L'apologia di Socrate/Capitolo XXIV

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Capitolo ventiquattresimo

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Platone - L'apologia di Socrate (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
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E, lasciando la riputazione, né mi par giusto il pregare il giudice, né pregando procurar suo scampo, ma sí informare e persuadere lui: imperocché non per cotesto siede il giudice, per dispensar graziosamente i diritti, ma sí per giudicare di quelli; e giurò egli non di favoreggiare chi a lui paresse, ma sí di sentenziare secondo le leggi. Dunque non conviene né che noi avvezziamo voi a spergiurare, né voi voi medesimi; ché pii non saremmo né voi né noi. Onde non vogliate, o Ateniesi, che io faccia cotali cose verso voi, quali né reputo belle, né giuste, né sante: specialmente io accusato di empietà, per Giove, da questo Meleto qui. Imperocché egli è manifesto che se persuadessi voi e con il pregare voi sforzassi, i quali avete giurato, io insegnerei a voi a non credere che ci siano Iddii; e proprio in quel che mi difendo di cotesta accusa, mi accuserei da me medesimo che negl’Iddii non credo. Ma no, non è cosí; io credo, Ateniesi, come niuno dei miei accusatori; e lascio a voi, e a Dio, che giudichiate di me nel modo che sarà meglio per me e per voi.

(FU GIUDICATO COLPEVOLE)