Il figlio di Grazia/XII

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Da una finestra al piano superiore dell’Albergo, un visetto pallido assisteva ogni mattina all’arrivo dello sciame di scolari, tutto il mondo piccino del paese e dei dintorni, che brulicava per un quarto d’ora nella piazza, finchè scompariva tutto dentro la porta della scuola.

Era il divertimento invernale di Dorma, che, rattrappita da un’artrite acuta, soffriva, soprattutto 1 inverno, dolori atroci. La mattina era l’unico suo momento buono. La mamma la portava vicino alla finestra ed ella guardava di là tutti quei ragazzi rumorosi e allegri, coi guantoni di lana verde e le grosse sciarpe intorno al collo. Le bambine tutte imbacuccate anch’esse, colle faccine chiuse nei cappucci, le cartelle infilate sul braccio e le mani sotto il grembiale, arrivano a due, a tre, chiacchierando come donnine in miniatura e badando a scansare le palle di neve che si buttavano i maschi. [p. 88 modifica]

Nessuno però alzava gli occhi a guardare la finestra dell’albergo; quel visino pallido e lungo, era per essi come una pittura sbiadita sul vetro, che non diceva loro nulla.

Poichè quasi nessuna bambina del paese conosceva la Dorina dell’Albergo, ed ella non conosceva nessuno: se qualcuna era entrata in casa sua, non aveva ricevuto da lei neppure un cenno di saluto: aveva voltato via il viso fattosi duro, quasi crudele.

C’era chi diceva: è superba perchè i suoi sono ricchi, perchè la sua mamma era una maestra di Torino. Altri sospettavano che si rodesse d’invidia degli altri ragazzi forti e sani; ma in casa sua invece pensavano che ella provasse vergogna di farsi vedere così rattrappita. Nessuno però indovinava, e lei stessa, Dorina, non avrebbe saputo dir bene, che cosa la teneva lontana dagli altri ragazzi.

Questo era vero: che soffriva a vederli; soffriva come se tutti i suoi nervi si stirassero, come se le sue povere ossa si storcessero: ma non era vero, no, che ella provasse dolore di veder gli altri sani mentr’ella era malata. Aveva soggezione, ecco: non sapeva di che, ma avrebbe voluto sempre vederli senz’essere vista.

L’estate, quando nel prato dietro l’albergo i bambini dei forestieri giocavano, alla domanda: «vuoi che ti portiamo fuori?» rispondeva rabbrividendo: «No, no!» Eppure si svegliava ch’era ancora buio per poter farsi portare giù prima che i signori si levassero, in uno stanzino dietro la cucina, che serviva da dispensa, dove a nessuno sarebbe venuto in mente di penetrare.

Le dicevano che c’era troppo fresco e umido, che [p. 89 modifica]la carne, il burro e il lardo messi là sul ghiaccio mandavano odore, ma ella piangeva così tristamente solo al pensiero di non poterci andare, che finivano sempre col contentarla.

Ella se ne stava dunque là quasi tutto il giorno col viso contro l’inferriata della piccola finestra quadrata in cui erano intrecciati rami di castagno per tener lontano le mosche, Dorina, sfregando la fronte contro quelle foglie secche, aspirandone l’odore, s’illudeva d’essere in un bosco fitto, nell’erba, su quei prati ch’erano un sogno per lei, sebbene circondassero tutto il paese e fossero così vicini alla sua casa.

Dal suo nascondiglio ella udiva scendere rumorosamente dalla scala di legno, passare nel vestibolo scalpitando, tutti i piedini dei piccoli ospiti, e udiva le loro voci, le loro grida, poi li vedeva uscir nel prato, così belle le bambine nelle loro vestine chiare, coi capelli lunghi e sciolti, e i maschietti vestiti alla, marinala col collo scoperto che dava loro un’aria fiera e disinvolta. Facevano saltare la palla di gomma, impiantavano i birilli; saltavano nella corda, facevano passeggiare le bambole nell’erba alta, si bisticciavano, strillavano, discorrevano.

Dorina teneva d’occhio tutti: sorvegliava i più piccini, udiva le congiure dei prepotenti che venivano ad appoggiarsi al muro per combinare le loro bricconate, e provava la tentazione di mettere in guardia le bambine.

Due bimbe, due sorelline, una sottile dalle arie di donnina a quattr’anni, l’altra rotonda, grassa, venivano colle loro scodelle di legno a far torte e pasticcini colla terra, proprio sotto al finestrino. Quando la maggiore stava dritta, Dorina avrebbe potuto metterle una mano sui bei riccioli castagni. [p. 90 modifica]

Ella tratteneva il respiro ascoltando, bevendo tutte le loro parole: era proprio un bisogno per lei di udir voci di bambini, di vederli moversi, di vivere la loro vita. L’estate ella rinvigoriva, pigliava colore senza che uscisse una volta a respirare 1 aria pura e calda, ma era la casa piena di vocette e di passi infantili che la faceva rivivere.

Un anno, chi sa come, corse nell’albergo la voce che vi fosse una bambina inferma tenuta nascosta Tutte le curiosità dei grandi e dei piccoli furono risvegliate. Un giorno un ragazzino raccontò d’averla scoperta in uno stanzino buio a pianterreno, quasi una cantina, e scoppiò una tale indignazione fra quelle madri che non potè più rimanere celata.

Dorina fu la prima ad accorgersi d’essere stata scoperta; vide delle bianche mani di signora scostare lentamente le foglie che s’intrecciavano all’inferriata, e si tirò contro il muro, al buio, con un’aria così impaurita e tremante, che chi potè intravvederla ne fu vivamente impressionato.

V albergatrice, che aveva sempre ispirato sino allora la più schietta simpatia, fu guardata con diffidenza: un freddo si fece improvvisamente intorno a lei. Intelligente com’era se n’accorse subito: le signore, dapprima tanto cordiali, le parlavano ora appena quel tanto che occorresse, non guardandola negli occhi: una, anzi, non le diresse più la parola e fingeva di non vederla incontrandola. Parlottavano fra loro in aria misteriosa, ed ella, stupita, s’era quasi decisa a chiederne loro il perchè, quando una mattina, dopo la colazione, un celebre medico ch’era arrivato da pochi giorni le disse a bruciapelo: «Cara signora, mi vuol mostrare la sua figliola malata? chi sa ch’io non trovi modo di guarirla.» [p. 91 modifica]

«Oh, signor professore, quanta bontà!» esclamò commossa l’albergatrice, e s’affrettò a farlo salire.

«Ma la bimba non è dabbasso?»

«Sì: ora gliela facevo portare in camera, oh, ma venga! Se sapesse come mi cruccio della sua ostinazione. Chi sa ch’ella non riesca a persuaderla, venga a vederla....» .

Quando, attraversata la cucina, il medico s affacciò allo stanzino quasi buio, troppo fresco, e intravvide quella testina bionda contro l’inferriata della finestrella, credette di trovarsi davanti a uno di quei raccapriccianti drammi in cui madri mostruose martirizzano le loro creature.

Ma l’atto col quale quella donna s’affrettò a prendersi sulle braccia la sua bambina spaurita da quell’inaspettata apparizione, le carezze con te quali Dorina supplicò la sua mamma di non proibirle di venire nella dispensa, parvero al medico svelassero una tenerezza viva fra madre e figliola. Quando poi furono di sopra, e ch’egli vide la poltroncina imbottita, il tavolino fatto apposta per lei, con su cento piccole cosine per distrarla: e sulla parete un altarino basso, con le belle immagini, e i minuscoli candelieri di stagno e le candelette colorate, e il letto della bambina accanto a quello di sua madre come fosse ancora una bimba da latte, gli occhi gli si empirono di lagrime: avrebbe voluto dire a quella madre: perdonate, perdonate! noi vi abbiamo calunniata!

Non lo disse a lei, ma lo disse giù, a tutte quelle signore: si prese intorno i ragazzi per ripeterglielo, descrivendo quella povera bambina che li adorava, che li conosceva tutti, ma non voleva essere conosciuta. Che cosa non tentò anche quel dottore per [p. 92 modifica]indurre Dorina a vincere le sue riluttanze! ma dovette rinunciarvi: era più forte di lei. L’idea d essere veduta le faceva male al cuore. Le pareva che gli occhi dei fanciulli guardassero diversamente degli occhi dei grandi: le pareva che sotto il vestito le vedessero le sue ossa storte e ne provassero orrore. Si ricordava sempre di una bambina di due anni che le aveva fissato le mani e non aveva mai staccato gli occhi da essa, per quanto tentassero distrarla. Ricordandola ancora, le prendeva nelle mani un irrequietudine, una smania di nasconderle, un malessere indefinibile.

11 curato e la mamma avevano fatto di tutto per indurla a andar in chiesa nelle buone giornate del maggio, ma ella, pur così divota della sua cara Madonna, s’era sempre ostinatamente rifiutata. Quando si trattò della prima confessione, il curato glielo impose come una penitenza, come un patto per ottenere l’assoluzione. La notte prima Dorina non chiuse occhio e quando venne il mattino, e la mamma si mise a vestirla, ella si lasciò mettere in ordine e portare inerte fin sulla porta della chiesa. Le avevano promesso che a quell’ora essa sarebbe stata vuota: e lo era difatti, ma i suoi occhi spalancati, corsero a frugare paurosi in ogni angolo per veder se non ci fossero bambini, e videro subito il Bambino Gesù in braccio alla Madonna, e scopersero puttini nicchiati sui cornicioni dei vecchi confessionali intagliati, e teste d’angeli sull’organo e serafini che tenevano le catenelle delle lampade. Le parve che ne sbucassero fuori d’ogni dove, e fu presa da un tremito, da una soggezione come se fossero vivi, come se tutti quegli occhi infantili la guardassero. La portarono a casa tremante di febbre, quasi svenuta. [p. 93 modifica]

Era una colpa? ella se lo dimandava tante volte seduta davanti al suo altarino che il curato le aveva benedetto. Eppure li amava tanto i bambini, e la mattina, quando guardava quelli che entravano in scuola il suo sguardo s’animava ed ella dimenticava per un quarto d’ora i suoi dolori.

Dorina ignorava il nome dei bambini del paese, ma a suo modo li conosceva tutti: quella bella, quello pacifico, la capricciosa, la timida, il prepotente, il maleducato, lo sciocchino, la bonacciona, 1 ipocrita; qualche volta era obbligata a mutar nome ai piccoli personaggi che passavano come in una lanterna magica dietro i suoi vetri: la superba si mostrava invece pietosa, e il giudizioso si rivelava egoista. Uno però non mutava nome che per acquistarne ogni volta uno migliore. Il ragazzo bello, fu da lei chiamato per qualche tempo: poi, quello bravo: più tardi, quello buono, poi Martinez, poi Natale, poi lui, semplicemente.

Lui, quello che Dio aveva colmato di tutte le Sue grazie, poichè era bello e buono, studioso e modesto, forte e dolcissimo. Le sue mani che sembravano fatte per dar pugni e abbattere tutto ciò che gli si parava dinanzi, si movevano con una grazia come se accarezzassero ciò che incontrava. Pareva creato per rendere servigi agli altri: non v’era mattina in cui la sua gentilezza non si rivelasse: oggi era per pigliarsi in braccio e portar fino in classe una bambina che veniva zoppicando coi piedi gonfi per i geloni; domani per allacciar la stringa di una scarpa a un compagno, o per correggere, appoggiato al parapetto della fontana, la moltiplicazione sul compito di un altro. [p. 94 modifica]

Una sera aveva visto il suo maestro tagliarsi la legna per il fornello di ghisa della sua cucina, e la domenica, mentr’egli era sceso a Varallo, senza nulla dirgli venne con suo padre e gli prepararono in un angolo del portico una bella catasta di legna tagliata.

Un’altra volta una donna cadde colla gerla carica di fieno da un sentiero ripido della montagna: era sera, pioveva: ma prima ancora che sellassero il mulo dell’albergo per andar in cerca del dottore del borgo, Natale s’era precipitato giù attraverso i boschi e correva ad avvertirlo.

Una sera, Vincenzo, la famosa guida conosciuta da tutti gli alpinisti d’Italia e d’Inghilterra, la quale nelle sere d’inverno si recava sempre all’Hôtel Panorama a giocare coll’albergatore e due altri amici innumerevoli partite a scopa, mentre mischiava le carte esclamò: «Vivaddio! ne ho vista una oggi, che m’ha messo la voglia d’aver un figliolo, a me che non ho mai voluto saperne di prender moglie! Ma un figliolo come quello, badiamo!

» Sentite, sentite se non è da stampare! Voi l’avete visto a che ora siamo tornati oggi dal mercato di Varallo: ma dovete sapere che quando già eravamo a metà strada per tornare, ci colse una tormenta in tutta regola: vento, neve, non si poteva tenersi in piedi; le donne avevano voltate le spalle al vento e non volevano più saperne di andar nè avanti nè indietro: ho stentato a tirarle tutte fin sotto la cappelletta del ponte. C’era però una donna di Alpezzo che, coraggiosa più di tutte, non volle saperne di fermarsi: io le gridavo, eh sì! non sentiva niente! A un tratto ecco un colpo di vento che par una cannonata, e quando mi volto vedo la donna in terra, [p. 95 modifica]colla gerla rovesciata, e tutte le sue robe, pane, lardo, cartocci, tutto rotolato per la strada, nella neve. Quel diavolo di Natalino fu il primo a correre, a tirarla su, ad aiutare a cercar la roba dispersa.

La donna, venuta anche lei sotto la cappelletto, s’era seduta in terra colla faccia contro le ginocchia, e si mise a piangere.

— Che cos’avete? vi siete fatta male? — Ma non voleva rispondere. Finalmente le altre donne mi dissero; — Pensa al suo bambino da latte che è chiuso in casa solo e piangerà per la fame. —

— Qualche donna lo sentirà e andrà a prenderlo; di donne che allattino non ci sarete soltanto voi ad Alpezzo — dissi io.

Ma ella rispose singhiozzando: — nessuno sa dove ho messo la chiave; l’ho nascosta in un buco del muro, fuor dell’uscio, dove nessuno pensa di andar a cercarla.... — Poi a un tratto si alzò in piedi, — il vento è cessato, voglio andare, lasciatemi andare. Eh, sì! che cessare! soffiava peggio di prima! Quando finalmente dopo mezz’ora potemmo ripigliare la salita, ecco che la donna dice: — Ma questa non è la mia gerla: la mia è più grossa. Dov’è la mia? — L’aveva presa Natale che se ne andava svelto, senza voltarsi.

— Potete fidarvi — dissi io alla donna che si spaventava: non è un ragazzo come tutti gli altri. — E se ho avuto ragione! presto lo perdemmo di vista; prese le scorciatoie, e su come se non ci fosse nè neve nè ghiaccio.

Dopo tre quarti d’ora di cammino ci fermiamo al muricciolo del santuario, più che altro per lasciar riposare la donna di Alpezzo, a cui doleva il seno, gonfio del latte che non aveva potuto dare al suo [p. 96 modifica]bambino. — Coraggio, dico io, avete appena un quarto d’ora, ma lei non aveva più fiato da rispondere: la sua faccia era tutta stirata dallo spasimo, le occhiaie fatte bianche, quasi trasparenti: le si vedevano tutte le piccole vene blu. La moglie dell’oste di Pradezzo aveva giusto comperato a Varallo una bottiglia d’acquavite, gliene diede da bere qualche poco, e le fregarono i polsi e le narici. Qui bisogna pensare a portarla, dissi io, da sola non va più avanti. Aveva chiusi gli occhi e le colavano le lagrime di sotto le ciglia, che faceva proprio pietà.

Siamo lì per decidere cosa fare, quando dietro di noi sentiamo la voce di Natale che dice: — Lasciatemi passare, fate piacere. — Mi volto.... ecco! ancora a pensarci mi sento.... basta! era Natale dei Martinez con un grosso fagotto avvolto in una coperta di lana. — C’è qui la donna di Alpezzo? ah, ve l’ho portato giù, così ci date il latte più presto. —

Ho creduto che a quella povera donna venisse un colpo apopletico: tutto il sangue le andò alla testa e la sua faccia, che pareva un momento prima di marmo, diventò rossa come il fuoco. — Par un miracolo della Madonna! ero proprio 11 per morire, ed ecco il mio bambino!... — diceva fregandosi gli occhi come se si svegliasse da un sogno: e intanto che il suo bambino faceva glu glu, poppando allegramente il latte, essa piangeva per la consolazione.

E lui, quel briccone, come se avesse fatto la cosa più naturale del mondo era salito su nel bosco a tagliarsi un bastone. Cristo Santo! non spaventarti Dorina, che non è una bestemmia: sono cose che non vengono in mente che a Natale.»

Dorina, rannicchiata nella sua seggiolina accanto [p. 97 modifica]alla stufa, colle mani gonfie piene di dolori, ravvolte in uno scialletto di lana, non aveva staccato gli occhi da Vincenzo, e tutta l’anima sua si sfregò carezzevole contro la barba grigia di lui, quando finì di parlare. Oh, che piacere le dava di sentir dir bene di Natale!