Il buon cuore - Anno IX, n. 23 - 4 giugno 1910/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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La conferenza di mons. Bonomelli


Adesso è detta aula magna del Liceo-Ginnasio Beccaria quella ove si tengono tante conferenze di vario genere; poche decine d’anni fa era la cappella dove ai giovani allievi del Ginnasio e del Liceo si impartivano settimanalmente lezioni di catechismo e di religione. L’altare fu tolto, ma rimangono il bell’affresco della vôlta e la loggia in giro al cornicione. L’ambiente è vasto e capace di circa 500 persone sedute. L’aula era gremita d’un mondo scelto ed intellettuale per ascoltare la annunciata conferenza di mons. Bonomelli, vescovo di Cremona, il quale, trattando genericamente del tema «il tempio», veniva a contribuire all’opera indefessa del Comitato pro Corpus Domini onde raccogliere fondi per il compimento entro quest’anno della chiesa monumentale che si ammira presso l’arco del Sempione. I carmelitani erano in buon numero con padre Beccaro e col loro priore padre Atanasio; notammo don Lorenzo Saluzzo, padre Gemelli con altri francescani, numerosi sacerdoti e parroci, e fra i laici il conte Parravicini, il comm. Corbetta, il comm. Tomaso Bertarelli e altre personalità distinte; le signore poi in grandissimo numero, sicchè l’aula gremita presentava un aspetto davvero imponente. Alle ore 16,20 precise il vesc. mons. Bonomelli entra, mentre tutti si alzano in piedi, e prende posto alla cattedra rialzata. Esordisce chiedendo venia di dover leggere anzichè proferire a memoria il discorso, ch’egli dopo un po’ di esitanza, accettò di venir qui a pronunciare onde contribuire ad accrescere i fondi pel compimento della chiesa del Corpus Domini che uno zelante Comitato si prefigge di conseguire, almeno in guisa sufficiente a tenervi in quest’anno del centenario di San Carlo, una funzione di ringraziamento.

La scelta del soggetto, dice mons. Bonomelli, fu lasciata a mia libera scelta ed io decisi di trattare un tema appropriato allo scopo della conferenza, quello del tempio di Dio. Che cos’è il tempio? è l’edificio destinato al culto della divinità: ma non è Dio che ha bisogno dei templi, poichè il firmamento costellato di gemme, i monti che si ergono verso il cielo, il mormorio dell’acque, la natura tutta incantevole sono il tempio di Dio, sono l’inno del creato alla onnipotenza divina. I popoli primitivi ancor vergini adoravano Iddio nella maestà della natura; i più grandi navigatori ed esploratori sentivano Dio nell’intimo dell’anima e lo scorgevano in ogni cosa del creato; di Dio eran compresi in ogni cosa che si palesava ai loro sguardi: Dio in una parola era in ogni anima civile che sapesse sollevare in alto il suo pensiero. Dio non ha bisogno di templi, ma perché sorsero e continuano a sorgere? Perche è l’uomo che ne abbisogna. Il cuore umano sente spontanea la necessità di metter fuori in forma tangibile le vampe del cuore, di estrinsecare i suoi sentimenti; occorre all’uomo di metter piede a terra per assorgere al cielo. Il tempio

è il luogo di misterioso convegno fra Dio e l’umanità, ivi s’innalza a Dio la voce dello spirito.

Qui l’oratore entra nel campo storico, a cominciare dall’evoluzione dei tempi dell’antichità, quello di Salomone pel popolo d’Israele, quelli della Grecia, sino ai templi del Cristianesimo, che sono l’espressione più perfetta dell’arte che rappresenta il culto a Dio. Sarebbe vano credere di poter riassumere a memoria questa parte in cui alla forma elettissima, l’oratore aggiunse la maggior dovizia di erudizione e di coltura, descrivendo l’epoca del sorgere delle cattedrali più celebri, dovute alla fierezza della fede che riuniva in un solo intento l’opera di nobili e popolani, di uomini d’arme e di toga, di mercanti e artigiani; disse di quel poema marmoreo ch’è il nostro Duomo; di Santa Sofia a Costantinopoli, della basilica vaticana, di S. Maria del Fiore a Firenze, delle Cattedrali di Orvieto, di Pisa, di Siena e via via. Quanto godimento spirituale e d’intelletto in quella scorsa del venerando oratore attraverso i sacri monumenti innalzati a gloria di Dio, e ne’ quali l’Italia può vantare un primato indicibile! Poi monsignor Bonomelli passò a dire dell’alto significato morale, religioso e civile degli atti di culto che si compiono nei templi. Con elevatezza geniale e sentimento esemplare di fede, passò in rivista ad uno ad uno i Sacramenti che vi si compiono, da quello che accoglie il bambino e lo munisce del sale della sapienza e della benedizione di pace per lanciarlo nell’aspra e ignota realtà della vita, a quello della Cresima che gli infonde fortezza di carattere, alla prima Comunione colle sue ineffabili dolcezze; poi del conferimento dell’ordine sacro alle sublimi missioni di sacrificio e di rinunzia alle gioie terrene, indi del matrimonio indissolubile che consacra la fede giuratasi fra due giovani esseri; infine quando il tempio accoglie estinta la salma che vien portata colà dove aveva fatto ingresso alla vita per uscirne ancor benedetta. Delle funzioni di culto disse egregiamente l’oratore, esaltando in modo meraviglioso il significato della musica che le accompagna, con l’organo che è il fremito ruggente o soave di tutte le voci che salgono al cielo.

Da ultimo l’oratore descrisse la Casa di Dio come casa della vera uguaglianza, della fratellanza umana per eccellenza, e qui ebbe accenni assennati e confronti opportuni in merito alle odierne aspirazioni di uguaglianza che invece di conseguirla fanno ancor più duramente sentire le differenze di classe.

L’oratore concluse fidente di aver dimostrato quanta sia la grandezza, il significato, la necessità del tempio sacro; e parafrasando il motto «ove sorge una scuola si chiude un carcere», soggiunge che ove sorge un tempio si chiude la porta al vizio e se ne apre una alla virtù ed alla pace.

Il venerando oratore, interrotto spesso da applausi, fu fatto segno in fine ad una vera ovazione. I più vicini si fecero intorno a lui per ossequiarlo e baciargli la mano, accompagnandolo fin verso la porta del Ginnasio, dove salito in carrozza, si recava nella casa del conte generale Tahon di Revel. [p. 180 modifica]

Le nozze sacerdotali di diamante

del Prevosto Don EMILIO DIVIANI


Pel prevosto di San Giorgio al Palazzo, don Emilio Diviani, il giorno delle nozze sacerdotali di diamante, fu più che un giorno di soddisfazione, giorno di vera consolazione. Il venerando sacerdote ha toccato nuovamente con mano quanto sia per lui l’affetto del clero del popolo: le manifestazioni, non ancora dimenticate, delle nozze d’oro, ebbero, a distanza di dieci anni, riscontro commovente: la luminaria della sera, che fece della piazza innanzi la chiesa una féerie incantevole, fu un emblema fedele del sentimento dei cuori.

Il tempio, riccamente parato all’esterno ed all’interno, per la messa giubilare delle 7, rigurgitava di popolo. Nel prevosto nessuno avrebbe ravvisato il vegliardo ottantaquattrenne: assisteva mons. Limonta canonico della Metropolitana; eran padrini il marchese Giovanni Cornaggia-Medici ed il marchese Monticelli Obizzi cavaliere dell’ordine di Malta; coi sacerdoti della parrocchia — primo fra essi l’infaticabile don Serafino Elli — era presente anche il proposto di San Lorenzo don Rigogliosi; in posto distinto erano le rappresentanze delle istituzioni e dei consorzi parrocchiali che presero poi parte alla processione; squisito fu l’accompagnamento di musica del maestro Chiesa.

Affettuosissimo ed elevato il discorso di circostanza detto dal sac. Angelo Pagnoni, professore nel collegio “Alessandro Manzoni” di Merate. L’oratore fece un parallelo fra la prima messa e la messa di diamante: quella è piena di speranze: questa di ricordi e memorie.

In nome di queste memorie e di questi ricordi egli mandò al festeggiato, a nome del clero e del popolo, il saluto, l’augurio ed il voto cordiale; ne ricordò poi l’opera d’insegnante nel collegio “Manzoni” di Merate; poi quella prestata come coadiutore e prevosto nella chiesa di San Giorgio; rievocando con frase brillante la vita intemerata e inspirata allo zelo più ardente nell’esercizio del pastorale ministero e facendo un accenno alla partecipazione del movimento di libertà e indipendenza della patria quando la voce di Pio IX dal trono pontificio pregò da Dio la benedizione sull’Italia. Chiuse invocando la grazia divina sul clero, sul popolo, sulla parrocchia, e invitando i fedeli, memori dei benefici ricevuti, a pregare per il loro pastore.

La funzione mattutina terminò col canto del Te Deum e la benedizione col Santissimo.

Al banchetto presero pur parte i prevosti Bigatti di Santa Francesca Romana, Santagostino di S. Eustorgio Roveda di S. Sepolcro, mons. Alessandro Bianchi, il cav. Sessa, l’avv. Paleari, i fabbriceri ed altre persone distinte; brindarono don Bigatti con una poesia finemente umoristica augurante al prevosto Diviani di divenir “secolare” — l’avv. Paleari alla splendida figura del sacerdote giunto nell’età attuale con tutto il fervore del candidato e pel quale la messa di diamante significa il fulgore di una luce che nulla nasconde e tutto irraggia; simili sacerdoti son la benedizione dell’Italia — il dottor Mondada dall’accordo dei candidati dei veterani del sacerdozio nell’appoggio della stampa cattolica traendo lieti auspici per l’avvenire di questa — il sac. prof. Pagnoni recando il saluto del rettore del collegio Manzoni, sac. cav. Cazzaniga, ed accennando alla pagina indimenticabile che nella vita di quel collegio don Diviani scrisse.

Commosso, ma rubizzo ed anche faceto, il prevosto rispose a tutti ringraziando di cuore ed ai colleghi in sacerdozio augurando soddisfazioni pari a quelle da lui avute.

Parlarono ancora il sac. Cara assistente a San Sisto, acclamando “ad multos annos” e don Bigatti annunciando le congratulazioni del collegio dei parroci del quale egli è segretario.

Grande fu il numero delle lettere e dei telegrammi di congratulazioni e d’augurio giunti. Fra essi primo il seguente del cardinale Merry del Val, letto dal pulpito dall’oratore del mattino: “Santo Padre coi migliori auguri le invia speciali benedizioni pel 60º anniversario ordinazione sacerdotale”; accenniamo pure specialmente quelli di mons. Bignami arcivescovo di Siracusa, che dal prevosto Diviani ebbe il battesimo, e dell’arciprete Bellesini di Dongo.

La sera alle 20, ai vesperi ed alla processione solenne con Te Deum e benedizione del SS. intervenne Sua Eminenza il cardinale arcivescovo che volle personalmente porgere le più affettuose felicitazioni: e dal pulpito, prima della processione, rivolse ai fedeli parole fervide sul significato della festa: festa di Cristo, festa del sacerdote e festa della popolazione fedele.

Un viaggio botanico

sui monti di Kai-Chan

Agosto-Settembre 1909.

Alle travi sono pure legate due piccole lettighe di carta per servizio di questi Dei quando si recano a fare il vento, il lampo, il tuono ecc. dove loro piaccia. Più che il sinedrio di questo pagodino che, con poche varianti, è il medesimo di tutti i piccoli miao di campagna, mi feriscono due iscrizioni che non ho letto fino ad ora in nessun altro luogo.

Le iscrizioni sono impastate alle due pareti. Quella di destra dice:

Wen Koan Sia Kiao

(Civili mandarini scendano (di) lettiga)

e quell’opposta:

Ou koan sia ma

(militari mandarini scendano (da) cavallo)

Come si vede gli dei di montagna hanno delle pretese maggiori di quelli di città; ma del resto le loro esigenze si restringono anche qui dentro i limiti del possibile. Prima, infatti, che un cavallo, purchè non risusciti il caval pegaseo, e una lettiga facciano capolino quassù, dovrà passare ancora molta acqua sotto i ponti! [p. 181 modifica]

Dopo il miao passiamo a vedere la sorgente dell’Ien-ho. Questo fiume dalle «chiare, fresche e dolci acque» e che è stato il nostro buon compagno per tutta la via, rallegrandoci con più di uno scherzo innocente che ci ha fatto, ha saputo interessare il mio affetto e godo nel vedere la sua culla scavata nel vivo macigno. Fin dal suo nascere egli si getta rumoroso giù per una scogliera di cui le molte piante rampicanti ci nascondono la profondità, e, come un principe nato ora, ci fa vedere che sarà qualche cosa di più dei suoi umili compagni di infanzia.

Il Ien-ho è infatti la benedizione di tutti i luoghi che irriga, è la ricchezza agricola di Nan-tchang; e per oltre 100 km. accoglie sulle sue acque ospitali una squadra numerosa di grossi e piccoli battelli a vela che portano i prodotti di queste montagne fino a Han-Kow e a Chang-hai.

Sopra la sorgente dell’Ien-ho a 30 metri di salita è una grotta detta Na-Iaa-tong. Vi si sale per una scalinata naturale fatta di picchi di macigno o meglio di sporgenze di uno stesso macigno. Però nei luoghi più lisci e più pericolosi la mano dell’uomo è venuta in aiuto alla natura praticando collo scalpello delle piccole incavature e dei fiori per posarvi il piede e per appigliarvisi colla mano. Dei miei alcuni non osano salire lassù, altri si arrampicano di scoglio in scoglio e io dietro loro.

Credo che l’ultimo canto dell’Inferno dantesco non abbia mai avuto un commento più vivo e naturale di questo, e salendo mi viene quasi la tentazioncella di essere in quel momento un altro babbo Dante in persona. Anch’io sono vestito per mia disgrazia di cappa; e anche a me la guida, che è già salita di ronchione in ronchione lassù colla agilità di una scimmia, accennando una scheggia del sasso ripete su per giù come il buon Virgilio:

          .... Sovra quella poi t’aggrappa
ma tenta pria se è tal ch’ella ti reggia.

A dir la verità qualche differenza fra me e... Dante c’era; ma quando mai due persone si somigliano interamente tra loro?

La grotta è orizzontale e lunga, dicono, un centinaio di metri ma io non osai entrar dentro che circa 10 per mancanza di lume, e anche per non avere qualche ceffone dai molti e terribili pipistrelli che l’abitano. La bocca dell’apertura è quasi rotonda e misura un diametro di oltre 8 metri. In tempi di sommosse e di disordini civili questo antro serve di locum refugii per tutta la gente di questa e delle altre vallate vicine, e dobbiamo confessare che la scelta non è sbagliata. Per questo fine dentro la grotta vi sono dei grossi travi che servono per barricare la porta. Come abbiano fatto a tirarli lassù non si sà: e non lo sa dire neppure la mia guida. Quando egli vi salì la prima volta un 30 anni fa ve li trovò già tarlati, e la gente diceva che erano là da oltre mezzo secolo.

Interrogo la guida se a tempo suo i rivoltosi siano mai apparsi in queste parti, ed egli mi risponde con una certa ironia: «ma che cosa dovrebbero venire a far

qui se neppure i cinghiali e i camosci ci trovano da mangiare?»

10 Settembre. — Dò un giorno di riposo ai miei uomini anche per sistemare bene le molte piante trovate ci prepariamo nuovamente per la gita di domani che sarà l’ultima.

11 Settembre. — Ci alziamo per tempissimo e con una guida intraprendiamo l’ascensione e l’erborizzazione dell’Eul-fen-tin monte al Sud-Est di Kai-chan.

Eul-fen-tin vuol dire: punta dei 2 centimetri e si chiama così perchè, dicono, al tempo del diluvio universale — si sa bene che l’idea di un tal cataclisma è generale in Cina — quel monte arrivò a sfidare le acque restò col capo fuori di esse due fen1.

Questo nuovo Briareo dell’ira divina è perciò alto la sua parte, e prima di partire io volli salirgli in capo, anche perchè mi si diceva che di lassù si arriva a scorgere talvolta il Han-Kiang e la mia cara Siang-Iang. La cima dell’Eul-fen-tin non si può scorgere dal basso perchè nascosta dietro altre punte, ma conosciamo la sua direzione, e però non ci potrà sfuggire.

In Cina io non ho potuto vedere ancora una strada a garbo, ma in compenso se ci si contenti di viottoli forse non vi è paese dove abbondino come qui. Su per uno di questi viottoli cominciamo l’ascensione. Però ora l’uno ora l’altro sparisce dentro la macchia folta attirato da qualche novità, e una volta ci sperdiamo tutti affatto senza poterci far sentire per quanto si gridi a squarciagola. Qui ci vorrebbe il corno di Orlando! Mentre anch’io fo delle due mani uno strumento acustico per chiamare la compagnia, mi risponde con uno slancio un bel daino. Del resto nessun indizio di viventi. Il peggio si è che dopo di aver camminato più chilometri tra frasche e cespugli ho perso affatto la bussola e temo anche di essermi allontanato dalla cima del monte. Mi conforta però il pensiero che non ho fatto fino ad ora nessun passo a scesa, o, come direbbe il nostro poeta: fino ad ora «il piè’ fermo è stato sepipre il più basso» e perciò alla peggiore delle supposizioni mi sarò solo avvicinato a qualche cima fuori programma, e sarà facile ritornare sulle traccie dell’Eul-fen-tin.

Quando siamo nuovamente assieme facciamo un piccolo spuntino a... pane azzimo e acqua fresca perchè non abbiamo altro con noi.

La solita storiella che lassù avremmo trovato di che sfamarci, se non altro a patate, in qualche famiglia, ci ha gabbato un’altra volta!

A 1250 m. comincia la regione delle felci. Oltre la felce comune, ve ne troviamo un’altra specie che ama vivere solitaria e sterile, ma in compenso è di un colore verde bellissimo e di una grandezza e grossezza non comuni.

Di questa specie, che vedrà preparata tra le altre piante, le ho mandato una buona quantità di radici e spero che la nostalgia della patria non le ucciderà un’altra volta per via.

(Continua).

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Per l’Asilo Convitto Infantile dei Ciechi


SOCI AZIONISTI.

Somma retro L. 108192 20

Contessa Luisa Casati |||
   » 5 ―
Conte Alessandro Casati |||
   » 5 ―
Signora Adele Rondoni |||
   » 5 ―
Contessa Carla Visconti |||
   » 10 ―
Duchessa Ida Visconti |||
   » 5 ―
» Marianna Visconti |||
   » 5 ―
Donna Flulvia Venturi Resta |||
   » 5 ―
Sig. Astori Macabrini |||
   » 5 ―
» Onar Dolfus e consorte |||
   » 100 ―
Signora Carolina Vanotti |||
   » 5 ―
» Giuditta Signori |||
   » 5 ―
Donna Giuseppina Buttafava |||
   » 5 ―
Signora Emilia Longhi |||
   » 5 ―
» Gina Stucchi |||
   » 5 ―
» Teresa Pigni |||
   » 5 ―
Signorina Maria Pigni |||
   » 2 ―


Totale L. 108369 20

Note

  1. Il fen è un sottomultiplo del tzen, che alla sua volta è sottomultiplo del tce, il metro cinese che equivale a metri 0,35. I multipli poi e i sottomultipli sono decimali così qui come da noi.