Il filosofo inglese/Atto V

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Atto V

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Atto IV Nota storica
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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Notte.


Birone dall’interno della bottega viene accendendo i lumi. Gioacchino con lume spento dalla sua bottega.



Gioacchino. Fammi il piacer, Birone, accendi questo lume.
Birone. Eccomi, volentieri. L’accendo per costume.
Per altro, se di giorno vengono pochi a spendere,
La sera molto meno si può sperar di vendere.
Gioacchino. Da noi frutta la sera più assai del chiaro giorno:
La notte abbiamo pieno di dentro e qui d’intorno.
Birone. Utili infatti siete voi altri alle persone;
Fanno con poca spesa la lor conversazione.

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Parlano se ne han voglia, bevono se hanno sete;

Stanno a sedere, e pagano pochissime monete.
Gioacchino. Aggiugni che taluno, più franco e più valente,
Ha la bontà di bevere, e non pagar niente.
Birone. A certi anch’io talvolta dei libri venderò,
Che quando li avrò letti, dicon, li pagherò;
Ma perchè legger essi non san poco, nè assai,
Mantengon la parola, e non li pagan mai.
Gioacchino. Per tutto si rincontrano tai casi e tai costumi.
Biron, la buona sera. Vado a accendere i lumi.
(Entra nella sua bottega, ed accende tutti i lumi che occorrono nella medesima. Birone va nella sua bottega.

SCENA II.

Madama Saixon e monsieur Lorino.

M. Saixon. (Esce di casa, e si avvia alla bottega del caffè, in aria di sdegno)

Lorino. Madama. (seguitandola, e offerendole il braccio)
M. Saixon.   Cosa ci è?
Lorino.   Vi servo, se volete.
M. Saixon. Ho altro per il capo. (seguita a camminare)
Lorino. Madama, cosa avete?
M. Saixon. Per causa di Jacobbe ho da esser maltrattata?
Questa è la prima volta che Saixon mi ha sgridata.
Minaccie a una mia pari? Dirmi ch’io non comando?
Mostrarmi anche il bastone? L’affronto è memorando.
Lorino. Monsieur vostro marito alzò dunque il bastone?
M. Saixon. Non l’alzò, l’ha mostrato. (con ira)
Lorino.   Tutt’un...
M. Saixon.   Siete un buffone. (irata)
Lorino. Madama è compitissima in tutti i detti suoi,
Ma vincere e lasciarmi?...
M. Saixon.   Voglio un piacer da voi.
Lorino. Imponete. Son qui...

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M. Saixon.   Dal vostro stile ardito

Una satira voglio contro di mio marito.
Fra gli altri sentimenti, dite che alzar le mani
Contro la propria moglie sono azion da villani.
Lorino. Dunque le mani alzò.
M. Saixon.   Non è ver, non l’ha fatto;
Ma voglio dell’affronto vendetta ad ogni patto.
Monsieur Lorino, a voi.
Lorino.   Madama, non vorrei...
Cadesse la minaccia sul fil de’ lombi miei.
M. Saixon. Non si saprà.
Lorino.   Badate.
M. Saixon.   Scrivete con del foco,
Mi scorderò per questo le tre ghinee del gioco.
Lorino. A tanta gentilezza non posso dir di no.
(Tre ghinee risparmiate, e poi profitterò). (da sè)
Un solito prodigio farò colla mia mente;
Vado a compor là dentro estemporaneamente.
(entra nella bottega del caffè)

SCENA III.

Madama Saixon, poi Gioacchino.

M. Saixon. Bastami poter dire: l’affronto è vendicato.

Che importa se costui fosse anche bastonato?
Spiacemi restar sola. Rosa? (chiama) Non sente. Rosa?
Gioacchino? (chiama)
Gioacchino.   Mia signora.
M. Saixon.   Vien qui, chiamami Rosa.
Gioacchino. Vi servo. (va a picchiare)

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SCENA IV.

Rosa sulla loggia, e detti.

Rosa.   Chi è che picchia?

Gioacchino.   Ascoltami, sono io.
Rosa. Ora le scale scendo. Vengo, Gioacchino mio.
M. Saixon. Viene? (a Gioacchino)
Gioacchino. Signora sì. (Discende allegramente.
Suppone ch’io la cerchi, e non l’ho neanche in mente).
(da sè. Si accosta alla bottega)
Rosa. Eccomi. Chi mi vuole? Gioacchino, dove sei?
Gioacchino. Da me non sei cercata.
Rosa.   Dunque da chi?
Gioacchino.   Da lei.
(accenna la Saixon, ed entra in bottega)
Rosa. (Affè, se lo sapea, non ci venia per ora). (da sè)
M. Saixon. Io son che la domanda. Favorisca, signora. (ironica)
Rosa. Eccomi! (È pur graziosa!) (si accosta)
M. Saixon.   Siedi vicino a me.
Rosa. Vuol farmi quest’onore? (siede)
M. Saixon.   Sì, perchè altri non c’è.
Rosa. (Miracolo che è sola!) (da sè)
M. Saixon.   Saixon che fa?
Rosa.   Le robbe
Dispone di due stanze, per alloggiar Jacobbe.
M. Saixon. Jacobbe in quella casa?
Rosa.   L’avete pur sentito.
M. Saixon. Ad onta mia?
Rosa.   Sta volta vuol farla da marito.
M. Saixon. Che dici tu, ignorante? Che da marito? Che?
Prenda Jacobbe in casa: l’avrà da far con me.
Rosa. (Che bestia!) (da sè)
M. Saixon.   Cosa dici?
Rosa.   Nulla.

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M. Saixon.   Sì baccellona

Sarai di non tenere tu pur dalla padrona?
Rosa. Essere indifferente soglio io per ordinario;
Ma tengo questa volta da chi mi dà il salario.
M. Saixon. Chi ti paga?
Rosa.   Il padrone.
M. Saixon.   Ed io non ti do nulla?
Rosa. Mi deste una gonnella, che usaste da fanciulla.
M. Saixon. Via, in mezzo della strada scorgere mi farai?
Rosa. Quando non son cercata, per me non parlo mai.

SCENA V.

Monsieur Lorino dal caffè con un foglio in mano, e le suddette.

Lorino. Eccovi quattro versi, che vagliono un tesoro.

(La serva). (piano alla Saixon, ritirando il foglio)
M. Saixon.   (Non temete, ell’è una bocca d’oro).
(piano a Lorino)
A me. (gli chiede il foglio)
Lorino.   Migliori versi non feci in vita mia.
(piano alla Saixon, dandole il foglio)
M. Saixon. A Saixon questi versi reca per parte mia.
(dà il foglio a Rosa)
Lorino. (Madama...) ’
M. Saixon.   (Non temete).
Lorino.   Ragazza, io non li ho fatti.
Rosa. Io servo la padrona. Voi siete il re de’ matti.
(parte ed entra in casa)

SCENA VI.

Madama Saixon e monsieur Lorino.

Lorino. Ma leggeteli almeno.

M. Saixon.   Sì, sì, li leggerò.
Una copia ne avrete.
Lorino.   La mala copia io l’ho.

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Eccola; favorite sentir che stile è questo.

Trovate chi, qual io, sappia far bene, e presto.
(le dà un altro foglio)
M. Saixon. (legge)
Uomo non è che piaccia, non è condiscendente
Marito, che minaccia la moglie impertinente.

A me?
Lorino. Nel far la rima, trovato ho un po’ d’impaccio.
M. Saixon.   Ed io per far la rima, vi dico un asinaccio. (legge)
Quando la moglie tuona, si va per altra strada;
È vil chi la bastona, è un uom chi non le bada.

Lorino. Ah? che ne dite?
M. Saixon.   Bello. Bel sentimento invero!
A donna non si bada? Bellissimo è il pensiero!
Pria soffrirei le busse, ch’esser non ascoltata.
Saixon mi offese, è vero, ma almen mi son sfogata.
Se meglio non sapete difendere i miei torti,
Andate alla malora, che il diavolo vi porti.
(parte ed entra in casa)

SCENA VII.

Monsieur Lorino.

Ecco ricompensati con sprezzo i versi miei;

Ma le ghinee non pago, non torno da colei..
Per me non vi è fortuna in questa patria inglese;
Voglio imbarcarmi adesso, voglio cambiar paese.
Ma vo’, dovunque vado, cambiar la professione.
Le satire acquistata non mi han riputazione.
Pavento nuovi guai: tornar voglio a Parigi,
Tosto per imbarcarmi vo’ correre al Tamigi.
Ma perchè non si offenda dai tristi la mia gloria,
Vo’ prima di partire lasciare una memoria.
(entra nel caffè)

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SCENA VIII.

Il signor Saixon, poi Birone.

Saixon. Mia moglie a non badarle con questi versi insegna.

Tarocca, non le bado, e poi meco si sdegna.
È pazza. Ehi dal libraio. (alla bottega del libraio)
Birone.   Signor, che mi comanda?
Saixon. Dov’è Jacob? si sa?
Birone.   Chi è che lo domanda?
Saixon. Sono io.
Birone.   Se siete voi, potete andar là dentro.
Milord morto lo vuole.
Saixon.   Di milord non pavento.
(entra nella bottega del libraio con Birone)

SCENA IX.

Madama di Brindè sulla loggia.

Non vedesi Jacobbe, che mai sarà di lui?

Qual son per sua cagione inquieta unqua non fui.
Posso cangiar la brama, posso frenar l’amore;
Ma dileguar dal seno non posso il mio timore.
Mi pesa e mi addolora l’essere di lui priva;
Almen per mio conforto resti Jacobbe, e viva.

SCENA X.

Milord Wambert dalla parte del caffè, e detta.

Milord. Quanti pensieri in mente! quanti rimorsi al core!

M. Brindè. (Milord giunge opportuno. Gli parlerò). Signore, (a Milord)
Milord. Madama. (inchinandosi)
M. Brindè.   Bramerei, se lice, ragionarvi.
Milord. Eccomi a cenni vostri. (vuole avviarsi verso la casa)
M. Brindè.   Non voglio incomodarvi.
Verrò, se mi attendete, io stessa in su la strada, (entra)

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Milord. Capisco. La Brindè non vuol che in casa io vada.

Qual nuovo pensamento le cade in fantasia?
Son fuori di me stesso, non so dove mi sia.
L’attenderò.

SCENA XI.

Milord Wambert e Madama di Brindè dalla sua casa.

M. Brindè.   Signore. Eccovi a voi dinante

Quella di cui diceste poc’anzi essere amante.
Se ciò fìa ver, son pronta...
Milord.   Madama, permettete.
(passa alla sinistra con un complimento)
M. Brindè. Milord, troppo gentile. (con una riverenza)
Milord.   Fo il mio dover. Sedete.
(siedono su due scagni)
M. Brindè. Io vi dicea....
Milord.   Che pronta siete a gradir l’affetto...
M. Brindè. Tutto, milord, dirovvi, se aspetterete.
Milord.   Aspetto.
M. Brindè. Veggo per mia cagione un innocente oppresso.
Jacob è un uomo dotto; lo stimo, io lo confesso;
E confessar volendo tutto il mio core appieno,
Eguale alla mia stima è l’amor mio non meno.
Strano non è che il merto mi abbia ferito il petto.
Milord. Concludasi, madama.
M. Brindè.   Se aspetterete...
Milord.   Aspetto.
M. Brindè. Strano non è ch’io l’ami questo felice ingegno,
Ma l’amor mio non passa della ragione il segno.
Non vo’ colla mia mano, non vo’ coll’amor mio
Precipitare un uomo saggio, discreto e pio.
Al regno d’Inghilterra io sarò debitrice,
S’ei parte per me sola dall’Isola felice:

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E se per me l’opprime di una vendetta il pondo,

Io son la debitrice della sua vita al mondo.
Milord, che d’ira acceso più che di amore ha il seno,
Lontan vuol ch’egli vada dall’anglico terreno.
Milord di cui non vidi un’anima più ardita,
Minaccia, s’ei non parte, di togliergli la vita.
Amor ciò non risveglia, ma provoca il dispetto....
Milord. Dunque mi odiate. (altiero)
M. Brindè.   Aspetti, chi vuol saperlo.
Milord.   Aspetto.
M. Brindè. Signor, che da Jacobbe, che da me si pretende?
Oltre il confin del giusto vostro voler si estende;
Ma prevaler se deve l’ardir, la prepotenza,
In noi ritroverete rispetto ed obbedienza.
Jacob non sarà mio, di ciò ve ne assicuro,
Non sarò di Jacobbe, a tutti i numi il giuro.
Bastavi ancor? Non basta: deggio esser vostra, è vero?
Lo sarò, della mano vi concedo l’impero;
Ma il cuor se pretendete, voi lo sperate invano, (si alza)
Non merita il mio cuore un barbaro inumano.
Di nozze dispettose, signor, se siete vago,
Eccovi la mia destra, sposatemi, vi appago.
Sfogate dell’orgoglio l’irascibile foco.
Se vostra mi volete, vostra sarò per poco.
Se a forza strascinata vedrommi al vostro letto,
Mi ucciderà, lo spero, la pena ed il dispetto:
E se natura ingrata mi riserbasse in vita,
Milord, son nata inglese, son di alma forte e ardita.
So la via di sottrarmi. Basta; voi m’intendete.
Pensateci. Son vostra, se tal mi pretendete.
Milord. Madama...

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SCENA XII

Il signor Saixon dalla bottega del librajo, i suddetti; e poi Birone.

Saixon.   Di Jacobbe non dassi un uom simile. (alla Brindè)

Saggio, discreto, onesto, giusto, prudente, umile.
La casa gli offerisco, ei franco la ricusa,
E di milord lo sdegno è l’unica sua scusa.
Milord, mi conoscete, io francamente parlo.
Jacobbe è un uom da bene. Mi preme di salvarlo.
Giustizia mi facea raccorlo nel mio tetto;
Ei degl’insulti ad onta per voi serba il rispetto.
Ma ovunque egli sen vada, ovunque egli sen stia,
Jacobbe, vel protesto, Jacobbe è cosa mia.
Merita ben che voi cambiate in sen lo sdegno;
Che abbiate maggior stima di un uom ch’è di amor degno.
Dovreste far con esso quello che ho fatto anch’io.
Cento ghinee gli ho date or con un foglio mio.
Se amor vi dà molestia, spiegatevi con lei:
Se io fossi innamorato, almen così farei.
Amore in vita mia però non mi diè pena.
Milord, ci siamo intesi. Madama, io vado a cena.
(entra in casa)
Milord. Ehi. (alla bottega del libraio)
Birone.   Signor.
Milord.   Di’ a Jacobbe che venga qui.
Birone.   Signore...
(con timidezza)
M. Brindè. Ditegli ch’egli venga; non abbia alcun timore.
(Birone parte)
Milord, nel vostro cuore che dice ora l’affetto?
Milord. Nol so.
M. Brindè.   Saper vorrei
Milord.   Se aspetterete...
M. Brindè.   Aspetto.
Milord. (Va a sedere sopra una panca.)

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M. Brindè. (Ah, voglia il ciel che in lui cambisi il rio consiglio.

La pace a noi si renda; e tronchisi il periglio).
(da sè, e siede)

SCENA XIII.

Rosa sulla loggia con due lumi di cera custoditi dal vetro, con un Servitore, col quale vanno preparando una tavola per la cena del signor Saixon; e detti.

Rosa. Presto, qui si prepari per il padrone il desco;

A cena vuole andare, e vuol mangiare al fresco.
(preparano la tavola)
M. Brindè. (Tarda Jacobbe ancora! Lo avran pure avvisato). (da sè)
Rosa. Dite al padron che venga, che tutto è preparato.
(il servitore parte)
Questo arrostito bove, questo bodino inglese,
Son le vivande eterne, che si usano in paese.
Stupisco che il padrone non se ne stufi mai;
Ma s’egli mangia poco, il ber gli piace assai, (parte)

SCENA VIV.

Madama di Brindè, Milord Wambert, poi Birone.

M. Brindè. Birone? (chiama)

Birone.   Mia signora.
M. Brindè.   Di’ a Jacob che si aspetta.
Birone. Ora glielo dirò.
Milord.   (Madama ha una gran fretta), (da sè)

SCENA XV.

Il signor Saixon sulla loggia, col Servitore per servire
a tavola; ed i suddetti.

Saixon. Oh, qui con questo fresco stasera mi consolo,

Sto ben quando la moglie mi lascia mangiar solo.

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È meco indiavolata. Qui non dovria venire.

Milord, cognata mia, volete favorire?
Milord. (Sì cava il cappello senza parlare.)
M. Brindè. Al vostro dolce invito, signor, sono obbligata.

SCENA XVI.

Madama Saixon sulla loggia, e detti.

M. Saixon. In pubblico si cena? Che novità sguaiata?

Saixon. (Eccola qui). (da se)
M. Saixon.   E a quest’ora?
Saixon.   Un tondo anche per lei.
(al servitore)
M. Saixon. Scoperti, ed a quest’ora, sol cenano i plebei.
Pure sarò forzata mangiar per la paura
Che non facessi poi patir la creatura.
(Il servitore dà una sedia a madama Saixon, e le porta l'occorrente.)

SCENA XVII.

Jacobbe dal libraio, ed i suddetti; poi Gioacchino.

Jacobbe. Eccomi, chi mi cerca?

M. Brindè.   Milord è che vi vuole. (si alza)
Jacobbe. Signor, sono da voi.
Milord.   Brevissime parole.
Di questi versi indegni siete l’autor creduto.
Scolpatevi, (gli dà il foglio con i versi scritti contro di lui)
Saixon.   Milord, io bevo e vi saluto.
Milord. (Sì cava il cappello.)
Jacobbe. (Legge piano i versi.)
M. Brindè. (Stelle, che sarà mai?) (da sè)
Jacobbe.   Signor, io vi assicuro
Che tai versi non feci.
Milord.   Giuratelo.
Jacobbe.   Lo giuro.

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Saixon. Che ha Jacob, che mi pare turbato più che mai?

Jacobbe. Autor di versi indegni presso Milord passai.
Saixon. In materia di versi anch’io son fortunato;
In grazia di madama, son stato regalato.
(fa vedere un foglio)
Volete divertirvi? Or ve li manderò.
M. Saixon. Non vo’ che li mandiate.
Saixon.   Ed io li getterò.
(getta il foglio nella strada)
Jacobbe. (Lo va a raccogliere, e lo porta a Milord.)
M. Saixon. Vedrete dei spropositi scritti da un babbuino;
Basta dir che di quelli è autor monsieur Lorino.
Milord. Lorino autor di questi? (a madama Saixon)
M. Saixon.   Li ha fatti non è un’ora.
Milord. Dunque l’autor Lorino è di quegli altri ancora.
Date quel foglio a me. (a Jacobbe) Confronta in eccellenza.
M. Brindè. Anche in ciò di Jacobbe è nota l’innocenza.
Chi mai potè accusarlo di critico insolente?
Milord. Attendete. Gioacchino. (chiama, accostandosi al caffè)
M. Brindè. (A Jacobbe) Che mai gli cade in mente?
Jacobbe. Si vedrà.
Gioacchino.   Che comanda?
Milord.   Panich si è qui veduto?
Gioacchino. Egli è per l’altra parte questa sera venuto.
Milord. Venga qui.
Gioacchino.   Sta trattando delle faccende sue
Col vecchio Emanuelle.
Milord.   Vengano tutti due.
(Gioacchino parte)
Madama, non diceste che questi versi arditi
Da un vil filosofastro furono partoriti?
(a madama Saixon)
Di chi parlaste allora?
M. Saixon.   Di quelle rime belle
L’autore io mi credea che fosse Emanuelle.

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Milord. Si sentirà.

M. Brindè.   Jacobbe, che vi predice il cuore?
Jacobbe. Che tutto sarà salvo, se salvo fia l’onore.
M. Saixon. Io bevo alla salute di quei che nel paese
Diranno un po’ di bene del Filosofo Inglese.
Jacobbe. Madama assai mi onora.

SCENA XVIII.

Emanuel Bluk e maestro Panich dal caffè coi loro mantelli, ed i suddetti; poi Gioacchino.

Emanuel.   Eccomi, chi mi chiama?

Panich. Venga qui, se vi è alcuno che favellarci brama.
Milord. Sì, vi verrò io stesso. Chi disse a te, impostore,
Che di tai versi indegni Jacob fosse l’autore?
(a maestro Panich)
Panich. Milord, tu sei un grand’uomo. Ora mi piaci più.
Mi piaci, che principii a ragionar col tu.
Emanuel. (Zitto. Non dir che io...) (piano a maestro Panich)
Milord.   Rispondimi a dovere.
Panich. Risponderò. Quel foglio lasciami un po’ vedere.
Larich... Tanai... ghitton... son tutte cose belle!
Jacobbe n’è l’autore. L’ha detto Emanuelle.
M. Saixon. Emanuel sapea ch’erano di Lorino.
Io finsi per ischerzo, ma quegli è un malandrino.
Emanuel. (Si va toccando la barba senza parlare.)
Milord. Torbida gente indegna... Ma il perfido Lorino
Dove sarà?
Saixon.   Colui si ha da punir.
Milord.   Gioacchino, (chiama)
Gioacchino. Signore.
Milord.   Hai tu veduto monsieur Lorino?
Gioacchino.   Ei parte;
E prima di partire lasciate ha queste carte.

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Tutti son fogli eguali, pregommi dispensarli,

E venderli per poco, piuttosto che donarli.
M. Saixon. Sentiam.
Saixon.   Curiosità.
Milord.   Partì dunque il Francese? (a Gioacchino)
Gioacchino. L’intesi contrattare del nolo e delle spese. (parte)
Milord. (Legge)
Parto, perchè non ha la poesia buon lume,
Dove la serietà trionfa nel costume.
Andrò dove si ammette la satira più fina,
Andrò...
va pur là dove il diavol ti destina;
Odiansi in Inghilterra i pessimi scrittori.
A voi ora mi volgo ridicoli impostori.
(a Emanuel Bluk e maestro Panich)
Emanuel. (Col suo mantello si cuopre fino agli occhi.)
Milord. E tu, che di tua bocca meco mentire ardisti,
(a maestro Panich)
Anima scellerata, pessimo fra i più tristi...
Panich. (Anch’egli, osservando Emanuelle, si cuopre col mantello.)
Milord. Copritevi la faccia col manto o colla mano,
Siete già conosciuti, ed il coprirvi è vano.
Io stesso coi ritratti vo’ far di voi palese
L’effigie ed il costume per l’anglico paese;
Ed insegnare altrui, col vostro indegno esempio,
Sotto le spoglie umili come si asconda un empio.
M. Brindè. Perfidi, scellerati.
Jacobbe.   Alme mendaci e nere.
Saixon. Che bravo calzolaro!
M. Saixon.   Che perfido argentiere!
Emanuel. (Fa cenno a maestro Panich di andar via.)
Panich. (Sì scioglie il ferraiolo per parlare.)
Emanuel. (Gli fa cenno di stare zitto, e parte.)
Panich. (Toma a inferraiolarsi, e indi parte.)

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SCENA XIX.

Madama di Brindè, Milord WAMBERT, Jacobbe Monduill, madama Saixon, il signor Saixon.

M. Brindè. Il rossor li confonde.

Jacobbe.   Non san che replicare.
M. Saixon. Son furbi.
Saixon.   Son bricconi.
Milord.   Io li farò esiliare.
Jacobbe. Signor, sperar mi fate, che rendermi giocondo
Possa il perdono vostro? (a milord Wambert)
Milord.   Per or non vi rispondo.
Madama, io deggio a voi una risposta certa.
Lo stil con cui parlaste odio da me non merta.
Colpa è del mio destino, se me voi non amate;
Non voglio violentarvi, in libertà restate.
Torno ad aver per voi, tratto dal sen l’affetto,
Come risolsi un tempo, la stima ed il rispetto.
M. Brindè. Meno da un cuor gentile sperar non si potea.
Signor, se egli vi offese, dunque son io la rea.
(accennando Jacobbe)
Attende anch’ei da voi una risposta onesta,
Che l’animi e il consoli.
Milord.   La sua risposta è questa.
(porge una carta a Jacobbe, e parte)
Saixon. Mangiato ho a sufficienza. Non voglio mangiar frutti.
(parte)
M. Saixon. Anch’io sto ben così. La buona sera a tutti. (parte)

SCENA XX.

Jacobbe Monduill e madama di Brindè.

M. Brindè. Che sarà mai, Jacobbe?

Jacobbe.   Oh provvidenza eterna,
Che il mondo e gli elementi e gli animi governa!

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Milord con questa carta vuol dir che mi perdona,

Se colla firma sua mille ghinee mi dona.
Queste accettar non sdegno, queste che in guisa strana
Mi vengono offerite dalla pietade umana.
M. Brindè. Io che farò per voi, anima invitta e forte?
Jacobbe. Basta non mi obblighiate ad esservi consorte.
M. Brindè. Sì, di non esser vostra preso ho il più forte impegno.
Milord, or ch’è un eroe, di tal rispetto è degno;
Ma se di voi, Jacobbe, la mano esser non puote,
Vostro sarà il mio cuore, e vostra la mia dote.
Di quel che sopravanza al mio mantenimento,
A voi di donazione vo’ a fare un istrumento.
Jacobbe. No, madama, fermate. A me non si compete...
M. Brindè. Voglio così, lo voglio, e a me non si ripete.
Gradite un innocente atto dell’amor mio,
Di amor più non si parli; più non ci penso. Addio.
(parte)

SCENA XXI.

Jacobbe Monduill solo.

Dolce Filosofia, mio nume e mio conforto,

Sei tu l’unica stella, che mi ha guidato al porto.
Misero me! Se scosso delle passioni il freno,
Mi fossi abbandonato ai loro moti appieno,
L’ira potea condurmi de’ precipizi al segno;
Questo de’ miei nemici era il più forte impegno.
L’arte di rovinare un uom senza delitto,
E renderlo coi torti ingiustamente afflitto,
E far che i suoi disastri gli tolgan l’intelletto,
E perda per miseria la fede e il buon concetto.
Non così avviene a quelli che, in mezzo alle sventure,
A fronte agli inimici, sono anime sicure.
Trattano gl’insolenti con saggia indifferenza,
In guardia mantenendo l’onore e l’innocenza.

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Ecco lo stil che giova, ecco lo stil che apprese

Per reggere se stesso un Filosofo Inglese.
Se agli uomini ben nati grata lezione è questa,
Le voci applaudiranno, le mani faran festa.

Fine della Commedia.