Il buon cuore - Anno IX, n. 14 - 2 aprile 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 14 - 2 aprile 1910 Religione

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L’igiene nella legislazione di S. Carlo

Interessantissimo sempre il periodico mensile, che si pubblica per San Carlo Borromeo nel terzo centenario della canonizzazione. La vita del gran Santo è esaminata nei punti più culminanti dal dotto sacerdote don Cesare Orsenigo, il quale, nel fascicolo di marzo, dopo aver parlato delle calamità, della carestia e della peste che desolarono Milano, accenna argomento dell’igiene nella legislazione di San Carlo, e assolve egregiamente il suo assunto, facendo brillare le doti straordinarie della mente e del cuore dello straordinario benefattore.

«La storia circonda di un’aureola di carità così luminosa la figura di San Carlo al tempo della peste, che anche gli scrittori meno benevoli non osano mai neppure attenuarla; ma invece non mancò chi parve voler menomare il merito di quella sua carità, mettendo la sua condotta in contrasto coi dettami più elementari della prudenza e dell’igiene; anzi vi fu chi accusò apertamente San Carlo di aver agevolato la diffusione del morbo con le sue processioni e pubbliche preghiere.

«L’appunto, che non manca di una certa apparenza di verità, è invece sfatato totalmente quando, come giustizia vuole, si consideri la condotta di San Carlo nella luce del suo tempo e dell’ambiente.

«Le processioni, bisogna riconoscerlo, non erano scevre, umanamente parlando, del pericolo di contagio. Nè ignorava queste cose San Carlo, che anzi aveva per l’occasione arricchita la sua biblioteca di circa un centinaio di libri di medicina, non ostante fosse alieno da qualsiasi sua cura personale.

«All’Archivio della Curia Arcivescovile fu trovata fra i molti manoscritti di San Carlo la minuta di alcuni «raccordi» ossia consigli, che egli indirizzava all’illustre signor senatore Castiglioni per la preservazione di questa città dal morbo della peste, e vi si legge fra l’altro che bisogna «ritirar li vagabondi... evitar li concorsi di gente... et il snidarsi et raffreddarsi et conversar insieme... cose tutte che possono disponete li corpi a simili contagi». A noi poco importa che questi consigli siano o no pervenuti al senatore Castiglioni, basta che San Carlo li abbia scritti, per dedurne quali fossero le sue idee in proposito.

«Ma allora si dirà come mai, pur consigliando di «evitar li concorsi di gente» e persino «il conversar insieme» promosse poi quelle affollatissime processioni?

«La spiegazione non dovrebbe esser difficile a chi conosce l’anima del popolo, specialmente l’anima della folla, quando è presa dal timore. Il popolo, a quei tempi più credente che oggi giorno, ricorreva alla preghiera pubblica, alle processioni come al rimedio principe in qualsiasi calamità; nè le Autorità civili, nè l’Arcivescovo stesso, se anche l’avesse voluto, sarebbero riusciti a dissuaderlo.

«Esso aveva radicata l’idea che Dio, così solennemente invocato, avrebbe non solo impedito che il contagio si propagasse a causa delle processioni, ma anzi l’avrebbe fatto cessare totalmente; e certo, se si vuol esser esatti, le processioni non peggiorarono mai le situazioni, tanto che nel 1630, in occasione di una nuova pestilenza, il popolo ricorse ancora alle processioni, e anche allora il Cardinal Arcivescovo, che era il grande Federico Borromeo, lo accondiscese.

«È ben probabile quindi che questi numerosi cortei si sarebbero pur fatti egualmente, anche a dispetto di chi governava, e fatti senza l’intervento di un’Autorità venerata, sarebbero inevitabilmente degenerati in agglomeramenti spaventosi.

«Si direbbe che San Carlo stesso abbia preveduto le obbiezioni che si sarebbero mosse alle sue processioni dal lato igienico, e vi risponde da par suo.

«Nel Concilio Provinciale V, dopo aver [p. 106 modifica]dato ai Vescovi che in caso di peste procurino che «sia nelle chiese come nelle processioni i fedeli non siano affollati, densi, pigiati, ma distinti con ordine e separati da uno spazio, affinchè non si dia occasione al contagio» dopo d’aver suggerito che se v’è pericolo di affollamento si ponga piuttosto un Altare portatile alla soglia della chiesa, onde assistano alla Messa dall’esterno, che le riunioni dei confratelli e le scuole della dottrina cristiana si facciano in luogo pubblico, cioè al cimitero (che allora era attorno alla chiesa) o in piazza o ne’ crocicchi delle strade, dopo aver raccomandato di tener in posti separati nella chiesa le persone sospette da peste e quelle non sospette assegnando loro due distinti vasi per l’acqua benedetta, conchiude: «Bisogna evitare sopratutto, che la moltitudine del popolo chiusa nelle case non intervenga per lungo tempo neppure alla chiesa, per guisa che non solo restino sospese gran parte delle pratiche religiose, ma anche perdano il loro fascino: il che certo è disgrazia da temersi assai più d’ogni funestissima pestilenza». E soggiunge che nel prescrivere le quarantene si abbiano cura il Magistrato e il Vescovo «di badare tanto alla peste delle anime che al contagio dei corpi, il quale poi, per moltissimi titoli, è meno dannoso».

«Nè si creda che San Carlo limitasse la sua azione durante la peste alle processioni; egli adottò anzi e suggerì un cumulo di precauzioni così minute per impedire il diffondersi del contagio, che certo un medico al suo posto non avrebbe forse fatto meglio. Egli stesso s’aggirava sempre con una bacchetta alla mano, perchè era questo il distintivo delle persone sospette d’infezione e dalle quali bisognava passar lontano, distribuiva le sue elemosine mettendo le monete in un vasetto d’aceto, donde il povero doveva levarle: era questa una disinfezione un po’ discutibile, ma era quanto la scienza di allora suggeriva.

«Più tardi, quando il morbo maggiormente infieriva ed era imposta la quarantena a tutti i cittadini, S. Carlo fece erigere ai crocicchi delle vie degli Altari, ove i sacerdoti celebravano poi la Messa a conforto dei cittadini, che dalla finestra vi assistevano senza esporsi a pericolosi contatti: in seguito gli Altari furono tolti e in memoria furono erette al loro posto delle colonne sormontate da croci, come tuttora si vede a P. Romana, a San Celso e a Porta Vittoria.

«Ai religiosi ed alle religiose, che prestavano servizio fra gli appestati, prescrisse che tornando in convento abitassero assolutamente in celle separate dal resto della comunità.

«È vero che amministrando i Sacramenti sia della Comunione come dell’Olio Santo non volle mai usare istrumenti speciali per impedire il contatto immediato, ma questo non riguardava che la sua persona. Aveva premura che fossero lavati accuratamente tutti gli oggetti, che erano stati posti a contatto con gente infetta; non permetteva ai suoi famigliari, come pure ai canonici quando scendeva in coro per l’officiatura, di accostarsi a lui.

«Spinse la sua cautela fino a far porre nella sua sala di ricevimento delle grate, come si usa nei conventi di clausura, per evitare ogni pericolo alle persone che venivano a fargli visita e a conferire con lui.

«Usò di tutta la sua autorità e ricorse anche alle pene spirituali per impedire tutto ciò che poteva esser causa di contagio: fulminò la scomunica contro quelli che facevano traffico di abiti usati dagli appestati, come pure vietò rigorosamente l’uso che andava introducendosi di farsi prestare o portare addosso certe orazioni scritte od anelli, come fossero una specie di talismano contro il morbo.

«In quel famoso Concilio Provinciale V, tenuto nel 1579, cioè due anni dopo la peste, il Santo Pastore volle far parte a tutti i Vescovi della sua provincia dei frutti della sua dolorosa esperienza a proposito di contagio. Ebbene gli Atti di quel Concilio sono un documento veramente mirabile di legislazione in fatto d’igiene: vi si danno norme che si direbbero tolte da Regolamento moderno. I paragrafi circa quanto i Vescovi dovranno fare per approntare lazzaretti provvisori, per aver pronti medici, infermieri, monatti, nutrici, per ovviare al pericolo della carestia, che quasi sempre accompagnava la peste, le cautele per impedire che la peste si diffonda, le precauzioni da usarsi dai sacerdoti quando accostano appestati e dopo averli avvicinati, sono redatte con criteri inappuntabili.

«Ci limitiamo ad un’unica citazione, in mezzo a quel cumulo di consigli e di precetti, ad un’inezia, se si vuole, ma appunto perchè tale, maggiormente atta a dimostrare fin dove fosse arrivata la sua scienza e la sua pratica a proposito di igiene.

«Egli prescrive dunque che si tengano nelle chiese apposite cassette riempite di calce per raccogliere gli sputi, e ordina persino come e quando si debba pulirle e rinnovare la calce. Che ne dicono quei nostri storici moderni che osarono denigrare l’opera di San Carlo durante la peste? Forse non sapevano che proprio nelle norme da lui date e praticate, cioè a tre secoli di distanza, vi erano invece vere anticipazioni delle più moderne disposizioni d’igiene pubblica. E come questa sono a centinaia le norme da lui dettate, eco fedele di una scienza igienica non suggerita dal cieco impulso di un pericolo incombente, ma metodica e non disprezzabile neppur oggi.

«Del resto se le statistiche valgono ancora qualche cosa, come mai i nostri moderni scrittori, ricusando a San Carlo e agli altri suoi cooperatori una miracolosa preservazione del contagio e negando loro al tempo stesso ogni scienza e pratica igienica, spiegando che dei famigliari di San Carlo nessuno è morto, tranne un domestico, che non aveva mai prestato servizio agli appestati? che dei religiosi, eccetto quelli che caddero sul campo della gloria, ove erano accorsi a compiere il loro ufficio, nessuno è morto? che nel Seminario si registrarono tre sole vittime, due chierici e un Padre Gesuita?

«Non già che tutto allora si sia fatto a perfezione: errori dal punto di vista igienico certamente ve ne furono, come nessuno dubita se ne commettano oggi, che rileveranno poi a suo tempo i nostri posteri. Ma furono errori imputabili al tempo, ossia alla scienza e alle opinioni dominanti, e non già al tale o al tall’altro uomo.

[p. 107 modifica]«A San Carlo invece, anche umanamente parlando, risale il merito grande, inestimabile di aver col suo mirabile esempio di fede e di santa audacia tenuto alto nei cuori il coraggio nel pericolo e la fiducia della vita: elementi questi di grande valore in un momento di panico generale; se il morale si ripercuote nel fisico, come l’esperienza dimostra, quello fu certo uno dei meriti innegabili in S. Carlo Borromeo, di aver con la parola con l’esempio confortato così virilmente i suoi contemporanei, da renderne i corpi stessi più refrattari al contagio e alla morte».

Don Cesare Orsenigo conchiude rilevando come la Chiesa, quantunque istituita per il Cielo, sia ancora all’occasione l’istituzione più pronta, più energica, più abile a lenire anche le miserie terrene. San Carlo, ad onta del suo ascetismo, che sembrava staccarlo da ogni preoccupazione terrena, seppe in quella occasione prendere il primo posto tra gli uomini d’azione pubblica; la sua profonda religiosità, le sue numerose preghiere non gli impedirono di essere nè un organizzatore geniale nei più dolorosi frangenti, nè un benefattore cospicuo e coraggioso, quanto più insistenti si facevano i bisogni materiali del suo popolo.

PICCOLO ARTISTA

Disma appena nato era così esile, così piccolo, che le amiche di sua madre lo guardavano pietosamente crollando il capo, persuase che non sarebbe vissuto più di una settimana.

S’affrettarono a battezzarlo, per timore che morisse per via, se l’avessero portato alla chiesa ch’era molto lontana, e lo chiamarono Disma, perchè la sua madrina era molto devota di quel Santo fortunato, che con un sospiro s’era guadagnato il Paradiso, com’ella diceva.

Tanto il bimbo doveva morire, ed era inutile dargli un nome di famiglia.

Ma il bimbo non morì; cominciò anzi a sgambettare e a piangere, così debolmente però, da parere un micino; era sempre affamato, eppure non cresceva come gli altri: era pallido, smunto, con le guancie infossate, i capelli radi e gli occhi chiari e fissi, come se vedesse qualcosa di strano, che nessun altro vedeva.

D’inverno se ne stava sempre vicino alla stufa e piagnucolava per la fame, quando sua madre — una povera giornaliera — non aveva nulla da mettere in pentola. L’estate invece girellava pei campi, fermandosi estatico ad ascoltare gli uccellini che cantavano sugli alberi.

Sua madre gli voleva bene a modo suo, ma lo batteva spesso e gli dava dell’incantato, vedendolo sempre astratto e silenzioso.

A otto anni Disma andava sui monti a raccoglier legna, o nei boschi in cerca di funghi; ma molte volte tornava a mani vuote e allora diceva balbettando:

― Mamma, nel bosco c’era qualcosa che sonava, e io sono stato a sentire....

― Ora ti sonerò io, — diceva la madre, e lo picchiava sodo. Il ragazzo urlava, prometteva che non lo farebbe più; ma intanto pensava di tornar ad ascoltare quei suoni misteriosi, che l’avevano rapito.

Che cos’erano? Chi lo sa? I pini, i faggi, le betulle, gli usignoli, il vento... tutto sonava per lui. La sera ascoltava il canto delle contadine che tornavano dal lavoro gli pareva che tutto il villaggio cantasse.

La musica era la sua passione; in primavera scappava di casa per farsi degli zufoli vicino al ruscello. La notte, quando le rane cominciavano a gracidare, le quaglie nei prati a pispigliare, gli insetti a ronzare e i grilli a cantare, egli non poteva dormire, ascoltava, e Dio sa che musica sentisse in tutto ciò!

In Chiesa, quando l’organo suonava, egli pareva svenire per la commozione.

Spesso lo si vedeva la sera accovacciato contro il muro dell’osteria ad ascoltare i violini che facevano ballare i giovani del paese.

Che cosa non avrebbe dato per avere un violino che cantasse così dolcemente! Dai pezzi di legno che cantano.... Ma dove prenderli? Come si fanno? Se almeno avesse potuto tenerne in mano uno, una volta sola, per qualche minuto!... Almeno l’avessero lasciato ascoltare in pace; ma invece di solito gli dicevano:

— Va’ a casa, vagabondo.

Allora sgattaiolava co’ suoi piedi nudi sino a casa, e dietro a lui correva nelle tenebre la voce del violino, che cantava così dolcemente....

Provò a fabbricarsene uno con delle assicelle e dei crini di cavallo, ma non voleva suonare bene come quelli della bettola; ronzava piano come una zanzara o squittiva come un topo. Però Disma sonava da mane a sera, benchè sua madre lo picchiasse per farlo smettere.

Intanto il ragazzo si faceva sempre più pallido, più magro; le gote e il petto gli si infossavano sempre più; il poverino pativa spesso la fame e sopratutto si struggeva dal desiderio di possedere un violino.

Ma pur troppo questo desiderio non gli portò fortuna.

Un servo del castello — che dominava il piccolo villaggio polacco — aveva un violino e sovente lo sonava all’imbrunire per divertire le cameriere. Disma a volte strisciava fra le erbe fino alla porta aperta del palazzo per vederlo: era appeso al muro in un andito, dirimpetto all’uscio. Il ragazzo stava lì immobile, a contemplare quell’oggetto del suo amore, che gli pareva una cosa sacra, ch’egli non era degno di toccare.

Ma quanto lo desiderava! Avrebbe voluto averlo almeno una volta tra le mani.... Il suo cuore sussultava di gioia al solo pensarvi.

Una sera nell’atrio non c’era nessuno; i signori da parecchio tempo erano all’estero e la casa rimaneva deserta; anche il servitore era uscito. Disma, accovacciato tra l’erba, guardava l’oggetto di tutti i suoi desideri; la luna piena, entrando per la finestra aperta, illuminava la parete di contro, dove lo strumento era appeso, e a poco a poco parve circondarlo di un’aureola luminosa. In quel chiarore tutte le parti spiccavano distintamente: la cassa, le corde, il manico; gli spinelli scintillavano come lucciole, l’archetto sembrava una verga d’argento.

[p. 108 modifica] Ah, che spettacolo magico! Disma, accovacciato fra le erbe, coi gomiti sulle ginocchia, con le labbra aperte, guardava, guardava. Ora la paura lo inchiodava al suo posto, ora il desiderio lo spingeva innanzi... E il violino pareva lo chiamasse, mentre il vento gli sussurrava:

— Va’, Disma, in casa non c’è nessuno, va’!

Ma un uccello prudente gli volò vicino e gli bisbigliò:

— Non andare, non andare!

E il vento ripeteva;

— Va’, va’, non c’è alcuno! Piglialo per un momento solo!

Disma si alzò, e lentamente, cautamente, s’avvicinò all’entrata; si sentiva il suo respiro affannoso sulla soglia; ancora un minuto, e la piccola figura sparve nel buio. Le rane gracidarono come spaventate, poi tacquero; il vento cessò di bisbigliare e l’uccelletto di cantare.

Il bimbo s’impaurì e ristette; voleva tornare indietro, ma il violino raggiava sul suo capo ed egli si lasciò vincere da quel fascino.

Un suono leggero uscì dalle tenebre, un suono sommesso lamentevole, come se qualcuno toccasse a caso le corde... poi, a un tratto una voce rauca domandò adirata:

― Chi è? — Disma rattenne il respiro, ma la voce domandò ancora: — Chi è?

Un fiammifero scintillò, poi... bestemmie, busse, il pianto del fanciullo, il correre dei lumi dietro ai vetri, lo strepitare di tutta la servitù....

Il giorno seguente Disma comparve dinanzi al tribunale sotto l’imputazione di furto premeditato.

Ma come condannare un povero esserino così piccolo, magro, spaventato, che ha solo dieci anni, e quasi non si regge in piedi? Mandarlo in prigione? O che farne?... Che il guardiano lo frusti, perchè non abbia a rubare un’altra volta, e la sia finita.

Il guardiano prese Disma come un gattino, lo portò fuori, lo stese sur una panca e cominciò a sferzarlo.

Il bimbo gridò «Mamma!» e ogni volta che riceveva un colpo gridava: «Mamma! mamma!» ma sempre più piano, finchè tacque.

Povero violino infranto!

Venne la madre desolata e si portò a casa il ragazzo; lo mise a letto, e il poverino non si alzò più!

Due giorni dopo agonizzava sul suo giacilio, mentre le rondini cinguettavano e un raggio d’oro, entrando dalla finestra, illuminava quel povero visetto smunto. Questo raggio era la via per la quale la piccola anima doveva andare verso la patria.

Venne la sera: le fanciulle, tornando dai campi, cantavano, e gli uccellini cantavano anch’essi, e Disma ascoltava per l’ultima volta quei suoni così cari al suo orecchio.

A un tratto il suo viso si illuminò e dalle labbra smorte uscì un mormorio: «»Mamma?»

— Che vuoi, figliolo? — chiese la madre rattenendo i singhiozzi.

— Mamma, in cielo il Signore mi darà un violino, vero?

— Si, le lo darà, figliolo, te lo darà — e il dolore compresso scoppiò in un diluvio di lagrime e di gemiti: sentiva d’amarlo, ora che stava per perderlo!

La piccola anima intanto usciva da quel misero corpicciolo e volava ai gaudi eterni, e si beava finalmente delle celesti melodie.

(Imitazione dal polacco).

Mary Cappello.


NOTE BRASILIANE


Da un distinto amico genovese, che si trova da nove anni al Brasile, riceviamo questa interessante corrispondenza:

«San Paulo, 3 marzo 1910.

«Il primo di marzo, con un plebiscito popolare di 427 mila voti, veniva eletto presidente della repubblica degli Stati Uniti del Brasile, S. C. il maresciallo Hermes da Fonseca, candidato del partito militarista del Brasile. È il settimo presidente della repubblica, ed il terzo del partito militare che assume il governo di questa fiorentissima e promettente Confederazione.

«Nipote del maresciallo Deodoro da Fonseca, che il 15 novembre del 1889 rovesciava con un colpo di stato il gabinetto di S. M. l’Imperatore don Pedro II facendosi proclamare dittatore e presidente nel campo di Sant’Anna in Rio de Janeiro, è uomo di vasta cultura, di straordinaria attività, di indomabile energia. A lui si deve l’aver scoperta e domata in una notte la rivoluzione organizzata dalla scuola militare di Rio contro il presidente Rodriguez Alves nel 1905. Direttore della scuola militare del Realengo, capo del distretto Poliziale della capitale Federale, ministro della guerra sotto il presidente Alfonso Penna, egli conta numerose benemerenze in pro’ della sua patria. Si deve a lui pure la organizzazione dello esercito brasiliano, essendo riuscito, per la sua esclusiva iniziativa, a rimettere in vigore l’antica legge della repubblica sulla leva militare obbligatoria, con un corpo permanente di trentamila uomini.

«La revisione delle leggi e del codice, una più equa distribuzione tributaria, l’aumento dello esercito e della marina, secondo le risorse finanziarie del paese, lo sviluppo dato al commercio ed all’agricoltura, ampi criteri di libertà religiosa e di franca e simpatica relazione colla Chiesa, sono queste le principali linee direttive del suo vasto programma politico. Sono pure noti i suoi schietti e profondi sentimenti religiosi, e ne è pure una prova l’essere stato decorato colla preziosa commenda dell’ordine Gerosolimitano del Santo Sepolcro.

«L’essere intervenuto nel 1908 alle grandi manovre militari in Germania, per invito personale dell’Imperatore Guglielmo, che lo colmò di gentilezze e di onori, fa supporre che il governo del maresciallo Hermes aprirà una forte corrente di simpatie, di emigrazione e di commercio colla Germania, nuova fonte di ricchezza e di progresso pel futuro assetto economico-sociale del Brasile.

«Passiamo ad altro soggetto importante, cioè il commissario generale del Brasile per le esposizioni di Roma [p. 109 modifica]e Torino nel 1911. È il dottor Padua de Rezende, il cui nome è ritenuto sicura garanzia di ottimo successo, come afferma la stampa più competente.

«Il dottor Padua de Rezende, ingegnere di grido e amico di lunga data degli italiani, ebbe infatti l’onore di rappresentare il proprio paese nell’esposizione mondiale di St. Louis, e di far parte in qualità di vicepresidente del Comitato ordinatore dell’ultima esposizione nazionale di Rio de Janeiro.

«Ai suoi pregi di carattere e al suo valore, si aggiunge l’autorità che gli proviene dall’essere egli a capo di molte fra le più importanti Compagnie industriali del proprio paese. Ad ogni iniziativa, ad ogni impresa, ove attraverso l’utile privato traspaia una possibilità di incremento alle industrie, ai commerci, alla economia della nazione, egli volentieri apporta il contributo della propria vigorosa pratica di organizzatore e del proprio alto intelletto. E gli incarichi, onde la fiducia degli enti o del paese lo investe, trovano sempre nella sua rettitudine, nella sua competenza e nel suo amor patrio, la migliore garanzia di un degnissimo assolvimento».

Tra poco il de Rezende sarà in Italia per dar principio ai lavori preparatori e passerà da Milano, ove conta affettuose amicizie.



Ricordatevi di comperare il 13.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI che esce in questa settimana.