L'Uomo di fuoco/2. Gli antropofaghi

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2. Gli antropofaghi

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CAPITOLO II

Gli antropofagi

Diego Alvaro Viana de Correa1 che doveva aver più tardi tanta parte nella colonizzazione del Brasile e suscitare colle sue imprese avventurose tanta curiosità alla corte portoghese e anche a quella di Enrico II di Francia, era nato a Viana, nell’epoca in cui tutta [p. 12 modifica]l’Europa era in subbuglio per le prodigiose scoperte americane e per le audaci imprese dei portoghesi nelle Indie orientali.

Spirito avventuroso ed infiammato fino dalla prima giovinezza dalle gesta eroiche dei conquistadores, aveva cominciato per tempo ad intraprendere dei viaggi lungo le coste africane dapprima, combattendo con varia fortuna contro i corsari marocchini, assai numerosi e potenti in quell’epoca, mostrandosi destro, valoroso e sprezzante del pericolo, ma sospirando il momento opportuno di trovare un’occasione per recarsi in America o per lo meno nelle Indie dove i suoi compatrioti rovesciavano e conquistavano regni, coprendosi di gloria e accumulando ricchezze favolose.

Quell’occasione, così lungamente attesa, si era finalmente presentata. Una caravella, completato il carico e guidata da un pilota esprimentato, stava per salpare per le Antille.

Era una nave piccola, ma a quei tempi non si badava al tonnellaggio e nemmeno all’armamento. Un viaggio di cinque o sei mesi non spaventava nè i marinai portoghesi, nè gli spagnoli, ormai abituati a recarsi in Asia ed in America su legni che appena potevano tenere il mare e che oggi non oserebbero uscire nemmeno dal Mediterraneo.

Alvaro Correa, che da tanto tempo si era entusiasmato ai meravigliosi racconti dei vecchi marinai che avevano seguìto Albuquerque nell’India e Cabral nel Brasile, s’imbarcò, certo di giungere a destinazione e sognando già, a sua volta, di conquistare qualche regno come i Pizarro e Cortez.

Disgraziatamente e come succedeva allora sovente, le navi che si recavano in America, per sfuggire le pericolose calme della zona torrida, si spingevano molto al sud, più di quanto avrebbero dovuto. Già Cabral, trentacinque anni prima, nel recarsi alle Indie orientali era andato a finire in America, scoprendo per puro caso il Brasile la cui esistenza fino allora era stata ignorata.

Alla caravella di Correa era toccata l’egual sorte. Spinta sempre più al sud dai venti alisei, si erano tanto allontanata dalla sua rotta da smarrire completamente la via che doveva condurla alle Antille.

Una burrasca l’aveva poi sorpresa e malgrado tutti gli sforzi dell’equipaggio, come abbiamo veduto la povera nave era andata a fracassarsi sulle scogliere che circondavano quella baia sconosciuta.

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Quando Alvaro e il mozzo uscirono dal quadro, la caravella si era nuovamente abbassata sulla scogliera, minacciando di sfasciarsi completamente da un momento all’altro.

Ormai non era altro che un rottame tutto sconquassato dai continui e sempre più poderosi assalti delle onde, che non accennavano ancora a cessare quantunque il vento fosse già diminuito e le nubi si fossero spezzate in vari luoghi. Però Alvaro aveva ancora la speranza che potesse resistere, essendo la nave trattenuta dalle punte degli scoglietti entrati ormai attraverso la carena.

– Forse potremo aspettare qui che la tempesta cessi – disse a Garcia, che lo interrogava. – Qualche cosa rimarrà di questa povera nave e più tardi ce ne serviremo per costruire una zattera o qualche galleggiante che ci permetta di attraversare questo bacino.

– Io sono un buon nuotatore, signor Correa – disse il ragazzo.

– Anch’io, ma non ho alcun desiderio di venire mangiato, almeno pel momento. Mi hanno narrato che sulle coste del Brasile i pescicani abbondano e tu sai quanto sono voraci quei terribili squali.

– Ed i nostri compagni?

– Stavo appunto cercandoli e finora non vedo alcuno.

– Che siano morti tutti, signore?

– Non credo. Si saranno rifugiati sotto quelle foreste per non farsi scoprire dai selvaggi.

– Che sono cattivi, è vero signore?

– Mangiano i naufraghi che l’oceano spinge sulle loro spiagge. –

Il mozzo ebbe un brivido così forte, che il portoghese se ne accorse.

– Ti fanno paura, mio piccolo Garcia?

– Sì, signore, molta paura. Un mio zio, che era marinaio di Cabral, è stato divorato da quegl’indiani a Porto Seguro, trentacinque anni or sono.

– Hai ragione di rabbrividire, mio povero Garcia. I selvaggi però non ci hanno ancora nelle loro mani e poi non sbarcheremo senz’armi. A bordo vi sono ancora dei moschetti e anche parecchi barilotti di polvere.

Vediamo dove questa caravella è naufragata. –

Lasciò il mozzo e risalì la scala che conduceva sul cassero e che le onde avevano fino allora risparmiata, e tenendosi aggrappato alle murate si spinse verso poppa, salendo su una cassa per poter meglio dominare la baia. [p. 14 modifica]

Un vero grido di meraviglia gli sfuggì, allo spettacolo che si offriva dinanzi ai suoi occhi. La tempesta aveva spinto la caravella in una specie di golfo così splendido, che Correa non ne aveva mai veduto uno più pittoresco.

Era un immenso bacino di trenta e più miglia di circonferenza, contornato da colline coperte di alberi superbi d’un verde magnifico, che scendevano dolcemente, formando poi, alla loro base, centinaia e centinaia di seni graziosi, pure ombreggiati da piante.

A destra serviva di sponda il continente; a sinistra invece una grande isola2 tutta coperta di palme e noci di cocco; nel mezzo invece s’alzavano numerose isolette le une più pittoresche delle altre, veri giardini disseminati su quel golfo.

Dei fiumi, cinque o sei, dalla foce molto ampia, si versavano in mare lottando furiosamente contro le onde che tentavano di respingere le loro acque.

– Che paese meraviglioso! – esclamò Alvaro, entusiasmato. – Non l’avevo prima osservato; peccato però che queste spiagge siano abitate da antropofaghi ributtanti, che si dice abbiano soprattutto una passione spiccata per la carne degli uomini bianchi. Già è un piatto piuttosto raro che non abbonda in queste regioni, almeno per ora.

Saliamo più in alto e vediamo se qualche marinaio è riuscito a salvarsi.

Era ancora rimasto ritto un troncone dell’albero maestro, che sosteneva la coffa.

Il signor Viana s’aggrappò ad una delle funi e s’inerpicò fino lassù con un’agilità da far stupire anche il mozzo.

Da quell’altezza si poteva dominare tutta la baia e scorgere anche distintamente la costa più prossima, la quale non distava più di sette od ottocento passi.

Un fuoco brillava su quella spiaggia, alla base di un alto scoglio e seduti intorno vi erano degli uomini quasi nudi, occupati ad asciugare le loro vesti.

– I marinai della caravella! – esclamò Alvaro, con voce lieta. – Sono ben felice che quei disgraziati si siano salvati in buon numero, giacchè ero più che persuaso che le onde li avessero sbricciolati. [p. 15 modifica]

Riunì le mani a mo’ di portavoce, le accostò alle labbra e lanciò per tre volte un «ohe!» prolungato.

Udendo quelle chiamate, i naufraghi si erano alzati spingendosi verso la spiaggia, che le onde, sempre altissime, di quando in quando spazzavano con un rombo continuo.

Erano una dozzina e parecchi zoppicavano. Il vecchio pilota si trovava fra loro, anzi pareva il meno maltrattato di tutti.

– Signor Correa! – gridò, dopo aver atteso che l’onda si fosse sfasciata. – Affonda sempre la nave?

– Non si muove più.

– Gettatevi in acqua e cercate di raggiungerci.

– Pel momento mi trovo troppo bene qui e non sbarcherò finchè la tempesta non sarà cessata – rispose il giovane.

– Badate che le onde non vi spazzino via. È sempre furioso l’Atlantico.

– Mi guarderò dai colpi di mare.

– Se potete, preparatevi almeno una zattera.

– È quello che farò. Addio pilota e non fatevi sorprendere dai selvaggi.

Ridiscese sulla tolda della caravella, dove il mozzo lo aspettava con ansietà.

– Tutto va bene, finora – disse Correa. – Cerca una scure e prepariamo la zattera. L’uragano accenna a calmarsi e forse questa sera potremo anche noi approdare, senza correre alcun rischio.

– Ve ne sono parecchie di scuri nella cabina del pilota – rispose Garcia.

– Ed il legname ed i cordami non mancano qui. Ma mi pare che sarebbe il momento di stritolare un biscotto. Spero che troveremo qualche cosa da porre sotto i denti.

– So dove si trova la dispensa, signore.

Mentre il mozzo discendeva nel quadro, Alvaro fece il giro del ponte per accertarsi se la caravella si trovava in grado di resistere a quei continui cavalloni che la urtavano poderosamente e senza tregua.

La sua immersione si era arrestata e pareva che si fosse incagliata così bene da non temere che venisse nuovamente spostata. Che potesse però opporre una lunga resistenza alle onde, vi era da dubitare.

I suoi fianchi, sconquassati, a poco a poco cedevano ed i madieri si spostavano sempre. Anche i corbetti dovevano essersi infranti in parecchi luoghi. [p. 16 modifica]

Degli squarci si erano aperti specialmente sul tribordo e le acque, volta a volta vi penetravano con un cupo rimbombo riempiendo la stiva e rimuovendo il carico, per uscire poi, in forma di cascate, dalle aperture di prora.

– È destinata a sparire – disse Alvaro. – Sarà questione di qualche giorno se non di ore.

Peccato! Coi suoi rottami si sarebbe potuto ricostruire una grossa scialuppa e guadagnare le Antille. Che cosa faremo noi su queste spiagge così lontane da quelle abitate dagli uomini della nostra razza? Vorrei sapere come finirà tutto ciò.

Scrollò le spalle e fece buon viso al mozzo che risaliva in quel momento portando un canestro contenente dei biscotti e del lardo.

– È tutto quello che ho potuto trovare, signor Alvaro – disse il ragazzo.

– I tuoi camerati sarebbero felici di poter avere altrettanto, – rispose Viana, – quantunque le piante da frutto non manchino sulle coste brasiliane. –

Stavano per sedersi su un barile, quando verso la spiaggia udirono il pilota a urlare.

– Signor Correa! Signor Correa!

La voce del vecchio marinaio era improntata al più vivo terrore.

Alvaro era balzato in piedi, slanciandosi verso la murata di babordo, da cui poteva distinguere la spiaggia senza risalire fino alla coffa.

In quel medesimo istante, urla terribili s’alzarono fra le piante che ingombravano la costa. Erano ululati che parevano uscire da gole di belve, poi urla acutissime che terminavano in veri ruggiti.

Alvaro, pallido, angosciato, aveva volti gli sguardi verso lo scoglio alla cui base poco prima aveva scorto i naufraghi attorno al fuoco.

Non vi erano più. Fuggivano disordinatamente lungo la spiaggia, gridando a squarciagola:

– Aiuto!

– I selvaggi!

– Signor Alvaro!

– Stanno per piombarci addosso! –

Delle frecce si vedevano volare per l’aria e piantarsi nei dorsi o nei fianchi dei fuggiaschi.

– Signore! – gridò il mozzo che era diventato pallido come un cencio di bucato. – Uccidono i nostri compagni! [p. 17 modifica]Alvaro, sul cassero di prua, tagliò con lo spadone la miccia e l'accese. (Cap. III) [p. 19 modifica]

Una torma di uomini seminudi coi capelli lunghi, sciolti sulle spalle e adorni di mazzi di penne variopinte, era sbucata sulla spiaggia continuando a urlare spaventosamente.

Quegli uomini, una cinquantina per lo meno, erano di statura superiore alla media e ben complessi, colla pelle color del mattone a strisce rosse e nere che davano loro un aspetto pauroso, ed il viso ornato di penne disposte come baffi, trattenute da qualche mastice ed erano armati di clave lunghe sei piedi e larghe uno, colle coste frastagliate a guisa di denti di sega, armi certamente formidabili che dovevano ammazzare un nemico con un colpo solo. Altri invece tenevano certe specie di bastoni entro i quali soffiavano lanciando delle sottilissime frecce, intinte forse in qualche sostanza velenosa, poiché ogni marinaio che veniva colpito cadeva al suolo contorcendosi disperatamente e per non più rialzarsi.

I brasiliani, vedendo i naufraghi a fuggire, si erano slanciati a loro volta a corsa sfrenata, temendo forse che cercassero d'imbarcarsi.

Con un tremendo colpo delle loro mazze fulminavano i feriti dalle frecce, fracassando loro il cranio, poi continuavano la corsa per dare addosso agli altri che tentavano di trovare un rifugio fra le scogliere.

Il signor de Correa, assisteva inorridito al massacro, senza nulla poter tentare.

Vi erano bensì a bordo dei fucili ma a nulla avrebbero potuto giovare, avendo le armi da fuoco in quell'epoca una portata limitatissima.

Anche se si fosse precipitato in acqua a rischio di venire scagliato fra le scogliere, il suo soccorso sarebbe stato assolutamente inutile, anzi i brasiliani avrebbero potuto contare una vittima di più da porre poi sui carboni.

Invano urlava e minacciava. Le grida dei selvaggi ed il fragore delle onde coprivano la sua voce.

– Fermatevi, canaglie! – gridava. – Fermatevi o quando approderò vi ucciderò tutti! –

I brasiliani non si erano nemmeno accorti della presenza del portoghese e del suo giovane compagno, anzi pareva che non avessero nemmeno notata la vicinanza della caravella, tanto erano accaniti nel perseguitare gli ultimi superstiti.

La caccia alla preda umana non doveva durare a lungo con quei veloci selvaggi che correvano più lesti dei daini.

Di dodici marinai non ne erano rimasti che cinque i quali si [p. 20 modifica]erano rifugiati sulla cima d'una scogliera, tentando di respingere gli assalitori a colpi di pietra. Fra essi vi era ancora il pilota, a cui l'imminenza del pericolo aveva messo le ali alle gambe.

Con una bordata di frecce i brasiliani ne fecero cadere tre, poi si scagliarono sugli altri due colle mazze alzate e li fracassarono con pochi colpi, riducendoli in un ammasso di carni sanguinolenti e di ossa spezzate. Un clamore assordante salutò la caduta dei due ultimi portoghesi.

– Miserabili! – gridò Alvaro, inorridito. – Sono belve feroci costoro e non uomini.

– Signore – disse il mozzo, con voce tremante. – Verranno a trucidare anche noi ora?

– Mi pare che non si siano nemmeno accorti della nostra presenza.

– Non facciamoci vedere, signore.

– Vorrei anzi che venissero – rispose Alvaro. – Ci sono dei fucili, ci difenderemo e anche vendicheremo i tuoi poveri compagni.

– Non chiamateli, signor Alvaro.

– Eppur darei qualche cosa per fucilarli.

– Che cosa faranno ora dei cadaveri dei nostri camerati?

– Li mangeranno: guarda!

I brasiliani, raccolti i corpi dei marinai, erano tornati verso lo scoglio, alla cui base ardeva ancora il fuoco acceso dal pilota.

Mentre alcuni abbattevano delle foglie di cocco, altri raccoglievano nella vicina foresta rami d'alberi secchi che accumulavano con un certo ordine intorno alla fiamma.

Avevano allineati i dodici cadaveri presso le cataste, strappando loro lestamente le poche vesti che indossavano, i capelli e le barbe, servendosi di certi coltelli formati con pezzi di conchiglie che dovevano essere taglienti.

Lavati i corpi con acqua marina, costruirono una specie di graticola di proporzioni gigantesche, adoperando rami verdi, poi vi stesero sopra i dodici sciagurati, alimentando i fuochi.

Quando videro le fiamme alzarsi intorno agli arrosti, quei ributtanti mangiatori di carne umana si afferrarono per le mani eseguendo una danza scapigliata.

Saltavano come capretti, dimenando la testa ed il dorso e urlavano a piena gola, mentre due o tre, accoccolati presso i falò soffiavano disperatamente entro certi pifferi che parevano formati con tibie umane. [p. 21 modifica]

– Sembrano demoni – disse il mozzo stringendosi al fianco di Alvaro, il quale osservava con un profondo senso di disgusto quei ributtanti selvaggi.

– Sì, demoni che io sarei ben contento di ricacciare all’inferno a colpi di cannone – rispose il giovane. – Io mi domando se anche a noi toccherà l’eguale sorte.

– Sbarcheremo, signore?

– Ci saremo costretti, se non vorremo morire di fame e di sete o venire spazzati via dal mare.

– Non potremo noi costeggiare il Brasile fino al golfo del Messico?

– Con una zattera? Eh, ragazzo mio, non si andrebbe molto lungi. E poi saremmo costretti a sbarcare di quando in quando e ci troveremmo sempre alle prese cogli antropofaghi.

– Sono tutti mangiatori di carne umana, gli abitanti di queste terre?

– Quasi tutti, ragazzo mio.

– Che cosa sarà allora di noi, signore?

– Non lo so di certo – rispose Alvaro. – Tuttavia possedendo noi dei fucili, ti prometto che non ti lascerò massacrare senza difenderti. So che tutti i selvaggi hanno sempre avuto una gran paura delle armi da fuoco, non riuscendo a spiegare il tuono che producono; può darsi quindi che anche questi si sgomentino.

– Non sbarcheremo però se non quando quei bruti si saranno allontanati.

– Non sarò così sciocco di andare ad espormi ai loro colpi. M’immagino che non rimarranno eternamente accampati sulla spiaggia e che torneranno al loro villaggio.

Degli ululati spaventevoli interruppero il loro dialogo. I cuochi incaricati della cottura degli arrosti umani, dovevano aver avvertiti i loro compagni che gli uomini bianchi erano pronti a servire da colazione, giacchè si videro tutti quei ballerini interrompere bruscamente i loro salti disordinati e rovesciarsi verso i bracieri, con manifestazioni di gioia frenetica.

I marinai vennero levati dalle graticole semiconsunte mediante delle lunghe aste munite all’estremità di punte di selce e deposti su gigantesche foglie.

Un vecchio indiano che aveva sul petto molteplici file di denti di animali feroci e dei braccialetti d’oro, fece un piccolo discorso d’occasione, poi brandita una scure di pietra si mise a spaccare [p. 22 modifica]gli arrosti, gittando a quei mostruosi convitati a chi una testa, a chi una coscia, o una gamba od una natica o un polmone od ammasso di costole.

– Canaglie! – esclamò Alvaro che non poteva reggere a quell’atroce spettacolo. – E non poter impedire simili barbarie! Non guardarli, Garcia! Vomiterai la colazione. –

Si ritrassero verso la murata di babordo, guardando le onde che continuavano ad irrompere attraverso la baia, scuotendo sempre fortemente la caravella, tuttavia di quando in quando non sapevano frenare la loro curiosità per quanto quella scena di cannibalismo ispirasse ad entrambi un orrore invincibile.

I selvaggi si erano gettati sulle carni dei marinai coll’avidità di belve feroci a digiuno da una settimana. Lavoravano così bene di denti, che dopo qualche ora dei poveri naufraghi non ne rimanevano che i teschi già vuoti dei cervelli, delle costole spolpate e le ossa delle braccia e delle gambe.

Gonfi da scoppiare, i banchettanti si erano stesi beatamente, sulla rena della spiaggia, sotto l’ombra proiettata dalle palme per digerire pacificamente quella copiosa scorpacciata di carne bianca.

Solamente due o tre, per eccesso di precauzione, si erano seduti sulla cima dello scoglio guardando più verso la foresta che verso la baia. Eppure non doveva essere sfuggita ai loro sguardi la caravella, ancora abbastanza alta per poterla scorgere, malgrado che frequenti ondate la coprissero.

Era anzi quella tranquillità che non rassicurava affatto Alvaro, il quale invece avrebbe preferito un assalto. Cinquanta erano molti, ma con delle buone scariche si potevano tenere lontani o spaventarli in modo da rinunciare per sempre ad inquietare un uomo che possedeva delle armi così formidabili.

Egli temeva invece che aspettassero dei rinforzi per cercare di procurarsi degli altri arrosti.

– Mio povero ragazzo – disse al mozzo che lo interrogava. – Guardiamoci dal chiudere gli occhi. Quei furfanti non ci lasceranno tranquilli.

– Che si siano accorti che ci sono delle persone su questa caravella.

– Non ne ho dubbio.

– E che cosa aspettano per assalirci?

– Probabilmente dei canotti. Il pilota mi aveva narrato che tutti i costieri brasiliani posseggono delle scialuppe scavate nei [p. 23 modifica]tronchi degli alberi e di cui se ne servono con abilità meravigliosa.

– Ah! Signore! Io mi sento gelare il sangue, pensando che anche noi dovremo misurarci con quei selvaggi.

– Non è questo il momento di perdersi d’animo, ragazzo mio – disse Alvaro. – Se ti preme salvare la pelle, dovrai aiutarmi con tutte le tue forze. Sai maneggiare un fucile!

– Sì signore – rispose Garcia. – Sono figlio d’un soldato.

– Allora va’ a prendere tutte le armi che potrai trovare e prepariamo la difesa. –

Finchè queste onde non si calmano, per quanto i brasiliani possano essere valenti canottieri, non oseranno spingersi fino a noi.

Se il mare è cattivo per noi, lo sarà anche per loro. –

Garcia, un po’ rinfrancato dalle parole del valoroso giovane, scese nel quadro frugando tutte le cabine! Ahimè! L’arsenale della caravella era ben poco provvisto, almeno quello poppiero. Forse ve n’erano altre delle armi nella camera comune di prora, ma non si poteva pensare ad andarle a cercare, avendo ormai l’acqua invasa tutta quella parte.

Tutto l’armamento consisteva in cinque archibugi di cui tre inservibili, in un paio di spadoni irruginiti ed in alcune scuri. Viceversa vi era abbastanza di munizioni, avendo scoperto quattro barilotti di polvere, destinati forse a qualche carico indiano e molti sacchetti di palle.

Il mozzo si caricò di tutte quelle armi, sufficienti del resto per due persone e le portò in coperta, deponendole dinanzi ad Alvaro.

Il giovane esaminò, da persona che se ne intende, gli archibugi e gettò da una parte quelli inservibili.

– Ne abbiamo abbastanza per noi – disse. – Temevo che le munizioni fossero rimaste sott’acqua; giacchè tu mi dici che abbondano, daremo una dura lezione a quei mangiatori di carne umana se vorranno tentare di abbordare la caravella.

Caricò i due archibugi, poi guardò che cosa facevano i selvaggi.

Quei furfanti non si erano ancora mossi e continuavano a sonnecchiare sotto i palmizi, senza preoccuparsi della caravella. Solamente le loro sentinelle avevano abbandonato lo scoglio per passare sopra un altro più alto, da cui potevano dominare tutta la baia.

Non guardavano però verso la caravella, bensì verso la foce [p. 24 modifica]del fiume vicino, come se attendessero da quella parte qualche cosa.

– Aspettano delle piroghe, ne sono certo – disse Alvaro con un accento che tradiva una viva inquietudine. – Non la passeremo liscia. È impossibile che si ritirino prima di aver fatta una visita alla caravella.

Quindi rivolgendosi al mozzo, continuò:

– Ragazzo mio, non perdiamo tempo e se l’oceano questa sera sarà più calmo, ce ne andremo.

– Che cosa dobbiamo fare?

– Costruirci una zattera.

– Sono pronto ad aiutarvi, signor Alvaro.

– All’opera, mio piccolo Garcia. Giacchè abbiamo tempo ed i selvaggi ci accordano un po’ di tregua, approfittiamone.

Note

  1. Le più cospicue famiglie brasiliane di Bahia, si vantano di discendere da questo audace e fortunato avventuriero.
  2. Quell’isola si chiama oggi Staporica.