Il buon cuore - Anno IX, n. 40 - 1º ottobre 1910/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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COME SI MANGIAVA


Il duca d’Avenel, nella Revues des deux mondes, pubblica un interessante studio sul come si mangiava nei tempi andati e riferisce, fra le altre le seguenti notizie:

I signori del 1500 somigliavano più ai barbari galli dell’epoca romana che ai francesi del secolo XIX. Sotto Luigi XII i commensali usavano mangiare tutti nello stesso piatto, uso che vige ancora fra i nostri contadini, e bere ad un unico boccale.

Soltanto fra la gente di alto bordo si usava un piatto ed un boccale per ogni due persone, il che, però, non impediva a chi lo avesse voluto, di metter la mano nel piatto centrale. Le forchette vennero in uso solo nel 1690. Prima le regole di buona creanza si limitavano a raccomandarsi di prendere i cibi con sole tre dita senza affondarle troppo entro la salsa.

Nei castelli si annunziava il pranzo dando a suon di corno il cosidetto segnale dell’acqua, tutti andavano a lavarsi le mani ed un galateo del tempo prescriveva che bisognava lavarsi le mani gli uni in presenza degli altri anche quando non se ne sentiva la necessità, affinchè tutti fossero sicuri che le mani che si mettevano nel piatto erano pulite.

Nel medioevo i gentiluomini e le dame, stando a mensa si sbarazzavano degli avanzi di carne delle ossa e delle bucce di frutta, buttandole dietro le spalle. Un galateo italiano del 1544 stabiliva che non è bene grattarsi quando si sta a tavola; inoltre bisognava astenersi il più possibile dallo sputare e, «quando non possa farsene a meno, si sputi con una certa delicatezza».

È noto che fin sotto Luigi XIV, negli appartamenti si sputava per terra senza alcun riguardo. Un regolamento del 1642, in vigore nell’Alsazia fra gli obblighi dei cadetti e degli ufficiali invitati a pranzo da un arciduca, enumera quelli di «presentare i loro omaggi a sua altezza con bel garbo: non giungere al palazzo mezzo ubriachi, non gettare le ossa sotto la tavola: non sputare dentro il piatto, ne soffiarsi il naso con la tovaglia: non sborniarsi tanto bestialmente da cader dalla sedia!!...».

Ed il d’Avenel, sempre nella Revue des deux mondes continua riportando alcune cifre da un libro di conti appartenente alla famiglia di un medico che viveva a Parigi 260 anni fa. Da quelle cifre risulta, per esempio, che il prezzo delle vivande di lusso era quasi eguale a quello dei nostri tempi.

Nella casa del duca di Candale (1650) composta di 50 persone, si spendevano per vitto, riscaldamento e luce, 540 lire al giorno, cioè 11 lire a testa: ma si mangiava poco e male. Il conte di Ribeaupierre, nel suo possedimento d’Alsazia nutriva i suoi ospiti, ch’erano 85, con una spesa quotidiana di L. 2.50 per ciascuno: ma il consumo della carne non era che di 250 grammi e [p. 316 modifica] si usavano meno di 5 kg. di burro al giorno per 85 persone.

Nelle famiglie borghesi si faceva colazione con un biscotto da 15 centesimi o con un pane pepato d’ugual valore. Per il popolo, poi, cavoli bolliti erano cibo bastevole perchè ne poteva e ne aveva a soddisfazione; ma dopo il rincaro dei viveri, verificatosi nel secolo XVI anche la quantità fu ristretta. La gran massa di cittadini non conosceva i progressi d’una cucina privilegiata, i cui elementi principali erano inaccessibili alla sua borsa.

Ma la storia ricorda con simili pasti certo frugali, lussi e grandezze gastronomiche nell’età di mezzo, che trovano solo riscontro nei pasti pantagruelici e nelle orgie del ventre in uso presso i romani. Cosimo III, con inaudita profusione da varie provincie e perfino dall’Egitto e dall’America, fece venire persone addette al servizio di Corte, con Io scopo di poter radunare tutto ciò che di rado e di squisito esisteva a quei tempi. Nè badò a spesa per avere a Firenze i più ricercati prodotti di qualsiasi parte del mondo. La sua mensa destava l’ammirazione e lo stupore dei convitati. Si diceva amico dell’astinenza, ed affinchè i sudditi la praticassero, li teneva nella miseria: ma egli mangiava così strabocchevolmente che si pesavano alla sua presenza i capponi e come non erano di 20 libbre il paio (circa 7 kg.) non erano per la sua bocca. Per lui, afferma un cronista dell’epoca, si allevavano tutte le alt:e specie di animali, sì domestici che selvatici, di straordinaria qualità e si manipolavano dolci e liquori dei più squisiti. Tutte le rarità volle gustare; fu consigliato, per dimagrare, a prendere alcune medicine ma gliene venne un tal male che stette per perdere tutte e due le gambe.

Alle spese pazze per la cucina bisogna aggiungere le profusioni di denaro, per la smania di apparire uno dei più ricchi e generosi principi viventi ed in verità con Cosimo III, corse la voce che a Firenze si guazzasse nell’oro e la Toscana fosse il più ricco stato di Europa. Ma come era falsa quella credenza! La Toscana era esausta e dissanguata ed il popolo detestava il suo principe il quale, caduto ammalato, mandò ai dilettissimi sudditi il suo ultimo bando che aumentava le tasse di un altro cinque per cento.

IL RE DEGLI ANIMALI


Qualcuno asserisce che sia il leone, il quale tutt’al più può essere l’«animale re»: i più pensano che il titolo di re degli animali spetta invece all’uomo che li domina e li asservisce. E, se ciò è vero, a chi meglio che ad altri spetta tal titolo, se non a Carlo Hagenbeck, il domatore di fama mondiale, creatore del grande parco di Stellinger presso Amburgo, e iniziatore del parco che si sta formando a Roma a Villa Borghese?

Carlo Hagenbeck è nato tra le belve: in sessantasei anni ha visto circa mezzo milione di belve: e non ha mai avuto paura: egli stesso narra che il momento più terrorizzante della sua vita fu quando un expres a tutta velocità lo sfiorò appena e gli fece sentire il brivido

della morte vicina. Tutto il suo segreto di domatore sta, secondo lui, in questo: che egli si guarda bene dallo spaventare le belve: lo scudiscio, i colpi di rivoltella, i cerchi di fuoco, le urla, le punzecchiature, sono bandite dal suo sistema educativo: e i risultati, non c’è a negarlo, sono stati eccellenti.

L’Hagenbeck asserisce che le bestie non gli sembran feroci. Gli uomini — egli afferma — mi hanno fatto del male, le bestie mai. Ed egli si guarda bene dallo stuzzicare le belve, che tratta invece amorevolmente, e doma senza mai usare scudiscio.

Per verità occorre dire che dal suo fisico emana come uno strano fascino: in Inghilterra lo hanno paragonato a Kruger, e in America a Lincoln per le fattezze del volto, ma egli ha di suo quell’insieme di qualità che ne fanno il primo domatore del mondo; ne è persuaso egli stesso e se ne compiace quando nella sua vigoria robusta di uomo quasi sessantenne, vibra dagli occhi la luce strana di un fascinatore. Il gesto imperioso, lo scatto elastico di tutto il corpo, lo sguardo invincibile, la bocca che par fatta per mordere, caratterizzano l’uomo: i denti bianchissimi e robustissimi, la bocca rasa, la barbetta bianca che gli corona il volto dalle tempia fin giù al mento, i capelli grigi, lisci, ben pettinati fin dietro la nuca ne completano il fisico.

La carriera dell’Hagenbeck incominciò quand’egli ancor giovanissimo incominciò a coadiuvare il padre nel commercio delle fiere: a ventun’anni egli poteva vantare esperienza matura nell’educaione e nel commercio delle belve. La casa Hagenbeck riforniva da Amburgo parecchi giardini zoologici e così Hagenbeck intraprese frequenti viaggi nel Sudan per procurarsi la preziosa e pericolosa merce.

Mai l’Hagenbeck partecipò a cacce di bestie feroci: egli per principio non uccide belve, ed anzi ama dar loro tutto il benessere compatibile collo stato di schiavitù in cui devono trovarsi a servizio dell’uomo. E queste idee gli hanno valso una fortuna. A ventun’anni il padre suo gli aveva affidato la sua sostanza, 30,000 marchi, dicendogli: — Fanne buon uso, perchè, se perderai questo denaro, dovrai fare il domatore. Tre anni dopo l’Hagenbeck possedeva già un milione. Infatti la vista degli animali in libertà gli aveva dato l’idea del gran parco degli animali che egli creò a Stellingen presso Amburgo e che è una vera specialità della Germania. Il parco in cui gli animali vivono allo stato libero misurava nel 1907 quattordici ettari di terreno, ed ospitava duemila animali d’ogni sorta: aveva un milione di visitatore all’anno e valeva su per giù dieci milioni di marchi.

Ciò non toglie che il ricco proprietario non abbia voluto rinunciare alla innata passione per le belve: egli fu e rimase domatore fino al giorno in cui gli giunse, intempestivo, un divieto della moglie. Una tigre, dolcissima come le altre, al dire dell’Hagenbeck, era maltrattata da un custode, ribelle al sistema d’amore inaugurato dall’Hagenbeck. Un giorno la belva si rivoltò al custode, e lo assalì; accorse l’Hagenbeck che riuscì a salvare il custode, ma ricevette una zampata sul capo che gli lasciò quattro cicatrici. Dopo quel giorno la [p. 317 modifica] signora Hagenbeck impose i suoi diritti... al re degli animali e Hagenbeck non potè più entrare nelle gabbie.

Nelle gabbie: dico male, perchè l’Hagenbeck ha abolito per quanto è possibile le gabbie. A Stellingen c’è libertà di movimento, abbondanza di luce, di spazio, di aria: non basta, ma si è cercato con ogni mezzo di offrire agli animali l’illusione della loro terra: rocce, tane per i leoni e le tigri; pantani per gli elefanti e i rinoceronti, e via via: per gli animali abituati a climi eccezionali vi sono ambienti con temperature adatte. Apparentemente gli animali vivono come nell’eden in una sola famiglia, in un paesaggio esotico e pittoresco: ma ogni gruppo di razza diversa è divisa da un corso di acqua largo tanto da impedire alle fiere di saltare dall’altra parte. Così le bestie possono vedersi, sentirsi: ma non possono toccarsi, e men che meno darsi reciprocamente la caccia. Così la loro vita, svanito ogni pericolo di caccia, e tolta ogni preoccupazione del cibo — l’Hagenbeck procura ai suoi fortunati ospiti zucchero, carne di bue, di cavallo e perfino di pollo — passa nel modo più tranquillo e piacevole, talchè non è raro il caso che nonostante la differenza di clima le varie specie si riproducano, ciò che invece non avviene quasi mai nelle condizioni a cui per solito si assoggettano le belve.

L’Hagenbeck offre poi alle sue belve, e a coloro che le visitano un concerto quotidiano: e convien dire che le bestie ascoltan la musica con maggior reverenza che non gli uomini: stanno zitte ed immobili, non sorbiscono il caffè, non giuocano, non scherzano. Tra un numero e l’altro ricevono visite; le signore, i bambini si aggirano intorno a loro e le ammirano ed esse si lasciano ammirare, come meglio loro talenta.

Ma ora l’Hagenbeck compirà il suo sogno colla formazione di un altro «paradiso», a Roma. Il bel cielo di Roma lo ha sedotto come una dimora deliziosa anche per le belve e specialmente per talune specie che ad Amburgo prosperano difficilmente. Così spenderà qui un milioncino per fare in una parte della villa Borghese espressamente adattata, un parco più piccolo di quello di Stellingen ma forse più bello. Quello infatti servirà pel commercio, questo esclusivamente per lo studio. Ed i lavori sono già avanzati, talchè si spera di aprire il parco quanto prima.

Il parco sorgerà precisamente ai Parioli, all’estremo limite di villa Borghese, e poco lontano da villa Cartoni dove avrà luogo l’Esposizione di belle arti. Già si delineano le varie costruzioni e si vedono accennati gli sviluppi dei viali che si snoderanno tra le aiuole.

Il viale principale superato l’ingresso, pregevole opera architettonica dell’ing. Barluzzi, lascia a dritta gli uffici della direzione in una casina di stile svizzero: poi trova subito le abitazioni dei pachidermi coronate da un parco che sarà arricchito di lussureggiante vegetazione. Subito dopo una gialla catasta di travi che forma l’ornanatura di una costruzione in cemento armato ci fa vedere come si costruisca una montagna artificiale per gli stambecchi. Di là dalla montagna di cemento armato si apre una valle — vera questa e non artificiale — poi troviamo ancora rocce per gli orsi neri, e poi un

lago dove starnazzeranno gli uccelli acquatici: cigni, pellicani, fenicotteri, cicogne d’ogni razza e d’ogni specie.

E qui avremo il riparto per il pubblico presentato esso pure in libertà come una belva qualsiasi in uno spiazzo a giardino e a bosco al quale si accede da vaste scale e che comprende un ristorante, dalle terrazze del quale si potrà agevolmente dominare tutto il mondo degli animali.

Di là del ristorante sarà il covo dei rettili, con grotte riscaldate a termosifone, e la casa dei canguri contornata da vegetazione tropicale.

Gli animali arriveranno quanto prima e poichè sommano a ben novecento saranno trasportati con tre treni speciali: pel 1911 poi l’Hagenbeck ha intenzione di presentare cento orsi bianchi ed altrettanti leoni in libertà. E ciò senza dire di cento altre curiosità che si annunciano già fin da ora. Per esempio si sa che non sarà questo soltanto un luogo di delizie per gli animali, ma che si cercherà per quanto è possibile di portarvi con criteri scientifici la flora corrispondente al luogo d’origine di ogni specie di animali, indicando con speciali targhe il nome scientifico e la provenienza di ogni specie.

Certamente all’originale e coraggioso tentativo dell’Hagenbeèk di trapiantare in Italia una propaggine della sua industria di fama mondiale non si può che augurare il miglior successo.

Guido Arosio.

Il Prefetto di Torino all’Esposizione salesiana


Mentre le giurie, elette fra le più distinte personalità delle varie professioni, stanno attivamente lavorando per l’assegnazione dei premi agli espositori della grandiosa e riuscitissima mostra internazionale delle scuole professionali ed agricole salesiane, le visite autorevoli si susseguono. Oggi si è voluto recare a visitare l’Esposizione il nostro prefetto, commendator nobile Jacopo Vittorelli, accompagnato dalla consorte nobildonna Casalini Vittorelli. I due illustri visitatori furbno accolti all’ingresso dal rettor maggiore D. Paolo Albera, dal direttore generale delle scuole professionali D. Bertello, dal direttore dell’Oratorio Salesiano D. Secondo Marchisio i quali lo accompagnarono nella visita.

Il prefetto fu veramente ammirato della grandiosa mostra e, dopo essersi congratulato col rev. D. Albera per l’alta carica alla quale lo chiamò la fiducia dei suoi confratelli, e dopo aver sentite con interesse le istruzioni di D. Bertello sui criteri didattici con cui fu ordinata l’esposizione, espresse la sua profonda ammirazione pel felice esito della nobile iniziativa e pel nuovo indirizzo teorico pratico, manifestando poi il desiderio di visitare al più presto, appena tornati i giovani dalle vacanze, le scuole professionali dell’Oratorio, in azione. All’uscita dall’Istituto il perfetto, venne festeggiato dai giovani presenti, schierati:in due file,!mentre la banda interna suonava la marcia reale.

Alla metà di ottobre avrà luogo la premiazione; per essa il Municipio nostro diede una grande medaglia d’oro e due d’argento, la Camera di commercio diede una medaglia d’oro e una d’argento, il comizio agrario due medaglie d’argento, la Pro Torino cinque medaglie d’argento, vermeil e bronzo. [p. 318 modifica]

«LA DANTE ALIGHIERI»

VARATA IL 20 SETTEM. 1910 A CASTELL AMARE DI STABIA


SONETTO.


Nel nome tuo, divino Dante, in mare
Ecco la grande nave scende ardita,
bella, e forte e maestosa appare
Tutta fremente di gagliarda vita.


Italia segue il suo fatale andare
Lontani mari e nuovi porti addita:
Possan le genti il nome tuo laudare,
Memori ovunque di tua gloria avita.


Nave, sul tuo cammino l’onde in fronte
Sempre s’infiorin di radiose glorie
sempre sien le tue battaglie sante


de’ tuoi fasti sacre le memorie.
E poi, nel nome tutelar di Dante,
Cantino i figli nostri le vittorie.

V. Gobbi.