Il buon cuore - Anno XIV, n. 43 - 23 ottobre 1915/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIV, n. 43 - 23 ottobre 1915 Religione

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IL CENTENARIO DANTESCO


Perchè torni in onore

la Chiesa del Poeta


Chi per onorare oggi Dante sceglie onoranze da rendersi al sacro edificio divenuto suo, non tiene una via indiretta, ma penetra più profondamente nell’anima del poeta morente. Ispirandosi a questo concetto che fu già messo in luce parecchi anni addietro da Filippo Crispolti, la nuova rivista «Vita e Pensiero» pubblicherà, nel secondo interessantissimo fascicolo che uscirà a giorni, un notevole articolo nel quale è illustrato il valore storico e ideale della chiesa di San Francesco in Ravenna, così ricca delle memorie della vita del Poeta e presso la quale sono deposte le vene. rande ossa di lui.

L’antica chiesa, di cui sono rievocate le origini, aveva la stessa forma basilicale ravennate delle altre chiese, con l’ardica o portico a tre navate, divise da ventiquattro colonne di marmo greco venato. Aveva l’abside decorata di mosaici, in alto, nella conca absidale, splendeva una grande croce con le immagini degli Apostoli Pietro e Paolo, e con le parole: Domnus Neon Episcopus senescat nobis. Il quale Neone ebbe sepoltura in questa basilica, davanti all’altare, sotto una lapide di porfido; e gli altri vescovi e personaggi importanti furono sepolti dentro la medesima, o fuori nell’ardica, che accolse fino a trenta arche marmoree.

Intorno al mille venne aggiunta, sotto la abside, la cripta con colonne, capitelli e pulvini di varia età;

e forse nello stesso tempo, venne eretto, sulle prime due campate della navata destra, il campanile qua drato, adorno di bifore e trifore, con sostegni erratici e pulvini d’ogni specie.

Nell’anno 1261 la chiesa passò ai frati Francescani, detti Conventuali; e fin d’allora fu detta di San Francesco. L’Arcivescovo Filippo Fontana, indotto dai buoni esempi di religiosa osservanza con cui vivevano i suddetti frati, che già si trovavano nella nostra città, concedeva loro la chiesa col consenso dei canonici, che vi avevano sopra antica giurisdizione: e i Frati vi edificavano dappresso un convento, che fiorì sempre di uomini insigni per virtù e sapere, fino alla soppressione del 1810.

Quando Ravenna entrò nella penombra della storia a vivere quasi solo delle sue memorie, all’azione demolitrice del tempo s’aggiunsero a danno dei nostri monumenti, le devastazioni degli uomini. Così ruinarono e sparvero molte basiliche; nelle superstiti, spro fondate coi bei pavimenti e le colonne, i mosaici si scomposero dai muri absidali filtranti l’umidità, i marmi furono portati via, entrarono lo squallore e la tristezza! E venne l’epoca dei restauri o, peggio, dei rifacimenti, che rovinarono completamente alcune basiliche: quella di San Francesco ebbe la peggior sorte.

Un primo restauro vi venne eseguito dai Francescani nel secolo XIV; forse di quel tempo sono la travatura dipinta, che ancor rimane, coperta da una brutta volta, ed anche gli avanzi di muro decorato all’esterno di archetti pensili e di lesene. Pure allora la chiesa venne adornata di affreschi attribuiti già allo stesso Giotto, venuto a dipingere in Raveima per invito dei Polentani.

Più tardi, col dominio dei Veneziani, il soffio artistico del Rinascimento penetrò nella nostra città, lasciò qualche traccia anche in San Francesco, nei rilievi eleganti e graziosi, con cui i Lombardi hanno decorato i pilastri di una cappella e il campionese Flamberti il bel sepolcro di Luffo Nomai.

Ma nel 1793 la chiesa essendo labente, subì un totale restauro, secondo il gusto imperante, che rovinò: s'imbrattarono di stucco le pareti e di stucco si [p. 290 modifica]completarono i capitelli delle colonne, che ebbero smantellate le volute e le foglie. Cosicchè oggi, nel visitarla, rimaniamo offesi da quella banale modernità, che ne ha guastato la semplice bella lineè basilicale, togliendole quel senso di mistica suggestione, che emanava dalle muraglie rese venerande dal tempo; e con un certo rimpianto, misto a venerazione, osserviamo qua e là le impronte delle età passate. Della basilica primitiva, le colonne di greco, pulvini ed avanzi di muri e di archi e frammenti di altare, e i sarcofagi riccamente scolpiti, uno dei quali serve di altare e di tomba al vescovo S. Liberio. Poi la cripta, quasi sempre invasa dall’acqua, dove furono dissepolti bei pezzi di mosaico e monili bizantini di oro con perle, adesso custoditi nel museo. Poi la mezza figura di santa, residuo delle pitture giottesche;,e. due lapidi funerarie levate al pavimento e incastrate nel muro ai fianchi della porta maggiore: l’una con l’effige di Ostasio da Polenta, in abito di terziario francescano, morto nel 1396; l’altra con l’effigie di un Alfieri astigiano, Generale dell’ordine conventuale. Quindi le opere del rinascimento e un ricordo fiorentino: l’iscrizione sepolcrale di Nicolò Soderini, esiliato da Firenze, per aver congiurato contro Pietro dei Medici. All’esterno, i resti dell’ardica nei pilastri della leggendaria Cappella di Braccioforte, dove si custodiscono antichi sarcofagi: e il bruno campanile, che rimasto integro e fiero tra quegli avanzi, tramanda dall’alto il suono aspro e grave delle vecchie campane a ridestare intorno gli echi arcani del passato. Accogliendo questi echi, ci compiacciamo ricomporre con la commossa immaginazione la chiesa di S. Francesco nella bella semplicità e severità di un tempo, quale si mostrava ancora, quando Dante Alighieri vi eitrava a pregare e quando vi fu portata la Sua salma per le estreme onoranze. Questi monumenti storici per la nostra chiesa, da chi ne ha scritto di recente, così sono rievocati: «In questa chiesa entrò senza dubbio, chi sa quante volte, Dante Alighieri negli anni che corsero tra il 1317 e il 1321, tra l’ultimo rifugio da lui cercato nella città del silenzio e dell’oblio, delle basiliche e dei mausolei, della pineta e del mare, della signoria polentana e delle memorie imperiali, e la morte, che lo colse al ritorno della ambasceria veneziana: tra la disperazione di riuscir mai a compiere il suo Poema e lo sgorgo della parola finale, ampia come l’universo: L’amor che move il sole e l’altre stelle. Quando il poeta invecchiava lentamente a Ravenna e si approssimava alla morte, la chiesa di San Francesco, presentava ben altro aspetto. Ma Dante vide forse ancora a postoTantico ambone; riconobbe ancora presso di questo la tomba dell’arcivescovo Aureliano (il corpo di Neone era già’ stato trasferito altrove); s’inginocchiò a pregare, «l’alta fronte che Dio mirò da presso chiusa entro le palme», davanti all’altare di Liberio, che allora veneravasi nella cappella consacrata più tardi al Crocifisso.

Cum mundi circumflua corpora cantu Astricolaeque meo, velut infera regna, patebunt Devincire caput hedera lauroque invabit, La corona di lauro egli ebbe, sì, ma nella morte. Rileggete le pagine del Boccaccio. «Fece il magnifico Cavaliere (Guido Novello da Polenta) il morto corpo di Dante, d’ornamenti poetici sopra a un funebre letto adornare, e quello fatto portare sopra gli omeri de’ suoi cittadini più solenni, insino al luogo de’ Frati Minori in Raven la, con quello onore che a sì fatto corpo degno a, infino a qui, quasi con publico pianto seguitolo, in un’arca lapidea, nella quale ancor giace, il fece porre.» Nell’aula di San Francesco, in mezzo ai figli e agli amici sbigottiti e piangenti, in mezzo al popolo riverente e commosso, brillarono per l’ultima volta le umane fattezze del Poeta: quel volto lungo, reso macro dallo sforzo immane del pensiero, quel naso aquilino indicante una volontà di ferro, e le mascelle grandi, e il labbro di sotto su quel di àopra avanzato; e nel pallore diafano della morte rischiaravasi il colore bruno ch’egli aveva avuto in vita, e nella compostezza rigida della morte si aumentava la maestà della faccia malinconica e pensosa... Nessun altro momento più glorioso registra la storia della chiesa francescana. Al paragone di questo si impiccioliscono o svaniscono addirittura tutti gli altri ricordi. Fra i quali tuttavia non dobbiamo passare sotto silenzio il nome di frate. Antonio Santi, quello che nell’ottobre del 1677 denuper revisit, come tutto il mondo sa, le ossa di Dante, trafugate nell’esordio del secolo XVI, dai monaci che vollero salvarle a Ravenna». Non deve pertanto la chiesa di S. Francesco rimanere deturpata e squallida, mentre gli altri nostri monumenti vanno riacquistando lo splendore e la purezza primitiva. La chiesa di Dante ritorni a dignità di arte, e divenga degna di custodire i suoi gloriosi ricordi. «La salma di Dante, come Si sa, fu seppellita in un’arca marmorea antica sotto il porticato di fianco alla chiesa di San Francesco, attigua ai muro ’del convento presso la cappella di Braccioforte. Guido da Polenta avrebbe, se lo stato e la vita gli fossero durati, — come scrive il Boccaccio — onorato il Poeta di egregia sepoltura; ma pochi mesi dopo perdette ’a &gnoria di Ravenna. Per molto tempo nulla si fece intorno all’arca di Dante; solo, dopo la metà del secolo XIV, vi fu inciso l’epitaffio del Canaccio, che tuttora vi si legge; e nel 1483 Bernardo Bembo, pretore per la Repubblica Veneta, la fece adornare da Pietro Lombardo, che l’attorniò di uno scompartimento marmoreo e vi scolpì sopra l’immagine del Poeta leggente. Nel 1780, per incarico del Cardinal Legato Luigi Valenti Gonzaga, il ravennate Camillo Morigia, conservando l’opera lombardesca e distaccandola dal muro del chiostro, a cui si appoggiava, la mise sull’asse dell’odierna e vi edificò sopra l’attuale tempietto [p. 291 modifica]Nel settembre 1908 fu appesa in mezzo al sepolcro la lampada, donata dalla società Dantesca, insieme all’ampolla donata da Trieste. Nella stessa circostanza venne inaugurata iella Biblioteca Classense la Sala Dantesca, composta di una cospicua raccolta di Opere riguardanti Dante. Questa raccolta fu acquistata dal libraio Olschki di Firenze con offerte appositamente raccolte allora e con quelle raccolte anni prima per il progettato Mausoleo di Dante, fra le quali figurava la.generosa offerta di lire diecimila, elargita dal Pontefice Leone XIII. Ravenna ha sempre gelosamente custodite e conservate le ossa del Divino Poeta. Dallo stesso secolo in cui morì sino all’anno 1865; Firenze ha chiesto più volte le preziose ossa: e tra i nomi dei richiedenti si incontra quello di Michelangelo, nella domanda fatta nel 1519 dall’Accademia Medicea al Pontefice fiorentino Leone X. Questo Pontefice concesse di fatti il trasporto dei resti di Dante. Ma i Fiorentini venuti a Ravenna e aperta l’urna: non vi trovarono se non qualche foglia di alloro P qualche falange che trascurarono; s’accorsero però che le ossa erano state trafugate. I Frati Francescani le avevano sottratte e occultate nel loro monastero! Lo storico trafugamento è ricostruito nel mirabile racconto di Corrado Ricci nel «L’ultimo rifugio di Dante Alighieri». I frati forarono il muro del chiostro laddove all’opposto lato aderiva l’arca lapidea, e spintovi dentro un cero ardente raccolsero i resti mortali di Dante. La presenza dei resti contesi dovette destare sul labbro dei frati la preghiera dei morti, che mormorò sommessa fra gli archi, al lume delle torcie: poi tutto ricadde nel silenzio. A Ravenna erano per sempre conservate le ossa di Dante Alighieri! Esse rimasero dentro al monastero in gelosa custodia dei fraticelli, che s’le trasmisero, facendone ad intervalli la ricognizione. Una di queste fu fatta nel 1677 dal P. Antonio Santi, il quale mise le ossa entro una nuova cassetta di legno, nel cui interno scrisse: Dantis ossa - denuper revisa die 3 Junii 1677; e più tardi sopra al coperchio della medesima: Dantis ossa - a me Fre Antonio Santi - hic posita - Anno 1677 dic 18 octobris. Quella cassetta fu qua e là nascosta fino al 1810, quando i frati dovettero, per la soppressione, abbandonare (forse, speravano, momentaneamente) il loro convento. Si andò in appresso ripetendo che in Braccioforte si trovava un gran tesoro. E, difatti durante restauro fatto nel 1865 -- anno centenario della nascita di Dante — alla Cappella di Braccioforte, in una porta murata, di cui si conserva parte dentro un rivestimento marmoreo, si rinvenne la cassetta del Santi contenente le ossa di Dante.. Il convento Francescano, che oggi accoglie le Suore Tavelle, esercita tuttora una misteriosa attrattiva, anche perchè quivi, ha scritto Corrado Ricci, un tormentoso dubbio insinua nascoste ancora le carte del Poeta. Non senza commozione si visita il famoso

chiostro, nella cui parete ad ovest si veggono le traccie del pertugio praticato dai frati per levare le ossa di Dante dal suo sepolcro: sopra vi è murata questa iscrizione: Traccie del pertugio — Onde nell’esordio del sec. XVI — i Francescani — Trassero dal Sepolcro — Allora aderente all’opposta parete — Le ossa di Dante — Salvandole così a Ravenna». GIOVANNI MESINI.