Inni omerici/A Demetra/Inno

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Omero - Inni (Antichità)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1914)
A Demetra - Inno
A Demetra - Introduzione Inni omerici

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Dèmetra chioma bella, la Dea veneranda, nel canto
celebro prima, e la Dea dall’agil mallèolo, rapita,
come il tonante volle Croníde, dal Nume Edonèo,
lungi da Dèmetra, Dea datrice di pomi, Signora
delle stagioni, mentr’essa scherzava con l’altoprecinte
figlie d’Ocèano, e fiori coglieva sul morbido prato:
iridi, crochi, rose, viole, giacinti, e il narciso,
cui germogliò, ché fosse lusinga alla rosea fanciulla,
per compiacer Polidète — cosí volle Giove — la Terra:
fiore fulgente, brillante, miracolo a ognun che lo vegga,
sia dei mortali, sia dei Numi che vivono eterni:
ché dalla sua radice germogliano cento corolle,
e per il suo profumo fragrante sorride la terra,
alto sorride il cielo, sorridono i flutti del mare.
Meravigliata ella stese, per cogliere il dolce trastullo,
ambe le mani; e la terra, nell’ampia contrada di Nisa,
si spalancò, ne balzò, sui suoi corridori immortali,
il Dio figlio di Crono, che tutti i defunti riceve;
e la rapí reluttante, piangente la trasse sul carro
d’oro. Levava quella, con gemiti acuti, la voce,

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ed invocava il figlio di Crono, l’eccelso, il possente:
però, nessuno udì degli uomini il grido, nessuno
degli Immortali, delle sue vaghe compagne, nessuna.
Solo di Perse la figlia, fanciulla d’ingenuo cuore,
cinta di morbidi veli, dal fondo l’udì del suo speco
Elio sovrano l’udì, d’Iperíone il fulgido figlio,
quando invocava il padre Croníde. Ma questi, lontano
stava, in disparte dai Numi, fra molte preghiere, in un tempio,
gradía le belle offerte degli uomini nati a morire.
E lei che reluttava, rapí, per decreto di Giove,
di sua madre il germano che tutti i defunti riceve,
di Crono il figlio illustre, sui suoi corridori immortali.

     Dunque, la Dea, sin che scòrse la terra ed il cielo stellato,
e l’estuante gorgo del mare pescoso, ed i raggi
del sole, ancora speme serbò di vedere la madre
sua veneranda, e le stirpi dei Numi che vivono eterni:
sebben crucciato, il cuore tuttora molciva speranza.

Lacuna.
Certo si diceva che Persèfone, quando ebbe perduta ogni speranza, cominciò a levare alte grida.

Ed echeggiavan le cime dei monti, e gli abissi del mare,
per la divina voce. L’udì la celeste sua madre,
e nel suo cuore acuto cordoglio s’effuse; e le bende
con le sue mani strappò d’intorno alle chiome immortali,
il cerulo suo manto gittò via dagli omeri entrambi,
e si lanciò, che un uccello pareva, per terra e per mare.

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a ricercare la figlia; ma niuno degli uomini volle
dirle la verità, nessuno dei Numi immortali,
nessuno giunse a lei degli uccelli veridico nunzio.
Per nove dí, sovressa la terra, la Dea veneranda
corse, in entrambe le mani stringendo una fiaccola ardente;
né, pel suo cruccio, mai di nèttare dolce o d’ambrosia
cibo toccava, mai non tuffò nei lavacri le membra.
Ma quando Aurora apparve fulgente, nel decimo giorno,
Ècate incontro a lei si mosse, e stringeva una face,
e a lei recò messaggio, le volse cosí la parola:
«Delle stagioni o Dea, che fulgidi beni comparti,
Demetra, quale mai dei Superi, qual dei mortali
Persèfone rapí, nel cruccio sommerse il tuo cuore?
Io la sua voce udii: però non han visto questi occhi
il rapitore chi fu: tutto vero è ciò ch’io t’ho narrato».
     Ècate disse cosí. Né a lei rispondeva parola
la figlia chiomabella di Rea; ma veloce con essa
corse, in entrambe le mani stringendo una fiaccola ardente.
Giunsero al Sole sovrano, che gli uomini vigila e i Numi,
stettero innanzi ai suoi corridori; e gli chiese la Diva:
«O Nume, abbi a me Dea riguardo, se mai con parole,
con atti mai, giocondo t’ho l’animo reso ed il cuore.
La figlia del mio grembo, la bella, il mio dolce germoglio,
alta ne udii la voce suonare per l’ètra infecondo,
come se forza a lei facessero; e pur non la vidi.
Ma tu, che sopra tutta la terra e sul pelago tutto,
dal sommo ètra divino, dei raggi lo sguardo rivolgi,
dimmi la verità, se la sai, la diletta mia figlia
quale dei Numi, quale degli uomini nati a morire
l'ha, mal suo grado, ghermita, mentre ero lontana, e s’invola».

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Cosí diceva; e il Sole rispose con queste parole:
«Dèmetra, figlia di Rea chioma fulgida, tutto saprai:
ché assai t'onoro, e assai mi duole vederti crucciata
per la tua figlia bella da l’agil malleolo. Nessuno
dei Numi colpa n’ha, se non Giove signore dei nembi:
ad Ade, al suo germano, la diede, ché fosse sua sposa;
e questi la rapí sui suoi corridori, l’addusse,
che strida alte levava, per nebbie, per tramiti d’ombra.
Dèmetra, adesso, però, poni tregua a questi ululi grandi.
Serbar tanta ira vana nell’animo a te non conviene:
genero vile Edonèo famoso non è fra i Celesti:
è tuo fratello, è nato d’un sangue con te: sommo onore
ottenne, allor che fu diviso il dominio in tre parti:
con quelli di cui re lo fece la sorte, soggiorna».
Disse, ai cavalli die’ voce: con impeto quelli al suo grido
trassero il carro veloce, con furia di rapidi augelli.

     E cruccio più mordace, più fiero struggeva la Dea;
e irata contro il figlio di Crono signore dei nembi,
lungi vagò dal consesso dei Numi e dai picchi d’Olimpo,
per le città degli umani, pei fertili campi, l’aspetto
suo nascondendo a lungo; né alcuno conoscerla seppe
che la vedesse allora, né uomo, né donna elegante,
sinché giunta alla casa non fu dell’accorto Celèo,
ch’era in quel tempo sovrano d’Elèusi fragrante d’incensi.
Lungo la via sede’, col cuore serrato d’angoscia,
presso la fonte Partenia, d’onde acqua attingevan le genti,
all’ombra — e sopra lei cresceva un arbusto d’ulivo — ,
simile a vecchia oppressa dagli anni, ed esclusa dai parti,
esclusa dalle gioie di Cípride amica dei serti,

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come pur sono l’aie che allevano i figli ai sovrani,
come le dispensiere, che reggon le case in faccende.
La videro le figlie del figlio d’Elèusi, Celèo,
ch’eran venute qui per attingere l’acqua corrente
entro le brocche di rame, portarla alla casa del padre:
quattro, nel fiore degli anni più belli, e sembravano Dee:
Callídice, con Demo l’amabile, con Clisidíce,
con Callitòe, primogenita; e non ravvisaron la Diva:
ch’è per gli umani cosa ben ardua, conoscere i Numi.
E, stando presso a lei, le volsero alate parole:
«Vecchia, chi sei, donde giungi, rampollo d’antiche progenie?
Lungi dalla città perché stai, né t’appressi alle case?
Entro le stanze ombrose la vita qui passano donne
simili a te negli anni, forse anche d’età più fiorente:
t’accoglierebbero tutte con atti e parole benigne».

     Cosí diceano. E questo rispose la Dea veneranda:
«Figlie mie care, quali che voi delle tenere donne
siate, salvete: io vi voglio dir tutto: non è già vergogna,
se mi volgete voi dimande, che il vero io vi dica.
Mi chiamo Deo: tal nome la nobile madre mi pose;
ed or da Creta giungo, sul dorso del pelago immenso,
a mal mio grado: contro mia voglia, mi trassero a forza
dalla mia terra i pirati. Or questi, col legno veloce
giunsero a Tòrico; e qui, le donne discesero a terra,
tutte in un branco, e i pirati con esse; e vicino agli ormeggi
apparecchiaron la cena. Ma voglia del cibo soave
io non avevo; e via mi lanciai per le strade già buie,
e m’involai cosí dai miei tracotanti padroni,
ché, dopo avermi rubata, da me non traessero lucro.
E, a caso errando, sono qui giunta cosí; ma che terra

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sia questa, ignoro; ignoro che genti soggiornano in essa.
Ma tutti i Numi a voi, quanti hanno dimora in Olimpo,
diano legittimi sposi, vi facciano madri di figli,
come ne braman gli sposi. E voi, compassione, o fanciulle,
o care figlie, abbiate di me, sin ch’io giunga alla casa
di due giovani sposi, dove io renda ad essi servigi,
quali una donna già vecchia può rendere: voglia ne ho molta.
Ed anche un neonato tener fra le braccia potrei,
e nutricarlo bene, potrei far la guardia alla casa,
il letto dei padroni rifare potrei nel recesso
del talamo, potrei nei lavori addestrare le ancelle».
     Cosí disse la Dea: rispose cosí di Celèo
la più vezzosa figlia, Callídice, vergine intatta:
«Mamma, quello che i Numi ci dànno, per quanto ci crucci,
gli uomini debbon soffrire: ché i Numi son troppo più forti.
Ma questo io ti dirò per filo e per segno: per nome
gli uomini ti dirò che son qui sopra tutti onorati,
che hanno potestà sul popolo, e son baluardo
alla città coi saggi consigli e le giuste sentenze.
Dirò dunque per primo l’accorto Trittòlemo, Eumolpo
che mai tócco da menda non fu, Polissèno, Diòcle,
e Dòlico, ed il nostro magnanimo padre. Le loro
spose, alle case loro provvedono tutte; e nessuna
sarà di queste, certo, che quando tu prima le appaia,
ti scacci via di casa, perché non le piaccia il tuo viso:
anzi, t’accoglieranno: ché sembri, a vederti, una Dea.
Or, se ti piace, rimani: ché noi torneremo alla casa
di nostro padre, e tutto diremo alla mamma diletta,
a Metaníra, punto per punto, se forse ella dica,
che a casa nostra, senza cercar quella d’altri, tu venga.

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In casa nostra, un bimbo s’alleva, che nato è da poco,
l’ultimo nato, a lungo bramato, l’amore di tutti.
Ora, se tu l’allevassi, quando ei fosse pubere fatto,
invidiarti dovrebbe qual sia delle donne mortali
che ti mirasse: tanti ne avresti magnifici doni».
     Disse cosí. Consentí col capo la Diva, e le brocche
lucide empiute d’acqua, partiron le vergini liete.
Alla gran casa presto pervenner del padre; e alla madre
dissero tutto quello che avevano udito e veduto.
Disse la madre che andassero presto, chiamasser la vecchia,
promessa a lei di larga mercede facessero. E quelle,
come cerbiatti o vitelle saltellan sui morbidi prati
a primavera, poiché di pascolo sono satolli:
cosí quelle, reggendo le pieghe dei nitidi pepli,
per l’incassata carraia tornaron di corsa: le chiome
svolavan su le spalle, parevano fiori di croco.
All’orlo della strada la Diva trovarono, dove
l’avean lasciata; verso la casa l’addusser del padre;
e dietro a le fanciulle, la Diva, col cuore in angoscia,
moveva: era il suo capo coperto dal velo: l’azzurro
peplo ondeggiava intorno ai morbidi pie’ della Diva.

     Ben presto di Celèo, signore nutrito dai Numi,
furono giunte alla casa, nel portico entrarono, dove
sedea, presso il pilastro del solido tetto, la madre
che il pargoletto, nuovo rampollo, stringeva al suo seno.
Corsero presso a lei le figlie: la Diva il suo piede
sopra la soglia mise: la testa toccò l’architrave,
la porta piena fu tutta quanta d’un raggio divino.
E reverenza, allora, vergogna, pallore, sgomento

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tennero Metaníra: s’alzò dal suo trono, alla Diva
invito fece ch’ella sedesse; e non volle Demètra
che le stagioni arreca, che i fulgidi beni comparte,
sedere sopra il trono fulgente; e restava in silenzio,
gli occhi figgendo al suolo; finché la scaltrissima Giambe
le porse un saldo seggio coperto d’un candido vello.
Quivi seduta, il velo distese dinanzi al suo volto,
e sopra il seggio, a lungo, rimase nel cruccio, e taceva.
Né di gradire alcuno mostrò con parola o con atto:
senza sorridere, senza bevanda gustare né cibo,
sedeva; e la struggeva desio della vaga sua figlia:
sinché la scaltra Giambe, coi tanti suoi lazzi e le beffe,
non ebbe astretta al riso la Dea venerabile e pura,
ed al sorriso, non ebbe tornato il suo cuore, al sereno:
e sempre Giambe, poi, per l’umore faceto, le piacque.
E Metaníra, una coppa di vino più dolce del miele
rempiuta, a lei la porse. La Diva, però, la respinse:
bere purpureo vino, diceva, non l’era concesso;
ma disse che farina con acqua e fragrante puleggio
mescesse, e a lei l’offrisse da bere. La sacra bevanda
quella apprestò, l’offrí, cosí come volle la Diva.
Deo veneranda l’accolse, fu questo il principio del rito.
     E Metaníra elegante cosí cominciava a parlare:
«Salute, o donna! Tu non sei nata da gente dappoco,
anzi, da illustri parenti: tal grazia negli occhi ti fulge,
tale decoro, qual’è dei sovrani datori di leggi.
Ma sopportare, per cruccio che dia, ciò che mandano i Numi,
debbono gli uomini a forza: ché il giogo sul collo li aggrava.
Ora, quello ch’è mio, sarà tuo, poiché tu sei qui giunta;
e tu, questo bambino che tardi mi diedero i Numi.

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che io più non speravo, che m’è dilettissimo, alleva.
Se tu l’alleverai, quand’ei sarà pubere fatto,
invidiarti dovrà qual sia delle donne mortali
che te miri: tal copia ne avrai di magnifici doni».
     Demètra a lei cosí rispose, l’amica dei serti:
«Donna, anche a te, salute, ti diano i Numi ogni bene.
Questo bambino, come tu vuoi, volentieri l’accetto
per allevarlo; e nutro speranza che mai né fattura,
per negligenza dell’aia potrà danneggiarlo, né filtro:
poi che un antídoto io so possente dell’erbe maligne,
un amuleto so che tiene lontani gl’incanti».
E, cosí detto, il bimbo serrò con le mani immortali
all’odoroso seno: il cuor della madre fu lieto.
Cosí, dunque, il fulgente figliuolo del savio Celèo,
Demofoónte, a cui Metaníra la bella die’ vita,
Demètra crebbe sí, che un Nume sembrava all’aspetto.
Ché pane mai né latte cibava...

Mancano due emistichi.


                                                  E sempre la Diva
l’ungea d’ambrosia, come pur fosse figliuolo d’un Nume,
col dolce alito suo lo cresceva, stringendolo al seno.
La notte, occulto poi lo tenea fra le vampe del fuoco,
come uno stizzo, di furto dai suoi genitori; e stupore
era per essi vederlo fiorire, che un Nume sembrava.
E da vecchiaia l’avrebbe schermito la Diva, e da morte,
se, stoltamente, una notte, lasciato il suo talamo aulente,
la bella Metaníra venuta non fosse a spiare.
Un grido alto levò, si percosse sui femori entrambi,

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pel figlio suo temendo, con l’alma acciecata dal cruccio;
e queste pronunciò, singhiozzando, volanti parole:
«Demofoónte, figlio, nel fuoco ti tiene nascosto
la stranïera; e a me cordogli, a me spasimi appresta».
Disse cosí Metaníra piangendo. La Dea fra le Dive,
Dèmetra, amica dei serti, l’udiva, e, sdegnata nel cuore,
il pargolo, che tardi nato era, che ad essi nutriva,
via da le fiamme tolse, e giù dalle mani immortali
lasciò cadere al suolo: tant’ira pervase il suo petto.
E queste a Metaníra vezzosa parole rivolse:
«Uomini ciechi, senza sagacia, che nulla sapete
mai preveder del fato che avanza, sia buono, sia tristo!
D’un mal senza rimedio t’è causa la tua stolidezza.
L’onda implacabile sappia di Stige, ch’è il giuro dei Numi,
sappia che immune sempre da morte e vecchiaia tuo figlio
io reso avrei, concessi gli avrei privilegi immortali.
Ora, non più potrà sfuggire le Parche di morte,
sebbene onore avrà perenne, perché l’ho raccolto
sopra le mie ginocchia, fra queste mie braccia ha dormito.
Dèmetra io sono, colma d’onori, che agli uomini arreca
sommo vantaggio, più che ogni altro dei Numi, e diletto.
Ed ora, il popol tutto mi deve innalzare un gran tempio,
e presso un’ara, lungo la fonte Callícora, sotto
l’eccelse mura della città, sopra il clivo che sporge.
Ammaestrare nei riti li voglio io medesima; e voi
con sacrifizi puri potrete placare il mio cuore».
     Detto cosí, tramutò la Diva figura e statura,
gittò via la vecchiaia, spirò tutta quanta bellezza:
una soave fragranza s’effuse dai pepli odorati,
uno splendore lungi raggiò, dalle membra immortali,

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bionda la chioma fluì della Dea sopra gli òmeri, e piena
tutta la casa fu d’un bagliore che folgore parve.
E uscí fuor dalla stanza. Mancarono allor le ginocchia
a Metaníra, a tal vista, restò lungo tempo in silenzio,
né le sovvenne più di levare dal suolo il bambino.
Ma le sorelle udiron del pargolo i flebili gridi,
dai morbidi giacigli balzarono, accorsero; e questa
il pargolo raccolse dal suolo, al suo petto lo strinse:
ravvivò l’altra il fuoco: la terza, con rapidi passi,
mosse traverso la stanza fragrante, sostenne la madre.
E, attorno al bimbo accolte, lo lavan, lo cingon di fasce,
mille moíne gli fanno: però non si placa il bambino:
perché queste nutrici, quest’aie, son troppo da meno.
Trepide di terrore, rivolsero a Dèmetra preci
cosí, tutta la notte. E appena fu sorta l’aurora,
tutto a Celèo possente narraron quanto era seguito,
e quale era la brama di Dèmetra amica dei serti.
Ed ei, tutto a consesso chiamato il suo popolo ricco,
disse che un tempio opulento levassero a Dèmetra, Dea
fulgidachioma, e un’ara sovresso lo sprone del colle.
Udite le parole del re, l’ubbidirono tutti;
e fu fondato il tempio, fiorí per voler della Diva.
E quando il tempio fu compiuto, e cessato il lavoro,
fecero tutti a casa ritorno. E, nel tempio seduta,
Dèmetra bionda, lontana da tutti i Beati Celesti
stette, poiché desio la struggea della figlia perduta.

E un morbo suscitò funestissimo sopra la terra,
il più crudo fra quanti ne fossero mai: da le zolle
non uscían germi più: li teneva nascosti la Dea.

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E invano il curvo aratro tiravano i bovi pei campi,
e molto candido orzo fu invano gittato nei solchi.
E tutta avrebbe qui sterminata la gente mortale
con l’odïosa fame, privati i Signori d’Olimpo
dei sacrifici avrebbe, del fulgido onor delle offerte,
se non avesse Giove provvisto con l’alto consiglio.
Iri dall’ali d’oro mandò, che chiamasse la Dea
Dèmetra, chiomabella, dal fulgido aspetto; e il comando
súbito quella compie’ di Giove che i nugoli aduna.
Rapida superò, correndo, lo spazio frapposto,
e giunse alla città d’Elèusi tutta fragrante,
nel santuario trovò la Diva dal cerulo peplo,
Dèmetra, e a lei si volse col volo di queste parole:
«Dèmetra, il padre Giove, pensier che non falla, ti chiama,
ché tu venga fra i Numi che vivono eterni; e tu vieni:
vano il messaggio non resti che adesso io ti reco, di Giove».
     Cosí disse pregando; però non convinse il suo cuore.
E allora, il Padre, i Numi beati che vivono eterni,
ad uno ad uno, tutti mandò. La chiamarono quelli,
venuti un dopo l’altro, le offersero doni fulgenti;
ma niun d’essi pote’ convincerne l’anima e il cuore.
Le offerte duramente respinse, tanto era il suo cruccio;
e disse che mai più non sarebbe tornata all’Olimpo,
né più concesso avrebbe che mai germogliassero i frutti,
prima di rivedere la sua prediletta figliuola.

E quando questo, Giove che tuona profondo, ebbe udito,
all’Erebo mandò l’Argicída dall’aurëa verga,
che d’Ade il cuor placasse con miti parole, e adducesse
dalla caligine buia Persèfone ai raggi del sole,

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sí che tornare potesse fra i Dèmoni, e Dèmetra alfine
lei rivedere potesse, del cuore calmare lo sdegno.
Né tardo Ermète fu: d’Olimpo lasciate le sedi,
subitamente balzò della terra nei bàratri fondi.
E dentro la sua casa trovò dei defunti il Signore,
sopra un lettuccio seduto: vicina gli stava la sposa,
contro sua voglia, perché la struggeva desio della madre,
e nella mente andava pensando i soprusi dei Numi.
Presso gli stette, cosí gli disse il possente Argicída:
«Ade ceruleo crine, che sei dei defunti signore,
a me Giove ordinò che la bella Persèfone a luce
io conducessi fra loro, dall’Èrebo, sí che la madre
lei rivedere potesse, calmasse il rancore e la furia
funesta ai Numi tutti: ché medita un fiero disegno:
sotto la terra i germi nasconde; e perdute le offerte
vanno dei Numi: fiero corruccio la preme; e in Olimpo
tornare più non vuole: seduta in un tempio fragrante,
soletta se ne sta, d’Elèusi la rocca protegge».
     Cosí diceva. E al Sire dei morti Edonèo, corse un riso
sotto le ciglia; e senza contrasto al volere di Giove,
sùbito volse alla saggia Persèfone queste parole:
«Persèfone, ora, presso la madre dal cerulo peplo
ritorna, e in seno rendi piú placidi l’animo e il cuore,
né di soverchio piú crucciarti dell’altre fanciulle:
ché, certo, indegno sposo per te non sono io fra i Celesti,
perché fratello io sono di Giove Croníde; e tu meco
signora qui sarai di tutto che s’agita e vive.
E quanti privilegi fra i Numi son massimi, avrai;
e pena eterna avrà chi torto ti faccia, e non t’offra.

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quando adirata sei, sacrifizi a placarti, i tuoi riti
devotamente compiendo, recandoti i debiti doni».
     Disse cosí. Giubilò la saggia Persèfone, e un balzo
súbito die’, per la gioia. Ma un chicco soave lo sposo,
di melagrano le die’ di nascosto, perché lo mangiasse,
e a sé cosí provvide, perché non restasse la sposa
eternamente presso la Diva dal cerulo peplo.
Poscia. Edonèo, che a tanti comanda, i cavalli immortali
costrinse sotto il giogo, dinanzi dall’aureo carro.
La Diva il carro ascese, Ermète gagliardo a lei presso
nelle sue mani strinse le briglie e la lucida sferza,
via dalla casa uscí. Né furono lenti i corsieri;
anzi, velocemente percorsero il lungo cammino.
Né correntia di fiumi, né valle selvosa, né fiera
l’impeto rattenere potè dei corsieri immortali,
ch’alto sovressa la terra tagliarono l’ètere a corsa.

E si fermò dove stava la Diva Demètra, dinanzi
al santuario fragrante. La Dea, non appena li vide,
balzò, come Baccante pei floridi boschi d’un monte.

I nove esametri che seguono sono mutilati in modo da
non poterne ricavare, senza sommo arbitrio, un senso
filato. Dèmetra, naturalmente, rivolge dimande alla figlia.
E le dice che se non ha gustato il melagrano potrà
rimanere eternamente su la terra.


     «E presso me, presso il figlio di Crono che i nugoli aduna
abiterai, sarai segno d’onore fra tutti i Celesti.
Ma se quel chicco hai gustato, sotterra dovrai, nell’abisso

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tornare ancora, e un terzo dell’anno abitare nell’Ade,
e a me vicino gli altri due terzi, ed agli altri Celesti.
Ma quando su la terra olezzino i fiori, e germogli
ogni famiglia di piante, dal buio nebbioso soggiorno
di nuovo tornerai, meraviglia ai Celesti e ai mortali.
Ma in quale inganno il Dio che tutti riceve, ti trasse?»
     E a lei queste parole rivolse Persèfone bella:
«Tutta la verità, madre mia, raccontare ti voglio.
Ermète giunse a me, benevolo araldo veloce,
ché Giove lo mandò, lo mandarono gli altri Beati,
ch’io dall’Erèbo uscissi, che tu mi vedessi, e lo sdegno
funesto deponessi, che t’anima contro i Beati.
Io feci súbito un balzo di gioia improvvisa; e il mio sposo
di melagrano un chicco mi die’, più soave del miele.
Non lo volevo, io no, ma pur mi costrinse a gustarlo.
Come poi mi rapí, per volere del saggio Croníde,
ti spiegherò, ti dirò tutto quanto, cosí come chiedi.
Stavamo tutte noi, fanciulle, sul florido prato,
Elettra, Fèna, Ianta, Leucíppa, Callíroe, Iàca,
Mèlita, Melobósi, Rodèa, Tiche, Ocirëa bella,
Iànira, Acaste, Admèta, Criseia, Ròdope, Pluta,
Urania, Galassàura, Calipso l’amabile, e Stige.
Folleggiavamo, sul prato cogliendo gli amabili fiori,
l’iridi insieme, il croco mirabile, e bocci di rose,
bocci di giglio, a vedere stupendi, e il giacinto, e il narciso,
cui germogliava insieme col croco la terra infinita.
Io li coglievo, dunque, col cuore in letizia; e la terra
si spalancò, ne balzò fuori il Nume che tutti riceve,
e sopra il carro d’oro, pei baratri bui della terra,

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mi trascinò reluttante, che invano levavo le strida.
Questa è la verità, che, sebbene crucciata, ti narro».
     Cosí, per tutto il giorno, col cuore in ambascia, le Dive
l’una dell’altra assai consolarono l’anima e il cuore,
l’una facendo all’altra carezze; ed il cuor dai cordogli
ebbe alfin tregua, e gioia l’una ebbe dall’altra, e la diede.
     E venne Ècate ad esse vicina, dal morbido velo,
e molto festeggiò la figlia di Dèmetra bella;
e fu, da quindi innanzi, compagna e ministra alla Diva.

     E il Nume poi, che tuona profondo, mandò messaggera
Rea dalla chioma bella, perché conducesse fra i Numi
Dèmetra, la Signora dal cerulo peplo; e promise
che onori avrebbe a lei concessi fra i Numi immortali;
e consentí che un terzo dell’anno volubile resti
la sua figliuola nella caligine fosca d’abisso,
gli altri due terzi, presso la Madre, e i Beati Celesti.
     Disse. Né tarda fu la Diva al comando di Giove.
Rapidamente giù si lanciò dalle vette d’Olimpo,
e presto al Rario giunse. Ferace per uberi zolle,
un tempo, era; ma frutto non dava, ma sterile adesso,
arido stava, e molto bianco orzo serrava nascosto,
come Demètra voleva dall’agil malleòlo. Ma presto,
come la Primavera tornasse, doveva fiorire
di lunghe spighe; e tutti di spighe recise gravarsi
i pingui solchi, e giunchi le avrebbero strette in mannelli.
E l’una e l’altra qui, vedendosi, furono liete.
     E Rea parlò, la Dea dal morbido velo, a Demètra:
«O figlia, vieni: Giove, signore del tuono, ti chiama,
ché tu venga fra i Numi: concederti onori promette.

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Seguono cinque versi mutilati, nei quali Rea ripete a Demètra le promesse di Giove.

Su’ persuaditi, figlia, né troppo covare lo sdegno
contro il figliuolo di Crono signore dei nuvoli, e il frutto
súbito fa’ germogliare che in vita mantiene i mortali».
     Disse cosí; né restía fu la Dea dalle vaghe ghirlande.
Súbito i frutti fe’ germogliar da le zolle feraci,
e tutta si coprí la terra di fiori e di fronde.
Ed ai sovrani datori di leggi, pria ch’ella partisse,
a Díocle, di cavalli maestro, a Trittòlemo, a Eumòlpo,
al condottiere di genti gagliardo Celèo, fu maestra
dei venerandi riti, a tutti insegnò celebrare
le pure orge: concesso non è trasgredirle o spiarle,
né farne ciancia: la voce rattenga l’ossequio a le Dive.
Tra gli uomini mortali, beato chi giunge a vederle;
ma chi restò profano, chi parte non v’ebbe, non gode
uguale fato, dopo la morte, nell’umido buio.

Ora, poi ch’ebbe tutto disposto, la Diva, all’Olimpo
novellamente salí, fra il consesso degli altri Immortali.
E qui, vicino a Giove signore del folgore, stanno
beate ed onorate. Felice su tutti, il terrestre
che queste Dee di cuore diligon: ché mandano tosto
alla sua casa opulenta, ché segga sul suo focolare,
Pluto, che agli uomini dà mortali le grandi ricchezze.

     Su, Dee che proteggete le genti d’Elèusi fragrante,
e Paro, tutta cinta dall’acque, ed Antróna rocciosa,

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Diva delle stagioni, Signora che rechi i fulgenti
doni, tu stessa, e teco tua figlia, Persèfone bella,
dammi, dell'inno in cambio, ch’io meni gioconda la vita,
Io mi ricorderò d’esaltarti in un carme novello.