Il podere (Tozzi)/IX

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Qualche volta Remigio si sentiva impazzire e qualche volta provava un benessere immenso, che lo rianimava, come quando, in mezzo all’aia, il vento gli batteva su la faccia. Queste disuguaglianze erano come il respiro affannato della sua giovinezza; della quale non s’avvedeva nè meno.

Aveva voglia di mettere a posto tutti i debiti e di guadagnare; e, immaginandosi di poterlo fare in pochissimo tempo, cominciò ad alzarsi la mattina prima degli assalariati. Li attendeva nel campo, stava a vederli lavorare mezze giornate intere, non rientrava in casa finchè non erano andati a cena. Ma non sapeva dirigerli; anzi, senza farlo capire, egli sperava d’imparare per l’anno dopo, lasciando intanto che mandassero avanti le faccende come volevano; limitandosi a darne il consenso o a comandarne una piuttosto che un’altra; in parte indovinando, in parte ricordandosi di quel che aveva imparato da suo padre; e giacchè Picciòlo e Tordo gli dicevano sempre: «Se fossi padrone, io farei così questa tal cosa o tale altra», egli sceglieva il [p. 66 modifica]consiglio che gli pareva migliore e lo dava come un ordine suo, che dovesse essere rispettato.

Berto non lo consigliava mai; e Giacomo, un mese prima di morire, l’aveva licenziato perchè era quasi impossibile parlargli senza che facesse la grinta; e perchè rubava ogni cosa.

Remigio, illudendosi che doventasse abbastanza rispettoso e sopportabile, lo trattò anche meglio degli altri; mostrandogli che non teneva conto dei dissensi avuti con il padre.

Ma Berto se ne approfittò subito, per far di più il proprio comodo; facendo capire che non gliene importava niente. Anche la sua moglie, Cecchina, era la donna più maldicente che ci fosse fuor di Porta Romana: magra e con due occhi neri come quelli dei ramarri, portava via le prime pesche, i primi carciofi, la prima uva; nascondendo tutto in una tasca fatta dalla parte di sotto del grembiale. Berto era tarchiato e grosso; con una testa rotonda; la fronte stretta come la lama di un coltello; gli occhi porcini e lustri.

Siccome non aveva potuto sfogare il suo risentimento contro Giacomo ammalato, cercava la prima occasione per rifarsela con Remigio; sicuro di non trovare la stessa resistenza. Quando Remigio stava in modo da voltargli le spalle, egli lo guardava [p. 67 modifica]trascinandosi con l'idea di litigare battendolo sulla nuca; quand'era voltato a lui, invece, sfuggiva i suoi occhi, non rispondendo mai come il giovane avrebbe avuto piacere, provocandolo o con il silenzio sospettoso o fingendo di capire a rovescio; per essere ripreso e rimproverato.

Remigio ci pativa, e se con dolcezza gli spiegava quel che aveva voluto dire, l'assalariato mostrava di non essere contento; e, qualche volta, addirittura, disapprovava bestemmiando. E vedendo che Remigio ne restava confuso e mortificato, diceva:

— Ora non venga a rifarsela con me; non mi dica niente, perchè io non intendo d'essere rimproverato da nessuno.

— Ma l'ultima parola voglio dirla io, perchè sono il padrone.

— Come sarebbe a dire? Non c'è bisogno d'insistere tanto a lungo, mi pare. Ma, del resto, io non costo niente; e quindi può trattarmi come crede.

— E chi t'ha trattato male?

— Io non lo so: non sta a me farglielo rilevare.

— Dimmi di quel che ti sei offeso.

— Oh, io non ciabo più! Faccia in un altro modo, però; se vuole stare d'accordo con me, e se vuole che io non me ne vada.

Remigio trovava in quest'ultima uscita una specie di dignità, che poteva forse [p. 68 modifica]dipendere da un animo onesto, sebbene rude e irritabile. E allora, per provargli che non se la prendeva a male, cambiava discorso.

Ma non dimenticò mai più la delusione provata quando, proprio il giorno della prima cambiale, si sentì dire da Berto:

— Non li vuol pagare lei i suoi sottoposti? Dobbiamo lavorare per passare il tempo?

Gli venne da piangere, e rispose con violenza:

— Domani avrete tutto, anche quello che avanzate da mio padre.

— Domani? Facciamoli ora i conti! È tanto che io sto zitto!

— Domani, ti ripeto.

Allora Berto, con un'astuzia ironica e ghignando, gli disse:

— Speriamo che possa pagare da vero!

Queste parole, che parevano indovinare ogni cosa, abbatterono completamente il giovane; che non seppe più rispondere. E, il rimanente del giorno, per prudenza, non andò nel campo.

Meglio, meglio venderla la Casuccia! E perchè non tornare a Campiglia? Ma poi, pensò: «Se Berto è cattivo, devo forse fargli il piacere di non essere più il padrone? Ormai, avrò i denari. Però ha ragione di avermeli chiesti; anche se m'ha detto a quel modo.» Ed uscì di casa, andando in su e in giù per l'aia.

[p. 69 modifica]Dinda, seduta a far la calza, aveva sentito tutto; e gli disse:

— Perchè ci s'inquieta così? Lo paghi, e si faccia rispettare.

— Domani lo pagherò!

Ma Dinda, per non compromettersi con Berto, non gli disse più niente; tanto più che, a quel modo, gli aveva già chiesto, senza parere, la mesata anche per sè.

Remigio s'appoggiò con i gomiti al cancello della strada. Tornavano a casa, verso Colle di Malamerenda e l'Isola, le ragazze che andavano tutti i giorni a Siena per portare le bombole del latte ed a imparare a far la sarta.

I mandorli e i peschi, sparsi su per le colline, erano quasi invisibili nell'ombra della sera; sebbene sopra il sole tramontato, restasse una luce limpida a rischiarare quasi la metà del cielo. Un branco di avvinazzati passò, cantando. Dietro un barroccio, un gregge di pecore empì tutta la strada; e il cane si fermò a fiutare lo spigolo della capanna sciupato dai mozzi delle ruote.

Solo! Era solo! A quell'ora, a Campiglia, s'accendevano le lampadine elettriche; egli faceva le somme e gli apparecchi elettrici giravano ticchiettando. Il cuore gli battè come quando da ragazzo, s'era innamorato.