Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XXXIII

Da Wikisource.
../Capo XXXII

../Capo XXXIV IncludiIntestazione 18 aprile 2024 100%

Libro quarto - Capo XXXII Libro quarto - Capo XXXIV


[p. 569 modifica]

CAPO XXXIII.

Narsete rimanda i Langobardi. Verona indarno assediata da Valeriano. — Elezione di Teia a re de’ Gotti. Narni, Spoleto e Perugia occupate dagli imperiali. — Questi assalgono le mura di Roma e rendonsene agevolmente padroni.

I. Narsete lieto dei riportati vantaggi riferivali di continuo al Nume, siccome vero autore, a non dubiarne, del tutto, e provvedeva con sollecitudine ad ogni bisogno. Fu dunque prima sua cura di risarcire a prezzo i danni arrecati dall’indegna licenza dei Langobardi condotti seco, i quali per non dire delle altre sozzissime sceleraggini perpetrate, incendiavan le case a cui avvenivansi ed oltraggiavano le femmine riparate ne’ sacri templi. Di più accommiatata lor turba con larghissimo danaro la rimandò in patria, commettendo a Valeriano ed a suo nipote Damiano di scortarla insino alle frontiere del romano impero, acciocchè lungo il cammino la raffrenasse da guasti e ribalderie. Valeriano, fattala valicare il confine, si pose a campo vicino alla città di Verona, sperando coll’assedio venirne al possesso. A tale comparsa il presidio là entro pigliato da forte spavento diputò oratori al duce per capitolare; se non che i Franchi a stanza nell’agro veneto avutane contezza efficacemente vi si opposero, [p. 570 modifica]e dichiaratisi padroni di quella regione obbligarono Valeriano, fallitogli il proposito, a rimoverne sua oste.

II. I Gotti campati dalla battaglia occuparono, tragittato il Po, Ticino città ed i luoghi circonstanti ove si elessero a re Teia, il quale rinvenendo in quelle mura tutto il tesoro messovi in serbo da Totila deliberò aescare con danaro i Franchi ad una confederazione seco. Chiamati inoltre da ogni banda i Gotti li mise in punto ed esercitò, giusta l’opportunità del tempo e delle circostanze, al maneggio delle armi. Narsete, uditone, comandò a Valeriano di tenere in accuratissima guardia il fiume, onde togliere al nemico l’agio di ripassarlo, ed egli col rimanente esercito pigliò la via di Roma. Giunto poi nella Tuscia s’ebbe Narni a patti, e nella città di Spoleto, tuttavia aperta, lasciò un presidio coll’ordine di riedificarne prontamente il muro dove atterrato aveanlo i Gotti. A simile fece tentare la perugina guernigione capitanata da Meligedio ed Ulifo, romani disertori. L’ultimo, instigato con grandi promesse da Totila, ucciso avea proditoriamente Cipriano, di cui era lancia, in allora governatore del presidio. Meligedio, assentendo a Narsete, deliberò co’ suoi di cedergli la città, se non che appalesatasi la trama Ulifo coi propri militi alla scoperta congiurògli contro, ma spentolo in fine con quanti seguivanne le parti, accolse in Perugia le truppe romane. Del rimanente qui pure si fe’ manifesta la divina vendetta, la quale punì Ulifo stesso laddove egli avea da prima spento Cipriano. Di tal modo procedevano le cose in que’ luoghi.

III. I Gotti entro Roma alla notizia che Narsete [p. 571 modifica]coll’esercito movea a quella volta ed era già vicino alle mura prepararonsi ad incontrarlo con tutte le truppe. Totila in altri tempi, dati alle fiamme, non appena ebbene il possesso, molti romani edifizj e poscia seco stesso pensando che i suoi ridotti a pochi non sarebbero stati sufficienti a difendere ovunque così vasta circonferenza, fasciato avea di bassa muraglia una piccola parte de’ fabbricati intorno alla mole Adriana formandone, unita alle vecchie mura, quasi direi un castello; ed i Gotti depostevi le suppellettili credute di altissimo pregio erano diligentissimi nel guardarlo, curantisi poco del resto; a que’ dì poi con peggior consiglio, fidato il fortilizio a scarso numero di guardie, l’ardire spinto avea l’intero presidio ai merli per combattervi gli assalitori. Ma opponendosi alla divisata impresa la vastità del luogo, maggiore di quanto si voleva per essere onninamente accerchiato dal nemico e difeso dai Gotti, quello ora qua ora là appiccava l’attacco, e questi accorrendovi ributtavanlo. Narsete con fortissima schiera di arcadori movea ad investire una parte del muro, contro un’altra pugnava Giovanni nipote di Valeriano co’ suoi militi, Filimut cogli Eruli assalivane una terza e così gli altri tutti a grandi intervalli, ed in ragione della costoro distanza compartivasi la guernigione; là dove poi non vedevi uom de’ Romani erano i merli affatto spogli di guardia, accorso l’intero presidio, come diceva, alla difesa dei siti vie più minacciati. Dagisteo intrattanto per ordine del supremo duce, portando seco gran forza di armati, i vessilli di Narsete e di Giovanni, e quantità di scale, [p. 572 modifica]andò all’improvviso ad assaltare una desertissima parte del muro, e salitolo di netto senza opposizione al mondo si calò a bell’agio co’ suoi nella città, spalancandovi incontamente le porte. I Gotti alla comparsa del nemico in Roma deposto ogni pensiero di resistenza voltano in precipitosa fuga, chi riparando nel castello, e chi battendo la via di Porto. Ora io nel raccontare di tali mutazioni vado intra me riflettendo come la fortuna pigliandosi giuoco delle umane cose mai tenga dietro ai mortali con equabil moto, nè riguardisi sempre ad una guisa, ma ben diversamente in conformità dei tempi e de’ luoghi, secondo i quali e le circostanze mostrasi tanto ghiribizzosa con essi da mutarne affatto la condizione, e valgaci a pruova Bessa, il quale avendo perduto ignominiosamente Roma giunse non guari dopo nella Lazica a riporre sotto l’imperial dominio Petra; Dagisteo che abbandonata questa città al momento di occuparla fu quindi il primo a liberare la stessa Roma dai Gotti aprendone le porte agli assediatori. Ma di tali vicende corsero tutte le età del mondo, nè cesseranno mai infino a tanto che la volubil Dea signoreggerà i mortali. Narsete allora coll’esercito si avvicinò al castello, e con promessa di mandarne salvo o della vita il presidio ebbelo incontanente, ricorrendo l’anno vigesimo sesto dell’imperio di Giustiniano. Così Roma tornò per la sesta volta sotto il dominio di questo principe, il quale di subito ne ricevè le chiavi speditegli dal supremo duce.