L'Uomo di fuoco/14. La caccia agli uomini bianchi

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14. La caccia agli uomini bianchi

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14. La caccia agli uomini bianchi
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CAPITOLO XIV.

La caccia agli uomini bianchi.

Gli Eimuri che avevano invasa la radura, dovevano aver seguite le tracce lasciate dal marinaio castigliano durante la sua fuga attraverso le foreste.

Quell’accanimento contro un uomo solo, era derivato dal desiderio di assaggiare le carni di quell’individuo di colore così diverso dai selvaggi brasiliani o da altro? Se si fosse trattato d’una tribù, i cui membri potevano fornire carne umana in abbondanza, quella caccia era spiegabile, ma ad Alvaro e fors’anche a Diaz non pareva naturale.

Gli Eimuri parevano furiosi di non ritrovare le tracce del fuggitivo che da parecchi giorni, con una costanza incredibile, seguivano risoluti, a quanto pareva, d’impadronirsene.

Dopo d’aver percorsa in tutti i sensi la piccola radura, erano tornati a radunarsi intorno al fuoco, manifestando il loro malumore con una serie di ruggiti e di urla rauche, che ben poco avevano di umano.

Certo la mancanza improvvisa di tracce, che il suolo umido della foresta avrebbe dovuto rendere facilmente visibili, doveva averli scombussolati e anche assai imbarazzati.

Gesticolavano animatamente, scambiandosi le loro idee ed impugnavano le loro pesanti mazze, agitandole forsennatamente.

Per fortuna nessuno di essi aveva rivolto uno sguardo al summameira. Il sospetto che l’uomo bianco potesse essersi nascosto [p. 139 modifica]fra le folte fronde dell’albero, almeno fino allora, non era ancora passato nei loro cervelli.

Per qualche ora tennero consiglio, poi Alvaro ed i suoi compagni li videro riprendere le armi e scomparire nuovamente nella foresta, divisi in parecchi drappelli.

— Cercano le mie orme, — disse Diaz, quando non li vide più, e ogni rumore cessò.

— Come spiegate tanto accanimento? — chiese Alvaro. — Forse pel desiderio di assaggiare della carne che ha la pelle bianca?

— No, — rispose il marinaio. — Io credo che anche cadendo nelle loro mani, la mia vita non correrebbe pericolo alcuno.

— Spiegatevi meglio.

— Dai Tupinambi che hanno affrontato quelle orde, ho saputo che il loro pyaie in un accanito combattimento è stato ucciso da una freccia.

Io suppongo che mi abbiano inseguito per tanti giorni, per fare di me lo stregone delle loro tribù.

Chissà, la fama che i Tupinambi possedessero un pyaie dalla pelle bianca, può essere giunta fino a loro e mi hanno così ostinatamente inseguito, pel desiderio di avermi.

Non saprei spiegarmi altrimenti questa caccia. Che cosa rappresenterebbe per loro un uomo? Appena una colazione.

— Comincio a crederlo anch’io, Diaz, — rispose Alvaro. — Che ritornino?

— Non ne dubito. Quando si persuaderanno che le mie tracce non si trovano nella foresta, noi li vedremo ricomparire.

— Se ci scoprissero?

— Non sospetteranno mai che noi ci troviamo così vicini. Ah! I maledetti! Non avevamo pensato alle caraja e saranno queste che tradiranno la nostra presenza. —

I quadrumani, quantunque privi del loro maestro concertatore, già digerito dai tre europei, avevano improvvisamente incominciato il loro assordante concerto notturno.

Non vedendosi più inquietati, si erano ritirati sui più alti rami dell’enorme albero e di lassù lanciavano le loro grida strepitose, gonfiando enormemente i loro gozzi per sviluppare maggior forza.

— Mille demoni! — esclamò Alvaro. — Non mi ricordavo più di queste noiosissime scimmie.

— Le quali costituiranno per noi un gravissimo pericolo, signor Alvaro, — disse Diaz. [p. 140 modifica]

— Per quale motivo?

— Se gli Eimuri tornano, udendo le urla di queste scimmie, cercheranno d’ammazzarle e allora ci scopriranno.

— Dobbiamo uccidere quelle ciarlone prima che i selvaggi siano qui. Bisognerebbe salire fino sui più alti rami e finirle a colpi di coltello, impresa difficile e sommamente pericolosa. Io non oserei giammai servirmi dei nostri fucili.

— E le mie armi, non le contate? — chiese Diaz.

— Le vostre armi! — esclamò Alvaro. — Non avete che un tubo che non mi pare possa nemmeno servire come un bastone.

— Allora vi farò vedere quanto possa diventare pericoloso questo tubo, specialmente quando vi metto entro una buona freccia intinta nel sugo mortale del vulrali.

Vulrali! che cos’è?

— Un veleno potentissimo che uccide un uomo in meno d’un quarto di minuto e che fulmina le scimmie. Mi volete vedere alla prova?

— E le scimmie cadranno a terra? In tale caso ci tradiranno egualmente.

— No, — disse il marinaio. — Rimarranno sospese alla loro coda.

Le caraja non si lasciano cadere, anche se sono morte.

Ora vedrete. —

Diaz si tolse dalle spalle quella specie di tubo che fino allora Alvaro aveva scambiato per un bastone o tutt’al più per un giavellotto, quantunque non avesse alcuna punta atta a ferire.

Era la famosa gravatana dei brasiliani, ossia una cerbottana, formata con due pezzi di legno scavati accuratamente e riuniti perfettamente con una fibra di jacitura, assai pesante e lunga un paio di metri.

Nella parte inferiore vi era una specie di mirino formato da una tacca di legno, appiccicata con della resina.

Diaz vi soffiò dentro, poi svolse un pezzo di pelle che portava appeso alla cintura e levò una piccola freccia formata colla nervatura d’una foglia, munita da una parte d’una spina acutissima coperta d’una sostanza bruna e dall’altra fasciata d’un batuffolo di cotone, preso probabilmente dal bombax coïba, albero comunissimo nel Brasile.

— Avvelenata? — chiese Alvaro.

— E con quale veleno! — rispose il marinaio. — I Tupinambi [p. 141 modifica]sono possessori del segreto del curaro o meglio del vulrali e perciò sono assai temuti, giacchè non tutte le tribù brasiliane sanno distillarlo.

— Sicchè le scimmie, se mangiate, avveleneranno i loro mangiatori.

— No, signore, — rispose il marinaio. — Il vulrali può essere assorbito senza che la persona ne risenta alcun disturbo.

Per le vie digestive è affetto inoffensivo e voi potete mangiare tranquillamente la bestia uccisa da queste minuscole frecce.

Ecco le caraja che si dispongono in cerchio per urlare. Le farò star zitte subito. —

Diaz introdusse nella cerbottana una delle sue frecce, badando che il batuffolo di cotone combaciasse perfettamente, poi accostò l’arma alle labbra e l’alzò verso i rami più alti del summameira.

Si udì un leggero fischio, appena percettibile e si vide subito uno dei cantori fare un gesto come se volesse scacciare un insetto importuno e grattarsi.

La piccola freccia, lanciata con abilità straordinaria dal marinaio, gli si era conficcata nel dorso.

— State attento, — disse Diaz mentre introduceva nel tubo una seconda freccia.

Il quadrumane era rimasto colla bocca aperta, ma non urlava più. Sbadigliò spalancando le mascelle, poi come fosse stato scosso da una scarica elettrica s’alzò, brancolando a casaccio, arrotolò rapidamente la coda attorno ad un ramo e cadde dondolandosi comicamente a trenta metri dal suolo.

— Mille demoni! — esclamò Alvaro. — È morte fulminante questa!

— Il vulrali non perdona, — rispose il marinaio. — Ve ne sono altre sette lassù e ho una ventina di frecce. Spicciamoci prima che gli Eimuri tornino.

Lanciò una seconda freccia, poi una terza, quindi altre ancora senza mai mancare al bersaglio.

Due minuti dopo i poveri quadrumani non urlavano più. Pendevano come grappoli alle estremità dei rami, senza dare il menomo segno di vita.

— Ebbene, che cosa ne dite del mio tubo che a voi sembrava un semplice bastone? — chiese Diaz al portoghese.

— Che vale meglio dei nostri archibugi, — rispose Alvaro che non si era ancora rimesso dallo stupore.

— Uccide senza far rumore, — disse il marinaio. — Peccato [p. 142 modifica]che io non abbia che pochissime frecce, ma conosco il segreto di fabbricare il vulrali ed a suo tempo provvederò anche voi di gravatane. Non è cosa difficile distillare quel veleno, quando si conoscono le piante che lo forniscono.

— Chi ve lo ha insegnato?

— Un vecchio capo dei Tupinambi. È un segreto che si trasmette solamente ai pyaie e che tutti gli altri ignorano. Ecco il perchè quegli indiani non potrebbero fare senza di me.

— Ditemi, Diaz, che gli Eimuri abbiano saputo che voi siete il possessore di tale segreto?

— Può darsi, — rispose il marinaio. — Ah! Ecco che ritornano! Li odo attraversare la foresta. Non desidererei che ci scoprissero.

— Bah!... Non sospettano nemmeno che noi siamo così vicini.

— E le scimmie? — chiese Garcia che conosceva abbastanza lo spagnolo per comprendere qualche frase.

— Pendono fra le foglie e nessuno le scoprirà, — rispose il marinaio.

Gli Eimuri tornavano verso la radura e parevano furiosi per non aver ritrovato le tracce del pyaie dalla pelle bianca.

I drappelli giungevano uno dietro all’altro, radunandosi attorno al fuoco che non si era ancora spento.

Mugolavano come belve e manifestavano la loro rabbia impugnando le loro mazze e agitandole minacciosamente come se si preparassero ad un combattimento.

— Sono furibondi, — disse il marinaio. — Cercate pure, le mie orme non le troverete di certo.

— Che non si decidano ad andarsene? — chiese Alvaro.

— Quassù non stiamo mica male, signore. Le foglie sono foltissime e non ci scorgeranno.

— Preferirei però che se ne andassero prima che spunti il sole, — disse Alvaro.

— Non rimarranno qui eternamente. —

Gli Eimuri tennero un nuovo consiglio e poi si alzarono e ritornarono nella foresta tutti in gruppo.

Il marinaio attese che ogni rumore fosse cessato, poi disse ad Alvaro:

— Credo che sia giunto il momento di andarcene. Non torneranno più qui. [p. 143 modifica]

— Che cerchino le nostre tracce nella foresta? —

— Può darsi, ma perderanno inutilmente il loro tempo e noi approfitteremo per fuggire verso l’ovest.

— Scendiamo, — disse Alvaro. — Ne ho abbastanza di quest’albero.

— Aspettate un momento. Possono tornare improvvisamente colla speranza di sorprenderci. —

Rimasero immobili parecchi minuti, ascoltando attentamente, poi rassicurati dal profondo silenzio che regnava nella immensa foresta calarono le liane che avevano ritirate e si lasciarono scivolare fino al suolo.

— Si sono diretti verso il settentrione, — disse il marinaio, — e noi ci dirigeremo verso occidente invece.

I villaggi dei Tupinambi si trovano verso il mezzodì, ma a noi non conviene prendere quella direzione. Incontreremmo sulla nostra via il grosso o le retroguardie degli Eimuri.

Andiamo, signor Viana e giuochiamo bene di gambe, come diciamo noi marinai. —

Pochi istanti dopo i due naufraghi ed il castigliano abbandonavano la radura scomparendo rapidamente nella foresta immensa.