Il buon cuore - Anno X, n. 01 - 1º gennaio 1911/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno X, n. 01 - 1º gennaio 1911 Religione

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Ricordi briganteschi

..... Oh come grato occorre
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!!
PP
ono tanti anni ch’io capitai fra Briganti! Chi più se ne ricorda? Ora si va, si viene, allegri, spensierati, sicuri; ma allora, 1864, a due passi dall’uscio di casa, si risicava di cascare in bocca al lupo. Studiavo alla R. Università di Napoli: la sera del 10 di gennaio 1864 con alcuni amici ero stato a S. Carlo, deliziandomi della musica del Verdi, il Trovatore, e il giorno appresso facevo una scappatella al paese natìo, Montecorvino Pugliano. Zufolavo e canticchiavo le ariette della sera avanti, proprio quella — Ai nostri monti ritorneremo — quando ad una curva della carrozzabile, che taglia il bosco comunale, in sulle 4 pom. sbucano dai cespugli cinque brutti ceffi con lo armi spianate, gridando: — Fermi! Faccia a terra! — In sulle prime pensai fosse uno Scherzo di qualche capo ameno. A quell’ora, non buia ancora; con tanta gente che tornava dal lavoro e circondava la carrozza; in quel posto, sì vicino a due borgate, Fuiano e S. Tecla, e quando nessun indizio o sospetto aveva mai fatto paurosa quella via, io, da tutte queste fallaci ragioni reso sicuro, non mi scossi, nè mi turbai.

Era con me il dr. cav. Luigi Calabritto, e smontati che fummo, costretti ci mettemmo pel bosco non segnato d’alcun sentiero. Io, il Calabritto, un tal Verzola, il vetturino e i cinque briganti formavamo la triste compagnia, incespicando fra’ roveti, gli sterpi e i mali passi, sì che avevan dovuto i signori briganti scioglier le mani al mio povero compagno di cattura. A me più giovane, non le avevano affunate le mani!

In tasca avevo cinque piastre d’argento, 25 lire e poco più, e pensavo che le lor bramose canne s’accontentassero del magro pasto e mi rimandassero all’Università. Poi pensavo che avrei avuto pronto soccorso e sarei stato liberato dai paesani, essendo facile seguir le nostre tracce con tanta gente, che vedeva la direzione del cammino, e vicinissimi essendo i paesi. E per agevolar la cosa, io, come cominciò ad annottare, certi giornali e carte che avevo, le riducevo in brandellini e ne seminavo la via, come per metter sulla pista gli sperati liberatori, quasi che il buio, che celava ai briganti la mia piccola astuzia, dovesse schiarirla e farla nota ai nostri!

Ma o la novità del caso, o l’audacia del colpo, o la paura, che non ragiona e fa fuggir l’animo e la mente, stordiron di maniera quella turba di spettatori, che non solo nessuno si mosse, il che, forse, sarebbe stato pretender troppo, ma nemmeno volsero gli occhi sui nostri passi, volando ognuno a tapparsi in casa, senz’affrettarsi a dar la notizia dolorosa alle nostre povere famiglie. Quando poi lo seppero, verso le 7 pom., si era in tempo ancora; ma, come suole accadere in tali casi inopinati e strani, divampando gli sdegni, crescendo le chiacchiere e i pareri, e chi di qua, chi di là sbuffando e bravando, trascorre inutilmente il tempo e scappa l’occasione; così tutto il bollor degli animi e le epiche gradassate finirono in terribili invettive e in rumorose schioppettate di parole, che non bucano la pelle a nessuno. E noi intanto si andava come la serpe all’incanto con gli orecchi tesi, gli occhi sbircianti nell’oscurità, gli animi alti e sollevati dalla speranza.

Taciti, l’un dietro l’altro per lo stretto e duro colle, passato il Picentino su di sottil trave, che dava il capogiro col pericolo di un tuffo nell’acqua, fummo di là, sulla destra sponda, pigliando la via maestra, che mena al Mercato di Giffoni: Due briganti in testa, due ai lati, uno in coda, senza vedere nè incontrare anima [p. 2 modifica]viva. Poi svoltammo a destra, dirizzandoci verso Gauro, borgatella di Montecorvino Rosella.

Gaurico era, non già Pomponio o Luca, i celebri scienziati del Sec. XVI, ma il Cirino, capoccia della masnada, che scorrazzava e faceva le sue prodezze nei nostri dintorni: di Gauro egli era nativo, e lì aveva i suoi. Onde in que’ pressi, sbrancatosi un momento, che noi riposavamo il corpo lasso, ne tornò con vino, pane companatico. Era sulla mezzanotte e ristoratici in buon punto, per sostener la guerra del cammino, cominciammo su per una balza indiavolata e maledetta aiutandoci colle mani per arrampicarci a guadagnar la faticosa erta. Potevan esser le due dopo mezzanotte, quando fummo sullo scrimolo, dove un’ampia e spaziosa grotta entra nel sasso. Ci gettammo lì come morti, ed anche l’animo era caduto, e illanguidita la speranza di soccorso; svanita del tutto, no; si era sempre tra paesi e vicini all’abitato. Dormimmo per stanchezza, e in sull’albeggiare del nuovo giorno, fosco per nevischio e mesto per pallido sole, rinverdì un po’ di speranza; dacchè un cacciatore s’era spinto fin lassù per beccacce, mancò poco che il cane non annusasse e scoprisse il nostro covo. Come allibivano i briganti! e non vedevano che un tranquillo cacciatore! Che eroi! — Perduta quest’altra speranza, tutto il giorno stemmo lì a rodere il freno, ed almanaccar sulla nostra sorte, fino all’imbrunir della sera, quando il Verzola fu lasciato libero, e per noi cominciavano nuovi tormenti ed affanni. Così il primo giorno, e furono trentasette!

Prof. G. Olivieri.


Per l’Autrice di Profilo Femminile

del Buon Cuore di Natale.


«....Vivi, lotta, soffri con forza e spera! Ama tutti quelli che piangono e sono incompresi e ti stendono le mani, invocandoti col dolce nome di fratello.»

A chi ha scritto, in una pagina luminosa, queste sante parole, l’omaggio di un’altra pagina, che, al suo appello, risponde: il saluto di un ignoto, che va, per altre vie, con la stessa bandiera e per la stessa fede.

Natale del 1910.

Il conte Lao.


L’ARTICOLO DI NATALE

Il giornalismo — e chi non lo sa? — è una missione una professione, una tribuna ed una praticaccia, una nobile arena ed un campo di insidie; un’arte, in cui occorre possedere, non solo della fantasia, per lanciare dardi contro il sole, ma, anche dei muscoli di acciaio, per menar botte da orbi.

Tuttavia, traverso le asprezze, senza quartiere e senza pietà, della quotidiana battaglia, vive, fra i giornalisti, e nei rapporti fra il giornale ed il pubblico, una tradizione di solidarietà, cordiale, affettuosa, gentile, che appare, all’osservatore superficiale, un po’ strana, fra uomini, i quali si combattono ogni giorno, e non sempre con la inguantata cavalleria delle armi cortesi.

Vive, questa tradizione, chissà come, fra le punte della ironia, fra i ciottoli della contumelia, accanto al gelo di uno scetticismo, che è ineluttabile per le cose umane, a quel modo che il fiore delle alpi vive, chissà come, fra gli abissi e gli aspri dirupi, nella solitudine, accanto ai ghiacci eterni e alla immensa neve.

È una specie di zona neutra, di Croce rossa, nella vasta battaglia delle idee e degli uomini; e, spesso, nelle occasioni della vita quotidiana — sempre, in qualche ora bella della vita, che abbia la benedetta virtù di riunire gli animi — il giornalista dimette l’armatura, che sa i colpi aspri ed iniqui, dimette i colori della sua donna, la politica (la quale, come la donna, in genere, ha, sulla coscienza, un gran numero di spropositi, commessi.... dagli uomini) e stringe cavallerescamente la mano al giornalista avversario, per cooperare, con lui in un pensiero comune e ad un intento comune.

Una di queste occasioni è il Natale. Sarà, forse, un fenomeno di autosuggestione: certo è, però, che, aprendo il numero di Natale, si ha la impressione di un giornale diverso — nel colore, nel tono, in qualche cosa di inafferrabile, ma di reale — da quello che è il giornale degli altri giorni.

Forse, il colore attenuato dei titoli, forse, il contenuto degli articoli, scelti con intendimenti sopraffini di conciliazione, forse, una sapiente distribuzione delle notizie, che è fatta apposta per relegare nella oscurità quelle che sono destinate ad accendere le emozioni e le passioni, e per mettere in luce le altre, destinate a far piacere a tutti; tutto questo insomma, costituisce un processo di non so quale chimica psicologica, che distilla, diluisce, trasforma, l’acido della passione politica, nell’aroma di un liquore, dolce e forte, quale si ricava da certe erbe selvaggie, che, rischiarando il cervello, exchilarat cor.

È per questo che, nello articolo di Natale, lo impetuoso e fegatoso redattore del più atrabiliare giornalucolo anarcoide, diviene meno fegatoso, meno atrabiliare del solito, e lascia trasparire, traverso la sua prosa d’occasione, in più mansueto spirito, una ferocia meno cannibale contro il governo, un certo vago idealismo: ed ecco in qual modo, l’articolo di Natale trasforma il terribile redattore, frequente ad ogni comizio, e urlante contro ogni avversario, in un quid medium fra il giovane di parrucchiere istruito ed il discepolo di Hegel, che, non senza pena, discende, dalla origine delle idee, a questo basso mondo, male rischiarato dalla luce elettrica, e peggio governato dai clerico-moderati.

Per questo, io stesso, che ho l’onore di parlare, in questo momento, a chi mi legge (se pure ne troverò uno). sento, in questi giorni, la tentazione, che avrebbe spinto il vecchio e santo prete del Malombra a gettare le braccia al collo ad un vecchio miscredente, non per rinnegare la fede, ma per servire la carità.

Per questo, noi, che abbiamo, qualche volta, assalito altrui, con una acredine che era — forse — sulla punta della penna, che non era — certo! — nel fondo del cuore, sentiamo il bisogno di dire, a quelli stessi, che [p. 3 modifica]furono bersaglio dei nostri colpi — sentiamo il bisogno di dire ai nostri più accaniti nemici, personali e politici: qua la mano: Dimentichiamo — almeno, per un’ora — il dissenso e la lotta, come gli esploratori del polo, diversi di nazione, dimenticano, nelle solitudini ghiacciate, i colori della loro bandiera e si stringono la mano. Dimentichiamolo, sopratutto, in memoria del Giusto, che spirando, il primo anelito, ha portato, al mondo, il più grande grido d’amore — che, spirando l’ultimo cordoglio, vi ha lasciato il più grande anelito di giustizia e di pietà.

Perchè sentiamo, in cuore, questo bisogno di pace, che è gonfio di emozione, e quasi di pianto? Oh! il perchè è facile, troppo facile: perchè la vita è breve, perchè la terra è piena di fiori e di lagrime, perchè l’amore è grande e l’odio è infecondo, perchè, se ci occorrono per la vita, il pane e il tetto, siamo assetati — sempre più assettati — di ideale.

Narra una leggenda araba, che un pellegrino del deserto, oppresso dalla stanchezza e dalla sete, vide, a un certo punto, tremolare sulla sabbia infuocata, un che di lucente, e ne provò un sussulto di gioia, pensando che fosse, quel bagliore, il gorgoglio di una sorgente, in cui spegnere l’ardentissima sete: si avvicinò, con gioia: ma, ad un tratto, la gioia si mutò in tristezza, il desiderio in terrore: l’arabo levò le mani al cielo, desolatamente: non era una vena d’acqua, quella. Era una perla!

Così è la vita: anche la vita più blandita dagli agi e dalla felicità esteriore, senza il sorriso dell’ideale: essa è un deserto, in cui può trovarsi la perla — e solo per pochi privilegiati ma non, il ristoro materno della sorgente che conforta alle battaglie, non il balsamo che lenisce le tante ferite.

La vita senza ideale, è — per rubare una imagine deliziosa al Coppèe — un focolare a cui manchino il sorriso e i capelli biondi della giovane sposa — il sorriso ed i capelli d’argento della vecchia madre: è un diadema di gloria, a cui manchi un sorriso d’amore, sia pure lontano: fiorisca pure, come dice il poeta straniero, «chi sa con quale splendore strano nel mondo promesso, che occhio mortale non vide.»

L’articolo di Natale mi ha portato lontano, forse, troppo lontano: io non ho saputo, forse, sottrarmi, alla nostalgia dei lontani inverni, evocata, qualche giorno fa, con tanta suggestiva malia di parola, dal Giorgeri-Contri, sulle colonne del Momento.

Mi consola, peraltro, il riflesso che il mio articolo è riuscito, esso stesso, una prova del mio assunto: il Natale ha compiuto un-miracolo: il conte Lao ha dimenticato di essere beffardo, per essere solo sentimentale.

Concedi quindi, o amico che leggi, alla sua piccola voce, che ha tentato molte corde, di morire, contenta di sè, nel silenzio: ma non senza che ti giunga, o lettore ignoto, il saluto augurale di questo ignoto, che ti parla e ti guarda.

Il conte Lao.


LA PALMA D’EGITTO



Lontano, in un deserto dell’Oriente cresceva da molti e molti anni una palma; era divenuta alta e assai vecchia.

Tutti coloro che attraversavano il deserto, si fermavano ad osservarla: superava in altezza tutte le altre palme, e si soleva dire che avrebbe sorpassato gli obelischi e le piramidi.

Un giorno, mentre la gran palma se ne stava solitaria guardando dinanzi, vide qualcosa che fece scuotere dallo stupore il suo diadema di foglie. Dall’estremo limite del deserto venivano due persone. Viste di lontano, sul cammello parevano due formiche, ma in realtà erano persone. Anzi la palma che ben conosceva i viaggiatori del deserto, riconobbe nei due pellegrini un uomo e una donna privi di guide, di animali da soma, di tende e di otri con acqua.

«In verità questi due son venuti qui per morire» pensò la palma, e gettò rapide occhiate attorno a sè.

«Mi meraviglio» seguitò «che i leoni non siano già al loro posto per dar caccia a questa preda. Non ne scorgo pur uno, e non riesco nemmeno a vedere uno dei ladroni del deserto.

Ma verranno certamente. Sette diverse morti son tese a questi sventurati: i leoni possono divorarli, i serpenti morderli, la sete ucciderli, le sabbie del deserto seppellirli, i ladroni assalirli, l’ardore del sole esaurirli, la paura annientarli.»

La palma tentò di pensare a qualche altra cosa, perchè la sorte che attendeva quei due la rattristava. Ma nell’ampia distesa del deserto essa non trovò nulla che da migliaia e migliaia d’anni non avesse osservato e che non le fosse noto, nulla che potesse fermare la sua attenzione, dovette pensare ai due viandanti.

«Per la siccità e per la tempesta!» esclamò la palma invocando i due nemici più temibili del deserto «che cosa tiene tra le braccia questa donna? Ritengo che questi due pazzi portino seco un fanciullo.»

L’albero che vedeva da lungi come sogliono i vecchi, vedeva giusto.

La donna teneva in collo un fanciullo che dormiva appoggiando il capo sulla spalla di lei.

«Il bimbo non è interamente vestito» seguitò a dire la palma a la madre lo copre con un lembo del suo mantello. Essa deve averlo tolto dal letto in gran fretta per fuggire. Ora capisco tutto: questi sono dei fuggitivi.

Comunque sia essi mi sembrano pazzi. Se un angelo non li protegge avrebbero dovuto sopportare il peggior male dai loro nemici anzichè venire in questo deserto.

Credo di comprendere come sono andate le cose: l’uomo lavorava, il bimbo dormiva nella culla, la donna era uscita ad attingere l’acqua. Fatti due passi fuor della porta ha veduto i nemici venire precipitosamente. Essa ha indietreggiato, ha afferrato il bimbo, chiamato l’uomo, dicendogli di seguirla e per tutto il giorno sono [p. 4 modifica]stati in cammino senza riposare un istante. Sì, è così avvenuto, ma, dico io, se un angelo non li protegge....

Sono così spaventati che non sentono nè la fatica nè altre sofferenze, ma io vedo che cominciano già a patire la sete. Riconosco gli uomini assetati dal viso.»

Nel pensare a questo la palma sentì un brivido spasmodico lungo il suo tronco, e le cime delle sue innumerevoli foglie si contrassero come se fossero state sopra il fuoco.

«Se fossi un uomo non mi arrischierei nel deserto. Ci vuole un bel coraggio ad andare quà e là errando senza avere radici che penetrino nel suolo, fino alle vene d’acqua inesauribili. Sarebbe pericoloso anche per le palme, anche per una palma come me.

Se potessi dare un consiglio a questa gente, direi: tornate addietro. I nemici vostri non possono essere più crudeli del deserto; voi credete che sia cosa facile viverci, ma io stessa ho dovuto talora lottare molto per non morire. Ricordo che una volta in gioventù il vento mi scaraventò addosso un monte di sabbia e stavo per soffocare. Ritenevo che fosse la mia ultim’ora.»

La palma seguitò a pensare a lungo come sogliono fare i solitari.

«Odo» continuò a dire «tra il mio diadema una dolcissima melodia; le punte delle mie foglie tremano: non so quale effetto mi produca la vista di questi stranieri.

La donna nel suo accoramento è sì bella che mi fa pensare a cose meravigliose, mi fa rivivere nei ricordi.»

Mentre le foglie seguitavano a muoversi melodicamente, la palma si rammentò che in tempi remoti due rinomati personaggi erano stati ospiti dell’oasi: la regina Saba e il savio Salomone. La regina doveva tornare al suo paese, il re l’aveva accompagnata per un tratto di cammino, e stavano per separarsi. «A ricordo di quest’ora» disse la regina «depongo nella terra un seme di dattero perchè divenga palma che cresca e viva fino a che nel paese di Giuda sorga un re più grande di Salomone.» Detto questo piantò il seme in terra e lo irrigò col suo pianto.

«Come mai mi vien fatto di pensare proprio oggi a tante cose passate?» chiese a sè la palma «È forse questa bella donna che mi fa rissovvenire della splendida regina per la quale sono cresciuta e vissuta fino. ad oggi? Le mie foglie stormiscono sempre più forte, il loro moto rassomiglia ad un melanconico canto funebre. Sembrerebbe ch’esse presagissero che il momento di doversi separare dal mondo è giunto. È buono a sapersi che questo non mi concerne; io non posso morire.»

La palma ritenne che il mesto canto mormorato dalle sue foglie fosse rivolto ai due solitari pellegrini. Essi dovevano ritener prossima la loro ultima ora. Si capiva dal modo stesso in cui andavano errando. Si scorgeva dagli sguardi che volgevano ad una coppia di corvi volanti. Non poteva essere diversamente. Erano perduti.

Avevano visto la palma e l’oasi e si affrettavano a giungervi per trovare acqua.

Appena arrivati caddero in preda alla disperazione, perchè la sorgente era inaridita. La donna spossata depose il bimbo a terra e sedette piangendo sull’orlo della fonte. L’uomo si lasciò cadere presso di lei, si stese e battè coi pugni la terra riarsa. La palma udì ch’essi dicevano l’un l’altro che dovevano morire. Dicevano eziandio che Erede aveva fatto uccidere tutti i fanciulli dai due ai tre anni d’età, per timore che fosse nato il gran Re degli Ebrei lungamente atteso.

«Le mie foglie stormiscono con maggior forza» pensò la palma «sta per suonare l’ultim’ora per questi poveri fuggitivi.» Essa comprese altresì che entrambi temevano il deserto. L’uomo diceva che sarebbe stato meglio rimanere e lottare con i soldati anzichè fuggire: avrebbero trovato una morte meno penosa.

«Dio ci aiuterà» soggiunse la donna.

«Siamo soli fra bestie di rapina e serpenti» insistè l’uomo. «Non abbiamo nè cibi nè vivande. Come potrebbe aiutarci il Signore?»

Disperato stracciò le sue vesti e premette il volto a terra. Ogni via di salvezza era chiusa per lui, come per chi abbia nel cuore una ferita mortale.

La donna stava seduta, tenendo le mani sulle ginocchia; gli sguardi ch’essa gettava sul deserto rivelavano una desolazione senza limiti.

La palma sentiva divenire più agitato e melanconico lo stormire delle sue foglie. Parve che anche la donna lo avesse avvertito, perchè levò gli occhi sull’albero e incoscentemente alzò le braccia e le mani gridando:

«Datteri, datteri!»

Vi era in quella voce tanto desiderio che la palma bramò di non essere più alta d’un cespuglio di ginestra e i suoi datteri facili a cogliersi come le rose della siepe. Sapeva che di datteri era carico il suo diadema, ma come potevano giungere quegli uomini ad un’altezza così vertiginosa?

L’uomo aveva già visto che quei datteri non si sarebbero potuti cogliere e senza sollevare il capo pregò la donna di non desiderare l’impossibile.

Ma il fanciullo che aveva sgambettato quà e là per conto suo gingillandosi con fili d’erba e con steli, aveva pure avvertito l’esclamazione di sua madre. Egli non voleva ammettere che non fosse possibile a questa ottenere quel che desiderava. Udito parlare di datteri si mise ad osservare l’albero e andava ruminando intorno al modo di coglierli. La sua piccola fronte si corrugava sotto l’intenso pensiero; finalmente un sorriso illuminò il suo sembiante. Aveva trovato il modo. Si avvicinò alla palma, la carezzò colle sue piccole mani, le disse con dolce voce infantile: «Palma piegati! palma piegati!» Che accadeva mai? Le foglie dell’albero stormivano come se fra esse vi fosse stato un organo, il tronco era attraversato da brividi. La palma sentì che il fanciullo aveva un potere su lei e che essa non poteva resistergli. Si chinò col suo alto fusto dinanzi a lui come s’inchinano gli uomini dinanzi ai principi, formando un poderoso arco piegò a terra tanto che il gran diadema colle foglie tremanti strisciava la sabbia del deserto.

Il fanciullo non si mostrò nè spaventato nè stupito, con un grido di gioia si avvicinò e colse numerosi grappoli dalla chioma della vecchia palma.

[p. 5 modifica]Dopo che n’ebbe colti a sufficienza, si appressò all’albero che seguitava a giacere a terra e con voce amorosa disse: «Palma levati, levati su palma!»

In silenzio, rispettosamente la palma drizzò il tronco mentre le sue foglie suonavano come arpe.

«Ora capisco a chi era diretto il canto funebre» disse fra sè medesima dopo che si fu rialzata. «Nè per l’uno nè per l’altro dei due pellegrini.»

Questi inginocchiati lodavano Iddio.

«Tu hai veduto la nostra angoscia e ce ne hai liberati. Tu sei l’Onnipotente che piega il tronco della palma come un flessibile giunco.

Dinanzi a qual nemico potremo riportar vittoria se la tua forza ci protegge?»

Gli uomini della prima carovana che attraversò il deserto osservarono che il diadema di foglie della gran palma era appassito.

«Come può essere avvenuto?» disse uno dei pellegrini. «Questa palma non poteva morire finchè non avesse veduto un re più grande di Salomone.»

«Probabilmente lo ha veduto» rispose un altro degli esploratori del deserto.

Samarita.


DA UN DIARIO


30 Settembre 1910.

Nella bella cattedrale era una luce mite, soffusa, che avvolgeva e marmi e ori: dal pulpito un Cristo con la testa piegata in abbandono di morte, pareva volgesse gli occhi, prossimi a spegnersi, in cerca d’amore. Anche l’anima mia agonizzava, e si stringeva, agonizzando, al morente Gesù.... si stringeva a Lui per aver sicurezza, aiuto, riposo. Quando si soffre non si sta in pace che col Maestro: le parole umane son così povere, inadeguate a certi spasimi; i ragionamenti così aridi, irritanti per un cuore afflitto! Gesù, dalla sua croce, sa, Egli solo, dire le più austere parole e le più dolci: sa chiedere la rassegnazione ai più grevi sacrifizi e far sorger dentro pensieri teneramente divini. Quando tutto si spezza intorno a noi, e le cose terrene non han più una voce, e ogni speranza cade, e l’anima riman come infranta, nello squallore, nella desolazione, nel vuoto immenso grandeggia la figura del Martire divino e prende tutta l’anima.... Sono i misteri di grazia dei momenti più crudi!.... Tu solo hai parole di vita, tu solo sei la mia speranza e il mio rifugio.... singhiozza la creatura ai piedi del Crocifisso, e allora la calma, la luce invadono lo spirito che, quasi, pregusta qualcosa dell’eternità! Ma perchè Gesù diventi intimo così, par quasi legge che il cuor nostro sia prima straziato, oppresso e Come infranto.... Solo dopo aver passate ore d’interiore tristezza infinita, ho anch’io saputo l’arcano conforto che scende a noi dalla croce di Gesù.... solo allora! E ho capito come e dolore e amore così eccelsi, fondandosi insieme, possan divenire un’ebbrezza, una follia, per chi non sa, di pietà e di ardore.

18 Ottobre 1910

In giugno la figliola aveva cessato di frequentare la scuola: la madre la toglieva dall’istituto, ove la carità cittadina l’aveva ricoverata, e la poneva presso una zia. Io non ne seppi più nulla e mi doleva. Avevo amato quella fanciulla, malata nell’anima e nel corpo, con speciale affetto e desiderio di bene e la rivedevo spesso, con il pensiero, alta, pallida, magra, nel grembiulone azzurro dell’ospizio, con l’aria triste e stanca.... Il carattere freddo di lei s’era un pochino scosso: aveva lampi d’affezione, moti buoni, ch’io spiavo, ch’io raccoglievo.... come gemme, come dolcissime gioie sulla mia via d’educatrice....

E oggi mi si presenta, improvvisamente in, classe, fra le mie trottoline di prima, una giovinetta con un grembiale nero, ampio, molle, una sciarpa bianca di seta al collo, una testa tutta rigonfia e ornata di dirizzature e ondulature e nastri.... Non la riconobbi e dovetti domandare chi fosse. Era la mia figliola, ma che m’aveva lasciato così semplice, così cara al mio cuore, nella povera divisa dell’istituto, con i capelli aderenti alla povera testina che aveva certo tanto, troppo e troppo tristamente pensato per una bimba e sulla quale la mia mano s’era tante volte posata con tenerezza infinita.... «Come stai male, figliola, conciata così!» le dissi nella mia dolorosa meraviglia.... E poi la vidi uscire con la mamma e la zia con le quali era venuta.... figure fredde, impressionanti per la volgare eleganza di certa povera gente.... e pensandole le custodi di quella giovinetta, di un’anima che ora si va aprendo alla vita, mi son sentita e mi sento stringere il cuore!....

Luisa.