
Ma d’andarvi la via morte li chiuse.
     Sempre i medici poi quel loco aprico
Cercato han conservar con ogni ingegno,
A beneficio sol di qualche amico.
     Udito questo, io subito disegno
Di mostrar quella lettra famigliare,
Di che ’l mio cardinal mi fece degno.
     Che sempre al collo la solea portare
Come gli antichi, se venian difesi
Da qualche Dio, l’imagin tutelare.
     Or basta in somma, che quel foglio presi,
E perchè meglio si leggesse il vero,
Com’un ampia patente lo distesi,

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     A guisa di scampato prigioniero,
Che con garrula lingua va chiedendo
Pe’ i figli schiavi in Tripoli, o in Algiero.
     Benchè con più ragion qual or comprendo
La dura servitù, l’iniqua sorte,
Di quei meschin, ch’in Roma stan servendo.
     Attaccar si devria fin a le porte,
Per liberar i miseri cristiani,
Tant’anni schiavi a la catena in corte.
     Ma perché a dir di questi cortigiani
Bisogna non aver altro nel capo,
Un’altra volta vi porrò le mani.
     Appena letto fu quel primo capo,
Scritto di questa lettra cubitale
Quel Ferdinandus Medices da capo.
     Sanctæ Romanæ Ecclesiæ Cardinale
Musa di Grazia parla con Prisciano,
E scusa quest’error grammaticale:
     Che Cardinalis non era Toscano,
Che se ben egli ha la berretta rossa
La rima nol torria per Capellano.
     Dico, che appena quella lettra grossa
Fu vista, che s’aprir gli orrendi passi,
Ogni difficoltà da lor rimossa.
     Anzi parea le spine, e i tronchi, e i sassi
Mi dicessero in atto, ed in favella,
La vostra Signoria di grazia passi.

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     Anzi lei, vada lei: passi pur quella,
Ad un rogo importuno (rispos’io)
Che fin mi ci tirava la gonnella.
     Pur vedendo la guida, e ’l furor mio
Girsene innanzi, e già sonar la valle
E ’l monte di soave mormorio:
     Mossi ancor io per quel felice calle,
Mentre al suon d’una muta di viole,
Viole pavonazze, bianche, e gialle;
     Senti’ cantar, rivolto incontro al sole,
Certi fior di cicorea, e dicean cose,
Ch’a ridir non son degne le parole.
     Ed a l’incontro, due vermiglie rose
Cantavan, ma non già per cosa loro,
Certe ottave d’amor miracolose.
     Io, che sempre stimai più d’un tesoro,
Sentir due versi soli, ancor che poco
Avesser leggiadria, grazia, e decoro.
     Veramente ebbi il torto, e fui da poco
Non diventar un marmo, al canto, e al suono,
E servir per un termin di quel loco.
     Ombre nascoste, e nudi spirti sono
(Dissi io) quei che odo, o venerandi fiori,
Date al profano ardir, date perdono.
     Però che umane orecchie i vostri amori
Non ponno udir senza peccato, e senza
Macchiar la maestà de’ sacri autori.

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     Tal ch’aspettava ogn’or per penitenza
Sentirmi trasformar di membro in membro,
Tutto in un ravavel da la semenza.
     Quantunque in buona parte lo rassembro,
Quando dopo lunghissima vigilia,
Di qualche mia dolcezza mi rimembro.
     Fra l’erbe poi, ch’erano cento milia,
Vidi altrove il papavero, e l’ortica,
Che disputavan de sonno, e vigilia.
     Mentre al dolce cantar de la pudica
Verbena, sen veniva di nascosto
Il serpillo, a sentir sì bella amica,
     Cantava un’elegia poco discosto
La pallidetta Salvia, ch’a gran torto
Con l’amato lardel fu fatta arrosto.
     Parea tutto quel monte un celeste orto,
Sol da la magra, e vecchia poesia,
Per piacer coltivato, e per diporto.
     Dietro a me sen venia la mula mia,
Di cui per riverenza era smontato,
Ch’anco ella aveva un termin di pazzia
     E già rignando, e compartendo il fiato
A l’organo, ch’avea sotto la coda,
Incominciava un canto figurato.
     Ma non so, che maggior miracol s’oda
Di quel ch’or (Cavalier) dir vi vorrei,
Benchè abbia faccia di menzogna, e froda,

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     Tutte le dita a un tratto de’ piè miei
Uscendo fuor de’ sesti naturali,
Si trasformaro in datili, e spondei.
     E fersi i nodi sillabe inequali,
Tal che sforzate furo alcune dita
Di romperne la cima gli stivali.
     L’orecchie a l’armonia non più sentita
Mi s’eran dilungate mezzo braccio,
E quasi, che la testa inasinita.
     Ma non perciò m’arresto, anzi procaccio
(Benchè talor con piè dubbio, e tremante)
Dì superar quel faticoso impaccio.
     Facean con l’erbe a gara anco le piante
Di tormi del camin l’aspro fastidio:
Co ’l recitarmi qualche opra elegante.
     Fra l’altre, un’olmo vecchio, che a l’eccidio
Già fu di Troia, e che portò ad Ulisse
Quell’Hanc tua Penelope d’Ovidio,
     Cose stupende in versi eroici disse,
Ma nel tronco man dritto avendo un buco,
Seppi che fu stroppiato, e non gli scrisse:
     Poco più su: l’epicureo sambuco,
Che pe’l corpo ingrossar l’anima perde,
Avea tradotto in rima già l’Eunuco.
     Ma tutti s’acquetar, tosto ch’un verde
Lauro s’udì cantar l’indegno fallo,
Che commette chi amor caccia, o disperde:

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     Dicendo come un publico cavallo
Meritava la bella Franciosetta,
Che ’l gran Toscan non accettò per Gallo.
     Di grazia non andar in tanta fretta,
Messer Lauro, diss’io, che tu lo sai,
Che in Valchiusa non gì la cosa netta.
     Insomma, Cavalier, finiamla omai,
Ogn’anima la sù vegetativa,
O del suo amor parlava, o d’altri guai.
     Io pur verso la cima me ne giva,
Quando che ad una virgula fui giunto,
Che mi giurò persona fuggitiva,
     E mi fe’ ritener da un picciol punto.





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PARTE SECONDA.


     Mentre pien d’una nobil meraviglia,
Miro ’l bel monte, ove l’aurora coglie
Le rose, che la fan bianca, e vermiglia;
     E fra me dico queste son le foglie,
E i fior, di che si fece in Paradiso
Per se le spoglie Adamo, e per la moglie.
     E mentre che le lodo, e non m’è avviso
Ch’altra bellezza al mondo si riserbe,
Che non merti appo lei dispregio, e riso.
     Ecco con altri fior, con più vagh’erbe,
Del saporito, e vago pratolino,
(Delizie serenissime, e superbe)
     Mi veggio appresentare un canestrino,
Mandatomi dal dotto Ruscellai,
Spirito veramente pellegrino,
     Tal che fu causa, che io mi vergognai
Del mio primier giudicio, non si tosto,
Ch’insieme questo, e quel paragonai.
     Ma non però mi muovo, o mi discosto
Dal punto, che per termine, e colonna
Al temerario ardir mi fu proposto.
     Quando ecco incontro mi si fe’ una Donna,
O più tosto una maschera (che pure
Tal mi sembrava al volto, e a la gonna)

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     Ch’avea la veste piena di costure
D’una latinità confusa, e guasta,
Ma rappezzata sù con le figure,
     E là dove pur sana era rimasta,
Il mutato preterito in presente
L’avea riviluppata come pasta.
     In vece poi di perle d’Oriente
Ella avea al collo un vezzo di entimemi,
E un sillogismo fatto per pendente.
     Non usava a l’andar cavalli, o remi,
Ma i suoi piè da se stessi regolati,
Acciò non si peccasse ne gli estremi.
     Nè calzava i coturni profumati
Quel dì, ma i socchi tolti da le basse
E vil capanne, mezzo affumicati.
     Con tutto ciò parea, che dilettasse,
Perch’ella avea nel venerabil viso
Un certo naso de la prima classe,
     Mezzo cristiano, e mezzo circonciso,
Ma se ’l gonfiavan mai gli sdegni, e l’ire
Tristo allor chi di lei si fosse riso.
     La bocca larga, e libera nel dire,
La lingua biforcata aver mi parve,
Sparsa di mille baie da impazzire.
     La treccia era bizzarra, e pien di larve
Il fronte, e gli occhi di sì acuta vista,
Che con Fetonte innanzi al Sol comparve.

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     Tenen del Mago, e avea del Cabalista
Ne la fisonomia; ma nondimeno
Non si poteva dir per cosa trista,
     Anzi mastro Allegorico, ch’in seno
La vide, e ne fe’ tosto il paragone,
Disse, ch’ella era buona roba a pieno.
     Costei con un gonfietto da pallone,
E con una carota assai ben unta,
Con certo, verisimile sapone,
     M’era quasi su gli occhi sopragiunta,
Quando a slacciar m’incominciai le calze,
Che per un servizial non facea punta.
     Sorrise ella a quell’atto, e ’ndarno t’alze
I panni per ricever l’argomento.
(Soggiunse) mal creato in queste balze
     Perchè questo che vedi è un istromento
Con che tal or le zucche senza sale
Pe ’l buco de l’orecchie empio di vento.
     Ciò che tu sei (diss’io) che non so quale,
O terrena fantasma, o Dea; pur t’amo;
Che ’l tuo non è mostaccio dozinale,
     Ed ella a me, non ti smarrir; che siamo
Dove avrai le tue voglie soddisfatte;
La licenza poetica mi chiamo.
     Poi gli occhi mi toccò con certo latte
Appropriato per levare i fiocchi
Da le pupille, e tor le cataratte.

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     Tal che mi vidi al novo aprir de gli occhi
Un palazzo dinanzi, il più giocondo
Di quanti mai da gli scrittor fur tocchi,
     Cui fu nel fabricar tanto fecondo
Il ciel, per quel che dicon le memorie,
Ch’era il primo miracolo del mondo.
     Nè fabrica agguagliarlo oggi si glorie,
Perchè in vece di porfidi, e di marmi,
Era fatto di favole, e d’istorie,
     L’un sopra l’altro i collegati carmi
Facean quelle facciate intere, intere,
Che fur soggetti già d’amore, e d’armi,
     Fra molte cose finte alcune vere
Serviano in quel mirabil edificio
Per finestre di vetro, e per lumiere.
     Qui con saldo, onorato, e bel giudicio
La sottil invenzion prima d’Euclide
Insegnò far la pianta a l’artificio.
     Ella che de’ moderni oggi si ride,
Ne la sua idea formandosi un modello,
Mostrò come si numera, e divide,
     Altri sei mastri poscia a questo, e a quello
Ufficio compartito avean la cura,
Di condur l’opra al termine più bello.
     Fu l’esordio a fundar primo le mura,
Ei con benivolenza, ed attenzione
Spiegò la consonante architettura:

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     Mentre con certa sua proporzione
Venia tirando un altro la cortina
Di bei concetti giusti al suo cantone.
     Altri con più severa disciplina
Facea gli spartimenti, e terminava
Gli spazi a quella fabbrica divina.
     Quell’altro, ove pur l’opra vacillava
Col martel de’ probabili argomenti
Le sue ragion battendo confermava.
     Tutti i pensier del quinto mastro intenti
Erano a confutar qualche difetto
Nel senso, ne le voci, e ne gli accenti.
     L’ultimo, e felicissimo architetto
Fu la conclusion, ch’usando un breve
Epilogo, serrò le mura, e ’l tetto.
     Che mai non temeran venti, nè nevo,
Benchè ardiscon di dir centi pedanti,
Che ’l farne anco un più bel sarebbe leve.
     Oltra i detti sei mastri, erano tanti
Quegli altri, ch’obediano a la tenace
Memoria, e a la pronuncia soprastanti.
     Costor cavar da l’opra un certo audace
Grammaticuccio, il qual rubar volea
Un barbarismo cotto su le brace.
     Scorrer per tutto intanto si vedea,
Ma però con piè cauti, e molto destri,
La provvidenza, che tal cura avea,

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     E giva ricordando a quei maestri,
Che per gli sciolti, e lubrici Scrittori
Avertisser di far comodi i destri.
     Stuccato tutto quanto era di fuori
I’ mur d’un’eleganza di parole,
E sparso di rettorici colori,
     Tal, che il palazzo, dove alloggia il Sole,
Tanto nel Metamorfosi lodato,
Rispetto a questo, e tutto baia, e fole.
     Quest’era in forma quadra, a fil tirato
Da un angolo all’altro, come s’usa,
Con quattro vaghe porte, una per lato.
     Quella ch’usò già la divina Musa
Del gran poeta Ebreo, ch’a la Rebeca
Cantava i Salmi, e poco men che chiusa
     Rotta è la foglia de la porta Greca,
Dove Omero lasciò l’unghia d’un piede
Aspramente inciampandovi a la cieca.
     Tutta di versi esametri si vede
Fatta co ’l suo pentametro architrave,
La porta de’ Latin, che l’altra eccede.
     Più moderna è la Tosca, e più soave,
Benchè l’avria la gente mal ridutta,
S’un Venezian non vi facea la chiave.
     Non di rustici bagni era costrutta,
Ma bene in vece lor, s’io non vaneggio,
D’amorosi terzin composta tutta.

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     E quelle due canzoni d’un pareggio,
Perchè la vita è breve, e la sorella
Ch’incomincia gentil Madonna io veggio,
     Le servian per colonna, e questa, e quella
Sostenean l’architrave artificioso,
D’una sestina assai gentile, e bella.
     Con ordine più breve, e men noioso
Facean poscia i sonetti il piedestallo
Componimento quadro, e grazioso.
     In cima poi con debito intervallo
Il frontispizio tutto era composto
Di madrigali, e canzoncine a ballo,
     Io non vendei giammai lesso per rosto,
Che queste cose ve le dia pe ’l costo.
     L’ottave rime con stil dolce, e raro
Facean il fregio sotto la cornice,
Che per molta bellezza a molti è caro.
     Cercate pur del mondo ogni pendice,
Fin là dove s’impalano i cristiani,
E dove mor nascendo la Fenice.
     E vedete gli autor Grechi, e Toscani,
Ch’han fatto scorno al tempo, ed a la morte,
E gli scrittor più illustri tra’ Romani,
     E se trovate cosa, che v’apporte
Più grata vista, io voglio esser appeso;
E di più, che non sia chi mi conforte.

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     Or mentre di stupor vinto, e sospeso
Non so s’io veglio, o dormo; e d’alto a basso
Vo mirando quel mur, sì bene inteso,
     La licenza poetica ad un sasso
Legò la mula, acciocchè con le zampe
Non mettesse il giardin tutto a fracasso.
     Poi disse entriamo, e se per caso inciampe
Non ti smarrire, e tirati da banda,
E danne colpa a i correttor di stampe;
     Intanto un uom di faccia veneranda
Mi si fe’ incontro, e disse, ancora vui
Volete ser Poeta la ghirlanda?
     Buonagiunta da Lucca era costui,
Dal qual per rinfrescarmi a la moderna,
Ne la cucina pria menato fui.
     In questa pulitissima taverna,
Residenza di guatteri, e di cuochi,
Era di tutti gran maestro il Berna,
     E dispensava le faccende, e i lochi;
Là si cocean pasticci in picciol forno,
E quà le torte a i temperati fochi.
     Non avea ’l muro altri corami intorno,
Se non che di bianchissima incrostata
Di più ricotte il Varchi l’avea adorno:
     Qui la Crapula Dea tutta allardata,
Sopra un carro di zuccaro guarnito,
Da due capponi arrosto cera tirata.

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     Nè al mio parer portava altro vestito,
Fuor che una trippa cotta per pellicia,
Che per tutto colava di condito.
     Or mentre ognun l’è intorno, ognun l’impiccia
Sol per gratificarla, e fin il Lasca
Le avea cotto un buon palmo di salsiccia.
     Fate (il Berna gridò) fate, che pasca
Questa novella pecora ancor essa.
E dateli del vin de la mia fiasca.
     Appena fu tal commissione espressa,
Che gli stivali mi furno cavati,
E la merenda ad ordine fu messa.
     Cardi con pepe, e sal, molto lodati,
E peducci, e finocchi, e gelatina,
E ghiozzi a la lombarda avantaggiati.
     Meco si pose a tavola in dozzina
Certo Messer Onesto Bolognese
Ma in ver sempre adoprò la forcellina.
     Grata la ciera, e grasse eran le spese
Di quei Poeti, e le minestre calde
Profumavan là su tutto ’l paese.
     Ove fra l’altre buone teste, e salde
Conobbi Farinaia de gli Uberti
Intorno al foco, ch’intridea le cialde.
     Talor mangiando, io riguardava certi
Per la stanza secreti ripostigli,
Come chi per mirar tien gl’occhi aperti.

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     E vidi ove si tengono i cottigli,
Io dico a canto al foco, e non dinanzi,
O dietro, com’alcun par che la pigli.
     Vidi (dico) una pigna con gli avanzi
D’un solutivo, e morbido cristierii,
Che ’l Bembo s’avea fatto il giorno innanzi.
     Ch’eran serbati a posta co’ bicchieri,
Però che molti per la via del pane,
Se gl’inghiottiva giù più volontieri;
     Ne gli avevano a ber le genti strane,
Ma i nostri stiticucci, che non ponno
Patir due voci, che non fian Toscane.
     O benedetto Archimandrita, o Donno
De le rime, diss’io, che almen le mosche
Non t’annoian giammai, se ti vien sonno.
     Io mi stupia fra quelle genti fosche
Di non veder alcuna faccia grave,
Di quei gran padri de le Muse Tosche,
     Quando Sennuccio con parlar soave
Mi venne a domandar da parte loro,
Se cosa avea da metter in Conclave.
     Perch’era chiuso un certo concistoro
A negoziar d’intorno a una corona,
Non so ben se d’Elleboro, o d’alloro.
     E che visto gli avria tra vespro, e nona,
E nel giardin poteva andar fra tanto,
Perchè ’l Guardiano era gentil persona.

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     Io gli diedi la lettra ch’avea a canto,
E la cagion del mio venir gli esposi,
Di riferire a quel Collegio santo.
     Poi senza la licenza, io mi disposi
Che non volser con me venir a l’orto
Quei poeti di lei forse gelosi.
     Era questo un giardino, ove a diparto
Solea gir il Petrarca, uscendo fuori
Per la lumaca con l’abito corto,
     E dove l’aura con soavi odori
Al naso benemerito di lei
Giva facendo il dì mille favori.
     Qui l’erbe, i frutti, i fiori Indi, e Sabei
S’udian cantar d’Amor leggiadri versi
Al passar di quei doti Semidei.
     Bianchi, verdi, vermigli, azzurri, e Persi
Eran pinti i calzon de l’ortolano
Con marzocchi dal ver molti diversi.
     Costui tosto rizzossi, e poi pian piano
Tornò co’l capo chino, e sonnacchioso,
Donde s’era per me levato in vano.
     Giovane, fresco, sodo, e muscoloso
Nè difetto altro avea, fuor che sputava
Spesso un umor, che tien del catarroso.
     E mi fu detto poi da un fior di fava,
Che ’l suo per tutto entrar senza capello
Sì fatta infermità gli cagionava.

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     Era anco assai gentil pittor, ma quello,
Cotal, con cui gli abozzi suoi compiva,
Il pelo avea al contrario del pennello,
     Ma pur mirabilmente coloriva,
E con due pennellate d’incarnato
Rappresentava una persona viva.
     E perciò molto era a le muse grato,
E siccome fedele, e diligente
La guardia del lor orto gli avean dato.
     Dov’io non seppi veder altra gente,
Eccetto un Duca, assai gentil compagno,
Piuttosto uomo dabbene, ch’altramente,
     Il qual poco lontan da certo stagno
Giva per l’orto fiutando i meloni,
Ch’un naso avea d’un Alessandro Magno,
     E coglieva anco spesso de i citroni,
Ed accappava quei gialli da seme,
Poi s’affacciava su certi verroni,
     Avendosi piacer da le supreme
Rive veder da basso una gran frotta
Di poetazzi radunati insieme,
     Che tentando salir, quel Duca allotta
Li salutava con le citronate,
Nè mai tirò, che non facesse botta.
     Ed a un certo poeta mezzo frate
Lasciò cader una zucca lardaia,
Sul capo, e ne stè mal tutta la state.

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     Intanto sotto, sopra una ficaia
Udì cantar tra lor certi terzetti
Del Molza, un papagallo, e una giandaia.
     Siate voi mille volte benedetti,
Allor (diss’io) ch’almen le poesie
Son qui cantate da vaghi augelletti.
     Facean le piche altrove le pazzie,
Che la fava del Mauro era coperta
Dì pulcion negri, ed altre malattie.
     Io stava intanto con l’orecchia aperta,
E mi parea sentirmi d’ora in ora
Chiamar: venite, che la porta è aperta;
     Fer quei poeti assai lunga dimora
D’intorno alla cagion del venir mio,
Pria che mi risolvesser dentro, o fuora.
     E vi furon di quei, che disser, ch’io
Atto non era pur per le cucine,
Benchè i più favoriro il mio desio.
     Lette insomma le lettre fin al fine,
E nel sigil riconosciute quelle
Serenissime palle fiorentine,
     S’aprì la porta, ov’io corsi in pianelle
Per veder quei poeti a la civile,
Con capucci di porpora, o di pelle.
     Ma a la mia bassa musa, e al rozzo stile
Non fu concesso di por dentro ’l piede,
Ma star di fuor guardando dal cortile.

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     Ne la più badiale, e ricca fede
Stava il Petrarca, ed a man destra Dante
E ’l gran Boccaccio a la sinistra siede.
     Costor ridean tra lor de l’arrogante,
Che al tempo di Leone, arcipoeta
In Roma trionfò su l’elefante.
     Mentre più basso di carcioffi, e bieta
Tessea degna corona Messer Cino
Ad un mio paesan, che fa ’l poeta,
     Guiton d’Arezzo, e ’l Padre Certosino
Presa licenza da que’ Laureati,
Sen’uscir fuor portando un gran catino,
     Ch’esser pien d’acqua di quei rivi amati
Dalle muse credea, ma poi m’accorsi
Ch’era brodo di caoli riscaldati.
     Questa bevanda si partiva a sorsi
Fra tutti quei, che privi d’invenzione
Traducon l’opre, e vi fan su discorsi.
     E si mandava poi giù pendolone,
Da quelle rive, e non essendo secchia,
S’attaccava alla corda un berrettone,
     Che fu di Dante, de la stampa vecchia,
Fatto a foggia di sporta; e gli orecchini
Ferrati gli servian per la manecchia.
     Stavano a bocca-aperta quei meschini,
Aspettando là giù sorbire il brodo,
E diventar ingegni pellegrini.

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     Ma (Cavalier) parliamo omai sul sodo.
La causa mia fu vista, e ventilata,
Ed al fin risoluta a questo modo.
     Mi renderon le lettre, e fu pigliata
Mezza libbra di più de l’ordinario
Di castron magro per la mia arrivata.
     Poi, quanto al ber, ricorsero al lunario
E calendar la mia nativitate,
Ch’era la Luna nel segno d’Acquario.
     Circa ’l dormir, mi furo spiumacciate
Non so che baie, e mi ci aggiunser anco
Una schiavina doppia di fischiate.
     Io di mirar non sazio mai, nè stanco,
Pur mi già rivolgendo in quella casa,
Quando mi vidi uscir certi per fianco
     Uomini gravi, ognun di cera rasa,
Il Bembo, il Giudiccione, il Sadoleto,
E il mio Messer Gioanni da la Casa,
     Che s’eran sottoscritti ad un decreto
Passato dianzi molto favorito
Nel publico scrutinio, e nel secreto,
     Che non fosse poeta tanto ardito
Che versi ad alcun Principe scrivesse,
Se ben ei si morisse d’appetito.
     Fuor che, se quel Signor non possedesse
Anch’egli un venaccion di poesia
Perchè in tal caso gli si concedesse.

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     La pena poi di chi contravenia
Fosse del pentimento esecutore,
Che spesso fa l’uffizio senza spia.
     Nacque intanto in Parnaso alto rumore
Fra i guatteri Toscani, e fu per questo
Che ognun anteponeva il suo sapore.
     Il Firenzuola ci volea l’agresto
E l’aglio, e Messer Cino il lauro pisto,
Finocchio, e noce, e tutt’aceto il resto.
     Il primo era allo stomaco assai tristo,
L’altro teneva un po’ dell’amaretto
Pel troppo lauro, che ci aveva misto.
     La cosa era a mal termine in effetto,
Però ch’ognuno innanzi al suo mortaro
Stava bravando col pistello eretto.
     Onde quei Padri cuochi terminaro
Che si chiamasse Ludovico Dolce
Com’uom di mezzo tra l’aspro, e l’amaro.
     E mentre ei vien, e l’asin gli si molce
Per bere ad un ruscel, ch’era tra via,
Misero lui, gli ci cascar le bolce,
     Ov’era ogni sua sciutta poesia,
E ’n specie il metamorfosi tradotto,
Che il rapido ruscel sel portò via.
     S’udì poscia un bisbiglio sopra, e sotto,
Che la Tosca Sapienza m’avea scritto
Per un nuovo Rettor pratico, e dotto.

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     Servandosi però quel novo editto
Mandato dal gran Duca di Toscana,
E di man di sua Altezza sottoscritto,
     Non è quella Sapienza assai lontana
Da questa regia casa, e da più bande
Vi si può gir, che c’è la strada piana.
     Dove fra le reliquie memorande
Ancor la libraria si serva, e tiene,
Che già fu di Lorenzo, e Cosimo il grande.
     L’editto poscia intesi, che contiene,
Che ne la petizion di quell’uffizio
Non entri chi non è ver uom da bene.
     E se non è bollato per giudizio
Del Barga, oggi scrittor famoso e degno,
Col marchio del poetico esercizio,
     Che ne la fronte altrui faceva un segno
Di tre M. infra lor tutti puntati,
Caratter novo, e cifera d’ingegno.
     A me furo in latino interpretati,
Che volea dir, com’è l’effetto istesso,
Medici de le Muse Mecenati.
     Basta che non mi fu quel dì concesso
Veder le Ninfe dentr’ai lor ridutti,
Ch’eran discese al fiume di Permesso,
     Sol per lavar tra quei correnti flutti
De’ succidi poeti le camise,
Oltra gli altri infiniti panni brutti,

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     Dove d’Ennio fra lor molto si rise,
Che non avendo un straccio da mutarsi,
Il sajo a la disdossa il dì si mise.
     Già cominciava il Sole ad abbassarsi,
E non trovava il Pegaseo quiete,
Per esser ora omai d’abbeverarsi.
     Quando dopo lunghissime diete,
Tutti i Comentator furon d’accordo
A interpretar che l’asino avea sete.
     E benchè Ascensio facesse il balordo
E Donato, e Porfirio, e ’l Mancinello,
Lo sciolser pur, e n’ho questo ricordo,
     Ch’ebbe co’ calci a uccider il Burchiello,
Che l’arrivò su l’uscio de la stalla,
Nè mai più da quel dì stette in cervello.
     Balzò fuor l’animal, come una palla,
O che a l’odore, o che le parve al conio,
Che la mia mula fosse una cavalla.
     E prodotto un gagliardo testimonio,
Le corse adosso, consumar volendo
Per verba de præsenti il matrimonio.
     La mula, ch’animal così stupendo
Lo vide a suon di calci, e di suffioni,
Rotta la briglia, se mandò fuggendo.
     Or sì, ch’allor s’udiro altre canzoni,
Però ch’amor temprato il suo liuto,
Fè quattro ricercate su i bordoni.

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     Seguia poi dietro l’animal nasuto
Dicendo: oimè, cor mio, ch’ogni tuo calcio
M’è caro, e per favor me lo reputo.
     Ciò vedend’io, presi un gran pal di salcio
Ch’ogni amorosa bestia suol guarire,
Se gli è rotto sul capo fin al calcio;
     E volendo la zuffa lor partire,
Correva anch’io, ma ben m’accorsi al fine
Che ’l correr va più lento che ’l fuggire,
     Anzi del caso mio quasi indovine
Fin le pianelle mie m’abbandonaro,
Dicendo, che temevan de le spine.
     Tal che in pedane dietro a quel somaro,
Ed a la mala corsi, e corro ancora,
Nè più di ripigliarla c’è riparo.
     Ma sceso son del monte, e già son fuora
Del dominio d’Apollo, e omai fa segno
Di volersi tuffar in mar l’aurora.
     Ahi, chi mi rompe così bel disegno,
Ch’io non possa veder gli appartamenti
Là su d’ogni felice, e chiaro ingegno?
     Perchè fra l’armi, e fra gli incantamenti,
Quivi gli eroici, e là più dentro stanno
D’amor cantando i Lirici concenti;
     Perchè avrei visto il gran rispetto ch’hanno
A le stanze appartate da i Latini,
I topi, ch’a i volgar fan tanto danno.

[p. 158 modifica]

     Ed avrei visto Omer tra i Levantini
Poeti con la giubba di teletta,
E col turbante di preziosi lini,
     Se ben lo vidi già quasi a staffetta,
Per man del Valla sotto altro velame,
Con la toga latina, e la beretta.
     Ma non si puon cavar tutte le brame,
Cavalier mio gentil, da un uom, che giostra
Per la mula arrivar morto di fame,
     Tal che bestemmio la disgrazia nostra,
Massime ch’io volea baciar le mani
Al Petrarca là su da parte vostra.
     Perchè, se i commentari non son vani,
Voi gli siete parente, che sua madre
Monna Brigida fu de’ Canigiani,
     Pur se vorranno un dì le sorti ladre,
Spero di ritornarci, ed in quel caso
Voi potrete far conto aver un padre.
     Però che mi daria troppo nel naso,
Che si dicesse: Cesar Caporali
La prima volta, che salì in Parnaso,
Vi lasciò le pianelle, e gli stivali.