Il vicario di Wakefield/Capitolo decimoquarto

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Capitolo decimoquarto

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo decimoquarto
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CAPITOLO DECIMOQUARTO.

Nuove mortificazioni, e prova, che i mali apparenti possono essere beni reali.

Poichè l’andata delle mie figliuole alla città fu stabilita, il signor Thornhill cortesemente promise voler egli [p. 79 modifica]stesso aver cura del loro contegno, ed informar noi per lettere de’ loro diportamenti. Ma stimato essere d’estrema necessità ch’elle dovessero comparirvi in maniera corrispondente all’altezza delle speranze loro, pel quale provvedimento vi voleano quattrini, si dibattè in pieno consiglio sopra i mezzi più acconci per ragunarli, o, per dirla schiettamente, si esaminò qual cosa più convenisse di vendere. Presto si venne nella determinazione di spacciare l’altro cavallo, il quale, così scompagnato come era, riusciva inutile all’aratro, e mal atto ai viaggi per esser losco. Lo si sarebbe dunque condotto al mercato prossimo, al quale andar doveva io medesimo, onde non rimanere un’altra volta gabbati. Sebbene quello fosse di tutta mia vita il primo passo in mercatura, pure non dubitava io di poter compiere la mia commissione onorevolmente. Dalla poca o molta prudenza di quelli coi quali convive, l’uomo tace gli argomenti per istabilire quale opinione aver debba della propria prudenza; ed in famiglia esercitando io d’ordinario la mia con alcuna superiorità, mi pareva di conoscere ogni gente al fiuto, e me ne ringalluzzava tutto. Ciò non per tanto, il dimane, quand’io era già uscito della porta e messomi per alcuni passi sulla via, mia moglie mi chiamò indietro per fischiarmi sotto voce: “Bada a te; sta’ coll’occhio teso, acciocchè non te l’accocchino.”

Secondo l’uso de’ mercati, come vi fui giunto, feci correre in su e in giù per la piazza il mio cavallo a pian passo, al trotto, a galoppo; ma per alcuna pezza non apparve offeritore. Uno si accostò finalmente che esaminato d’ogni banda il cavallo e trovatolo senza un occhio, non esibì una crazia: venne il secondo; ma osservando che quello aveva uno spavento alle gambe, disse che non lo avrebbe comperato neppure pel solo fastidio del menarselo a casa: un terzo si accorse d’una spinella, e voltò le spalle: un altro inferì dall’occhio che il cavallo avesse dei vermi negl’intestini: e il quinto, più petulante, si [p. 80 modifica]maravigliò come’ io appestassi la fiera con una carogna inguidalescata, mezz’orba, che aveva uno spavento e un tumore, e non meritava che d’essere gittata ai cani a tòcco a tòcco. Di mano in mano che gli altri la schernivano, mi sentiva ancor io sorgere in cuore un certo disprezzo per quella povera bestia, ed all’avvicinarsi d’ogni avventore mi vergognava quasi; perchè, quantunque non prestassi fede a tutte le ciarle di quei bricconi, mi venía pensato come il gran numero de’ testimoni desse una presunzione fortissima ch’eglino non avessero il torto; e San Gregorio, nel trattato delle buone opere, si dichiara dello stesso sentimento.

Io me ne stava così scornato, quando un mio consacerdote e amico già da un pezzo, venuto per i suoi bisogni al mercato, s’avviò diritto verso di me, e datami la mano, m’invitò ad andare con esso lui ad un’osteria per bevere un bicchiere di quel che vi si sarebbe potuto trovare. Accettai di voglia l’offerta; ed entrati in una bettola fummo accompagnati in una cameretta di dietro nella quale non sedeva che un vecchione d’aspetto grave, tutto intento a leggere un gran libraccio ch’egli si aveva innanzi. In tutta mia vita non vidi mai una figura che più di quella preoccupasse in suo favore così in un batter d’occhio il mio cuore. Alcune ciocche grigie che parevano argento gli ombreggiavano le tempie venerande, e gli appariva sul volto antico un’aria che annunziava robustezza ancora ed una amorevolissima onestà. Ad onta della presenza di lui, noi due proseguimmo i nostri discorsi, raccontandoci l’un l’altro le nostre varie vicende, le controversie sulla dottrina di Whiston, l’ultimo mio opuscolo, la risposta dell’arcidiacono, e come mi si aveva maltrattato. Ma poco stante ci distolse da que’ parlari un giovinetto che entrato in camera corse al vecchio forestiero rispettosamente, e con voce umile gli narrò alcuna cosa. “Lascia da un canto le apologie, figliuol mio,” disse il vecchio, “perchè egli è preciso dover nostro il far del [p. 81 modifica]bene al prossimo: vorrei poterti dare di più; ma spero che con cinque lire ti rifarai de’ tuoi danni: prendile, e va’ con Dio.”

Quel modesto giovinetto pianse per riconoscimento del beneficio; pure io sentiva nell’anima una gratitudine maggiore assai della sua, ed avrei stretto volentieri fra le braccia il buon vecchio, tanto m’aveva l’atto onesto intenerito. Tornò a leggere, e noi ripigliammo i nostri ragionamenti; finchè alcun tempo dappoi il mio compagno ricordandosi di dover sbrigare alcune faccende in mercato, cercò d’andarsene, promettendo che sarebbe ritornato quanto prima, come desideroso di godere più lungamente la conversazione del suo caro dottor Primrose. In udire il mio nome, parve il vecchio guardarmi attentamente; e partito che si fu il mio amico, mi domandò con molta garbatezza s’io fossi per avventura parente del gran Primrose, quel sì intrepido sostenitore della monogamía, il quale era stato l’antemurale della Chiesa. Il cuore non mi battè mai tanto come in quel momento, e gli risposi: “La lode di un sì buon uomo quale son certo che voi siete, raddoppia la gioia destatami in petto testè dalla vostra caritatevole azione. Eccovi dinanzi quel dottor Primrose, quel monogamo a cui vi piacque concedere l’appellativo di grande. Voi mirate qui lo sfortunato teologo che ha combattuta sì lungamente e con buon successo, se male non mi stesse il dirlo, la deuterogamia del secolo.” “Signore,” replicò lo straniero stupefatto, “mi duole d’essere forse stato troppo ardito; vi chiedo perdono della curiosità.” Ed io stringendogli la mano: “No no, buon uomo, la vostra famigliarità mi piacque davvero; e poichè vi ho già accordata la mia stima, vi prego di accettare anche la mia amicizia.” — “Ve ne sono grato, o glorioso sostegno dell’incorrotta ortodossia. Ed è pur vero ch’io...?” — L’interruppi; perchè quantunque come autore io sapessi digerire in buon dato l’adulazione, mia modestia per ora non ne permetteva di più. [p. 82 modifica]Tuttavolta in tutti i romanzi della terra non troverai due amanti che abbiano così in un baleno assodata la loro amicizia com’io e ’l vecchio. Si parlò di diversi soggetti: da prima e’ mi sembrò più divoto che dotto; e cominciai a credere ch’egli non facesse conto veruno delle umane dottrine come d’inezie: nè io lo stimava meno per questo, già tempo accolta avendo io pure in segreto una tale sentenza. Però presi a dire che il mondo in generale era da biasimarsi perchè mostrava una supina indifferenza per ciò che fosse dottrina, correndo dietro con eccessivo amore alle speculazioni umane. Ed egli, quasi avesse riserbato per quell’istante tutto il sapere, rispose: “Bene sta; il mondo vaneggia: e la cosmogonia, o vogliam dire il sistema della forinazione dell’Universo, ha imbarazzati i filosofi d’ogni secolo. Qual guazzabuglio d’opinioni non hanno eglino disseminate intorno alla creazione del mondo! Sanconiatone, Maneto, Beroso e Ocello Lucano si stillarono su di ciò invanamente il cervello. L’ultimo ha queste parole, anarkon ara kai ateleutaion to pan, le quali significano che tutte le cose non hanno nè principio nè fine. Anche Maneto che fiorì a’ tempi di Nebuchadon-Asser o in quel torno; Asser è una parola Siriaca che si aggiunge comunemente al nome dei re di quella contrada, come Teglat Phael-Asser, Nabon-Asser e così via; Maneto, dico, fece una congettura che torna in assurdo; perchè dicendo noi d’ordinario ek to biblion kubernetes, cioè i libri non istruiranno mai il mondo, egli s’ingegnò di investigare.... Ma vi domando scusa; io svio troppo le mie parole dalla quistione.” E di vero egli era fuor del seminato; nè io sapeva per niun verso indovinare come si affacesse la creazione del mondo al mio tema; ma ciò bastava per darmi a divedere ch’egli era un letterato, e rendermelo più riverito. Mi venne talento di porlo a paragone; ma egli era troppo umile e di gentili maniere, per lo che schifava di contendere meco e di vincermi. Ogni volta che io inframmettessi nel dialogo alcuna [p. 83 modifica]servazioncella che avesse faccia d’una disfida, egli sorrideva, crollava il capo e non diceva parola; perchè io comprendeva che s’egli avesse voluto, poteva rispondermi per le rime. Passo passo il ragionamento si allontanò dal subbietto, e lasciate le antichità, si venne a dire qual cagione ci avesse menati al mercato. Lo informai del cavallo ch’io voleva vendere; ed egli appunto s’era recato alla fiera non per altro che per comperarne uno da dare al suo fittaiuolo: venne offerto il mio; e dàlle dàlle dàlle, strignemmo il contratto. Non restava che di pagarmi; egli impertanto trasse di tasca una cedola di trenta lire pregando ch’io gliene rendessi il di più; ma era un voler cavare dalla rapa sangue. Laonde commise all’ostessa di chiamare il di lui servo; e quegli fece il suo ingresso vestito a livrea magnificentissima. “Vanne, Abramo, fa’ cambio di questa polizza qui a casa Jackson o dove che sia, e riportami tant’oro.”

Partito quel donzello, il vecchio recitò un’orazione patetica sulla somma carestia che vi aveva d’argento; ed io gli feci eco deplorando altresì la gran penuria d’oro, cosicchè al ritornare di Abramo s’era per entrambi noi convenuto non v’essere mai stato tempo in cui li danari costassero tanto sudore come all’età nostra. Abramo raccontò d’aver cercato a destra e a manca tutto il mercato, nè riuscirgli l’intento ad onta dell’aggio d’un mezzo scudo offerto pel baratto. Tutto andava a traverso; ma il vecchio, stato alquanto sovra pensieri, mi domandò s’io conoscessi tra’ miei vicini un Salomone Flamborough; e rispondendogli io che sì, perchè abitava accanto al mio uscio, soggiunse: Poffare il mondo! la è bell’e accomodata. Vi darò una lettera di cambio ch’egli vi pagherà a prima vista; e sappiate che per cinque miglia all’intorno non v’è galantuomo più puntuale del signor Salomone. Egli è un buon pezzo che io lo conosco: e’ mi ricorda ch’io vinceva sempre a piè pari; ma sur un piè solo egli saltava più lontano di me. “Una cambiale sovra il mio [p. 84 modifica]vicino io guardava come danaro, non ignorando quant’egli fosse buon solvente; la fu dunque sottoscritta e a me data alla mano. Detto fatto, il vecchio signor Jenkinson, il suo servo Abramo e ’l mio antico cavallo il morellotto trottaron contenti pei fatti loro.

Rimasto solo, cominciai tra me e me a ruminare seriosamente e ad accorgermi d’aver fatto male a ricevere in pagamento una lettera di cambio da uno sconosciuto; ed avvisai da uom prudente di richiamare il compratore e farmi restituire il mio cavallo; ma non era più tempo. Imperò m’incamminai difilato vêr casa con animo di riscuotere subito la cambiale. Trovai quell’onesto amico di Flamborough sulla porta sua colla pipa in bocca; gli dissi della piccola polizza; la lesse e rilesse. — “Buon Salomone, quella firma tu la saprai dicifrare, Efraimo Jenkinson.” — “Sì sì, il nome è chiaro, e so chi l’ha scritto; il peggior furfante che viva sotto del cielo, quello stesso mariuolo che ci ha venduti gli occhiali. Capegli grigi, non egli è vero? guardatura veneranda, e con un abito che non ha orecchie alle saccocce. Il saccentone ti avrà sfibbiata una tiritera di parole greche intorno la cosmogonia e ’l mondo. Qui sta tutta la sua erudizione, e sempre ch’egli si abbatte in letterato gliela canta distesamente: ma io lo conosco il briccone; e che sì ch’io lo afferrerò pel collo! lo non gli rispondeva che con sospiri; e quantunque fossi già abbastanza afflitto, prevedeva che mi si sarebbe scaricato addosso il colpo più fiero nell’atto di venire al cospetto di mia moglie e delle figliuole. Non provò tanta angoscia mai e batticuore uno scolare dappoco nel ritornarsene, dopo aver sfuggita per alcuni giorni la scuola, in faccia del suo maestro, quant’io ne sentii nell’avviarmi vêr casa mia. Determinai non pertanto di prevenire la collera de’ miei coll’esser io il primo ad adirarmi per alcun motivo contro di loro. Ahimè! che nell’entrare trovai la famiglia per niun verso disposta alla zuffa. Tutto era lagrime e gemiti, [p. 85 modifica]essendo venuto quella mattina il signor Thornbill ad avvertire, che il viaggio delle fanciulle alla città andato in fumo interamente, le due gentildonne alle quali aveva qualche maligna lingua riportate delle novelle disaggradevoli sulla nostra condotta, erano già partite per Londra. Il signor Thornhill non sapeva indovinare l’autore nè la cagione di quelle dicerie; ma chiunque si fosse che ne avesse così malmenati, egli ci assicurò che ad ogni modo avrebbe conservata alla nostra famiglia la sua amicizia, nè cesserebbe dal proteggerne.

A paragone di codesta loro sciagura la mia era un nulla, sicchè elle non durarono fatica a sopportare con rassegnazione la mia asineria: e tutti i nostri pensieri furono rivolti a scoprire il calunniatore sì vile d’una povera famigliuola ch’era troppo umile per poter eccitare ad invidia, e troppo innocente perchè altri ne dovesse trarre disgusti.