Il re della montagna/3. Un supplizio persiano

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3. Un supplizio persiano

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Cap. III.

Un supplizio persiano.

Teheran, la capitale del regno e capoluogo del Beglerbeglik omonimo, è una delle più belle e più popolose città della Persia. Se per numero di abitanti è inferiore ad Ispahan, che per lunghi anni e più volte fu pure la capitale, la supera per splendore, per magnificenza di costruzioni ed anche per le opere di difesa che la circondano.

Giace nella provincia di Irak-Adjem, a 35° 41’ di latitudine Nord ed a 48° 31’ di longitudine orientale, in una vasta pianura arenosa, poco fertile, malsana durante i grandi calori dell’estate e che si chiama il piano di Sultanieh. Proprio di fronte alla città, ma ad una distanza di dieci leghe, giganteggia il Demavend.

Forma un quadrato di circa sei chilometri di estensione, difeso da grosse muraglie che possono resistere a lungo ad un bombardamento, rese più difficili a scalarsi da un largo fossato e rinforzate da grosse torri.

Quattro larghe vie, che mettono capo alle quattro porte della città che si chiamano d’oriente, d’occidente, di settentrione e di mezzodì, la tagliano e vanno a riunirsi in una vasta piazza, situata al centro della città e che si chiama, come quella d’Ispahan, Meidam.

Solo una metà dello spazio racchiuso fra le mura è occupato dalle case; il rimanente è coperto di bellissimi giardini, dove crescono secolari platani, alcuni dei quali raggiungono delle dimensioni enormi e che danno un legno duro, venato e superiore a quello dei nostri, noci, ciliegi, melogranati, che danno della frutta d’inverosimile [p. 24 modifica]grossezza, riebas, specie di rabarbaro che produce dei granelli d’un sapore squisito e acidulo, rose di China tanto ricercate dalle eleganti persiane, e viti che producono dei grappoli deliziosi, ma che non vengono adoperati per fare il vino, proibendo la religione musulmana il succo fermentato.

Fra le sue meraviglie si cita il palazzo reale, che occupa co’ suoi giardini un quarto della città, splendido per la sua architettura veramente orientale, che nulla ha da invidiare ai grandiosi e pittoreschi palazzi del Bosforo e della capitale turca, superbo per la ricchezza de’ suoi ornamenti e de’ suoi marmi, unico forse al mondo per lo sfarzo delle sue sale, le cui pareti sono, si può dire, coperte d’oro, e dove in una di esse trovasi quel famoso trono coperto di diamanti, fra i quali si ammirano quelli più splendidi dell’antico regno dei Mogol. Si citano pure i giardini reali, che nulla hanno da invidiare a quelli del famoso Palazzo di Estate fatto costruire dall’imperatore Khieng-Lung nei dintorni di Pechino, le moschee dedicate a Hussein, colle alte cupole dorate che scintillano ai raggi dell’ardente sole, la ricchezza e magnificenza dei palazzi dei principi e degli antichi satrapi, e gli arditi minareti che lanciano ad un’altezza vertiginosa le loro sottili colonne, dalle cui cime, all’alba ed al tramonto, i mollah1, col viso volto alla Mecca, la città santa delle popolazioni maomettane, gettano ai credenti i primi versetti del libro sacro del Corano, scritto colla penna di luce:

Bismillahir rahmanir rahim. (Suoni la mia parola in nome di Dio santo ed inesorabile.)

La illah il allah! Mohamed rassoul allah. (Non v’è altro Dio che Dio, e Maometto è il suo Profeta.)

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L’alba cominciava a illuminare le alte cime del Demavend, la cui massa spiccava sul fondo azzurrino e trasparente del cielo ed i mollah non avevano ancora fatta udire la loro voce dall’alto dei minareti, quando un gruppo di cavalieri armati di lunghi fucili e di scintillanti kandjar, coi villosi berrettoni calati sugli occhi, entrava in Teheran. [p. 27 modifica]

Erano sette uomini, che dalle vesti sembravano montanari, capitanati da un giovane di aspetto fiero, malgrado avesse i baffi appena nascenti, e vestito come un principe.

Trovata aperta la porta orientale, si erano inoltrati senza esitare sotto il torrione difeso da parecchi pezzi d’artiglieria; erano passati dinanzi alle guardie gettando su di loro uno sguardo sprezzante ed ora galoppavano verso la piazza di Meidam senza curarsi dei radi passanti che li guardavano con curiosità.

Giunti sulla piazza, il giovane capo trattenne il cavallo, ed i suoi grandi occhi neri, che scintillavano come diamanti, si fissarono ardentemente sul palazzo reale, senza più staccarli.

Un vivo rossore gli si era sparso sulle gote ed il robusto petto gli si sollevava impetuosamente. Si avrebbe giurato che il suo cuore, in quel momento, batteva forte forte.

— Quanto splendore qui — mormorò. — E Mirza non voleva che qui discendessi ad ammirare tale meraviglia!... È vero che la montagna è bella, ma questa città è più bella!... È strano!... Cos’è questa emozione che mi prende? Perchè il sangue mi scorre più rapido nelle vene, nel mirare quel palazzo?... Perchè mi sento prendere da un ardente desiderio di lanciarmi sotto quelle porte?...

Si volse verso i cavalieri che stavano fermi dietro di lui e chiese con una certa emozione:

— Chi abita quel meraviglioso palazzo, Irak?

— Lo sciàh — rispose il montanaro.

— Il re, — mormorò Nadir, poichè era proprio lui.

Stette alcuni istanti silenzioso, contemplando sempre quella superba costruzione, poi chiese:

— È su questa piazza che giustizieranno Harum?

— Guarda laggiù, Re della Montagna. Non vedi tu un palco e sopra di esso un grosso cannone?

— Sì — disse Nadir che aveva scorto all’estremità della piazza un grande palco, in mezzo al quale, colla bocca in alto, stava un lungo pezzo d’artiglieria, una specie di colubrina.

— Quello è l’istrumento di morte.

— Mi avevano detto che il re faceva impalare i condannati.

— È vero, ma spesso preferisce farli legare alla bocca d’un cannone già carico, per veder saltare in aria le membra fracassate del condannato. [p. 28 modifica]

— È feroce dunque lo sciàh?

— Mehemet è il più spietato dei re persiani.

— Ma il re non vedrà Harum saltare in aria. Glielo strapperemo di mano, Irak.

— Lo spero.

— Dove sono gli altri montanari?

— In un tsciaparkhanck2 condotto da un montanaro fedele.

— I curdi della pianura sono avvertiti?

— Fino da ieri e saranno qui all’ora esatta.

— Per quando è fissata l’esecuzione?

— Per questa sera, un’ora prima del tramonto.

— Andiamo a trovare gli amici, Irak.

I montanari volsero i cavalli, lasciarono la piazza e presero una stretta via che s’internava fra spaziosi giardini, perdendosi verso i bastioni della città. Dopo d’aver percorso un buon chilometro, si fermarono dinanzi ad una vecchia casa isolata, che sorgeva in un luogo deserto, incassata fra due alte muraglie merlate che pareva dovessero cingere degli spaziosi cortili.

Scesero dai cavalli, lasciandoli in custodia ad un giovane persiano che era subito accorso, ed entrarono in una vasta stanza, colle pareti screpolate, le vôlte fumose, il pavimento coperto da vecchi tappeti di feltro sbrindellato.

Una dozzina di uomini d’aspetto poco rassicurante, coi lineamenti duri e fieri, col capo coperto da immensi turbanti, il corpo da lunghe zimarre strette ai fianchi da larghe fasce riboccanti di pistoloni, di kâme (specie di pugnali colla lama larga) ed i piedi calzati di scarpe rosse colla punta assai rialzata, stavano seduti sui tappeti, colle gambe incrociate alla moda dei turchi. Alcuni fumavano silenziosamente i loro nargul, immense pipe formate d’un vaso di cristallo dorato o di metallo, pieno per metà d’acqua profumata e sormontato da una ciotola contenente un tabacco assai forte chiamato tumbak e dalla quale parte una cannuccia di cuoio; altri erano occupati nell’annerirsi la barba, operazione importante presso i persiani, che hanno una cura [p. 29 modifica]straordinaria per essa, impiegando delle ore intere a bagnarsela e a cospargersela d’una pasta fatta di polvere d’indaco, perchè assuma dei riflessi azzurrognoli; alcuni altri invece si divertivano a suonare una specie di tamburello o di mandolino.

— Chi sono costoro? — chiese Nadir ad Irak.

— Curdi nostri amici — rispose il montanaro. — Vieni, Re della Montagna.

Lo fece passare per un andito oscuro e lo introdusse in uno spazioso cortile, cinto da alte muraglie merlate. Colà, duecento montanari, duecento figli del nevoso Demavend, armati di lunghi fucili, di pistole, di kandjar e di sciaboloni, stavano seduti all’ingiro, discorrendo fra di loro a voce bassa.

Vedendo entrare Nadir, s’alzarono tutti come un solo uomo e s’inchinarono mormorando:

— Salute al giovane Re della Montagna.

— Grazie, amici — disse Nadir. — Sono fra voi per guidarvi contro gli assassini del valoroso Harum.

— Siamo pronti a seguirti — risposero i montanari. — Non temiamo le truppe dello sciàh.

— Conosco il vostro coraggio, miei prodi, ed io cercherò di essere degno di voi e del mio buon Mirza.

— Conosciamo l’audacia del giovane Re della Montagna — disse un montanaro di atletica statura.

— Grazie, amico — disse Nadir. — Ora attendiamo che giunga l’ora dell’esecuzione: quando il sole tramonterà dietro le vette del nostro Demavend, andremo a circondare il palco e a fare conoscenza colle truppe dello sciàh.

Si sedette fra i montanari e si mise a discorrere coi capi, tenendo gli sguardi fissi sulle nevose vette della montagna gigante, che torreggiava verso l’oriente, quasi temesse che il sole tramontasse senza accorgersene.

Durante il giorno nessun montanaro ardì lasciare il cortile. Quell’attruppamento numeroso poteva venire notato dalla polizia dello sciàh, e non ignorando che Harum era pure montanaro, non avrebbe mancato di prendere precauzioni tali, da rendere impossibile l’ardito tentativo.

Quando il sole si nascose dietro la più alta cima del Demavend, Nadir s’alzò. Si assicurò che il suo kandjar scorreva facilmente nella [p. 30 modifica]guaina dorata, che le pistole erano cariche, ed uscì seguito da Irak e da alcuni dei più valenti e robusti montanari.

Gli altri lo seguirono poco dopo a gruppetti di otto o dieci, per non venire notati.

Le vie della capitale si erano popolate come per incanto. La voce, che sulla piazza di Meidam dovevasi giustiziare un uomo, erasi sparsa ovunque, e la folla accorreva in masse compatte verso il palazzo reale.

Vi erano persone di tutte le razze e di tutte le religioni, accorse dai quartieri più aristocratici della città e dagli infimi, dalla pianura, dalle borgate vicine, da Demavend, da Ask e perfino da Kend.

Si vedevano passare dei gran signori, vestiti splendidamente, preceduti dai loro djelodar3 che guidavano i loro cavalli e seguiti dai kaljandjij che battevano i loro tamburelli per invitare la folla a scostarsi; numerosi popolani col capo coperto da pesanti berrettoni di pelle d’agnello a lana nera e il corpo coperto da lunghe zimarre di tela azzurra, incrociate sul petto; uomini d’affari, che per distintivo portavano un calamaio di corno infilato nella cintura; bande di curdi coi volti feroci e barbuti, insaccati in larghe vesti e le cinture ripiene di pistole, di jatagan, di kandjar e di coltellacci chiamati kard; di Arabi dalla pelle color della crosta del pan bigio, coi pittoreschi turbanti e gli svolazzanti mantelli di candida lana ed infioccati; di armeni racchiusi nelle loro lunghe tonache azzurre con guernizioni gialle; di Illiati, tribù nomadi della pianura; ed anche non pochi Luty, nomadi di sinistra fama, rapaci quanto i curdi.

Non mancavano, tra quella folla, nemmeno le donne, e si vedevano passare a frotte, tutte avvolte nei loro rubend, fitti veli che nascondono i loro volti, lasciando solamente scoperti gli occhi, e con i larghi pantaloni di seta e le scarpine a punta rialzata.

— Buona preda pei curdi — disse Irak a Nadir, che camminava al suo fianco. — Quegli avvoltoi approfitteranno della confusione per derubare le donne dei loro gioielli.

— E sono nostri alleati! — disse Nadir corrugando la fronte.

— Sono necessari, Re della Montagna. Mentre noi assalteremo il palco, essi produrranno attorno a noi una confusione enorme e faranno argine ai cavalieri dello sciàh. [p. 31 modifica]

— Preferirei pugnare senza di loro, Irak.

— Siamo valorosi sì, ma pochi, Nadir, e le guardie del re ci schiaccerebbero facilmente. Affrettiamoci, chè odo i tamburelli delle guardie a rullare.

Aprendosi il passo tra la folla a colpi di spalla, in pochi istanti giunsero sulla piazza di Meidam, che cominciava allora a popolarsi.

Le guardie dello sciàh avevano ormai circondato il palco, sul quale ergevasi il lungo cannone. Quattro file di soldati, col fucile in mano ed i kandiar fra i denti, per essere più pronti a servirsene, lo cingevano da ogni lato. Parecchi ghoulam (guardie a cavallo) caracollavano dinanzi al palazzo reale, mentre una dozzina di cammelli, portanti sul dorso dei piccoli cannoni, stavano inginocchiati agli angoli della piazza, guardati da alcuni drappelli di zembourekti (artiglieri del corpo dei cammelli) che parevano pronti a spazzare la folla con scariche di mitraglia.

Nel vedere tutti quei soldati, una profonda ruga si disegnò sulla fronte di Nadir, ma subito scomparve, scorgendo dietro di loro i montanari che l’avevano preceduto passando per certe scorciatoie ed una turba immensa di curdi.

— Lo salveremo egualmente — mormorò. — I nostri kandjar pareggeranno il numero.

Aveva appena pronunciato quelle parole che si udirono rullare i tamburelli. Tosto fra le file dei curdi si operò un movimento girante, tendente ad avviluppare le donne, sicuri che là vi era da fare maggiore preda. Nadir e Irak, trascinati dalla massa, si trovarono a pochi passi dal patibolo, dietro le file dei montanari.

— Attenti — mormorò il giovane capo all’orecchio del montanaro.

Un fremito parve agitasse la folla, e qua e là luccicarono i kâmâ, i kandjar e le scimitarre.

I tamburelli rullavano con maggior forza e andavano sempre più avvicinandosi. Un gran urlo scoppiò poco dopo da un angolo all’altro della piazza.

— Harum!... Harum!... — gridavano tutti.

La folla cominciò a tumultuare e ad ondeggiare, come un mare che la tempesta sconvolge. Era un alzar di braccia e di villosi kolà, un alzarsi di persone che si arrampicavano sulle spalle dei vicini, e uno spezzarsi e stringersi di linee di curdi che si preparavano ad [p. 32 modifica]occupare i principali punti della piazza, assieme ai nomadi Luty e Bakthyary. Vociavano, urlavano ed applaudivano con tal fracasso, da credere che rombassero le artiglierie dei cammelli.

Il condannato apparve in fondo alla piazza circondato da una triplice siepe di soldati e scortato da un plotone di cavalieri del Khorassan, armati di lunghe lance. Harum era un uomo sulla quarantina, con larghe spalle, muscolatura potente, bruno, con occhi di fuoco. Solidamente legato, egli procedeva tranquillamente, lanciando acuti sguardi sulla folla, come se cercasse dei volti amici.

— Ah! Il bravo montanaro! — esclamò Nadir.

Accostò un zuffolo alle labbra e mandò il primo fischio. Il condannato lo udì e si scosse lanciando uno sguardo indagatore sulla tumultuante folla. Montanari e curdi, subito avvolsero come fra una rete le guardie del re.

Il condannato, ben stretto fra i soldati, giunse al palco e fu fatto salire da due artiglieri.

I soldati ed i cavalieri circondarono allora il patibolo, ed il carnefice, afferrato il condannato, cominciò a legarlo alla bocca del cannone.

— Attenti! Attenti! — tuonò una voce.

I soldati si volsero ed i cavalieri tentarono di far fronte alla gente, ma non ebbero il tempo.

Nadir si era slanciato innanzi gridando:

— Addosso, montanari!...

Un clamore terribile, spaventevole rimbombò nella piazza.

— Viva Harum! — urlarono i montanari scagliandosi sui soldati coi kandjar in mano.

Il carnefice che aveva accesa la miccia, cadde sul palco sotto una scarica di pistole. La prima linea di soldati barellò tutta intera e cadde sulle pietre della piazza, sotto i pugnali dei montanari.

In meno che non si dica una orribile confusione successe fra tutta quella gente stipata. I montanari caricavano con furore le truppe strette attorno al palco, cercando di aprirsi il passo a colpi di kandjar e di chemchir, avviluppandole in una rete di acciaio e di fuoco. I soldati, impotenti di servirsi dei fucili per la strettezza dello spazio, incalzati da tutti i lati, si lasciavano uccidere tentando una inutile difesa.

Guardie e cavalieri, menando pur disperatamente le mani, [p. 35 modifica]cadevano a dozzine. I cavalli sventrati dai feriti, nitrendo ed impennandosi, rotolavano sui caduti schiacciandoli col proprio peso.

Dovunque si vedevano braccia alzate che stringevano armi rosse di sangue; un ondeggiar di teste, un cader d’uomini, e s’udiva un urlìo, un gemere, un maledire, un chiamare, un tuonar d’archibugi e di pistole.

I Curdi, per accrescere la tremenda scena, mentre i montanari si azzuffavano coi soldati, si erano gettati come tigri sulla inerme popolazione. Facevano strage su tutti gli angoli della piazza, depredando i caduti di collane e di vesti. Una banda di quei predoni, più arditi e più rapaci, approfittando della confusione, s’inerpicavano sui balconi e sui poggiuoli e sfondavano le porte e si gettavano nelle case per metterle a sacco.

Due volte le artiglierie dei cammelli tuonarono a mitraglia contro la folla coprendo la piazza di morti e feriti, ma poi si tacquero. Cammelli ed artiglieri caddero l’un dopo l’altro sotto i kandjar dei Curdi.

La pugna sempre più tremenda si concentrò sotto il palco, dove i soldati, raccozzatisi e riparati dietro i cadaveri dei cavalli, si difendevano valorosamente coi fucili, coi kandjar, colle pistole, cercando di spezzare il cerchio dei montanari, che li opprimeva da ogni lato. Tre volte irruppero furiosamente contro la banda del giovane Re della Montagna, ma invano, poichè venivano sempre ributtati.

Nadir, che pugnava come un veterano alla testa de’ suoi valorosi, trascinando un’ultima volta i compagni alla carica, li disperse.

Allora con un balzo da leone saltò sul palco e senza curarsi delle palle che fischiavano ai suoi orecchi, con due colpi di kandjar tagliò le funi di Harum.

— Ti devo la vita, giovane Re della Montagna — disse questi.

— Va’, fuggi — rispose Nadir balzando a terra.

Era tempo! Dal palazzo reale irrompevano sulla piazza, di galoppo, le guardie a cavallo dello sciàh. I Curdi ed i montanari si dispersero in tutte le direzioni, gettandosi nelle vie e nelle viuzze, o scalando le mura dei giardini, o rifugiandosi nelle case.

Nadir, diviso dai compagni, travolto dalla folla, infilò una viuzza deserta. Un ghoulam lo inseguì, ma il giovanotto aveva ancora una pistola carica. Fece fuoco sul cavaliere, abbattendolo; poi, gettata l’arma che gli era inutile, s’aggrappò alle fessure di un’alta e vecchia muraglia, superò i merli e si lasciò cadere dall’altro lato da un’altezza di sette metri.

[p. 25 modifica]... con un balzo da leone saltò sul palco e senza curarsi delle palle che fischiavano ai suoi orecchi con due colpi di kandjar tagliò le funi di Harum. (Pag. 35.)


Note

  1. Preti musulmani.
  2. Specie di scuderie dove si cambiano i cavalli. Di solito vi è unita una trattoria.
  3. Palafrenieri.