L'apologia di Socrate/Capitolo XXXII

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Capitolo trentaduesimo

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Platone - L'apologia di Socrate (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
Capitolo trentaduesimo
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E vediamo per questa altra via d’intendere come c’è da sperare molto che sia un bene. Imperciocché morire è una delle due cose: o come non esser nulla, e il morto non ha piú niuno sentimento di niuna cosa; o, secondoché dicono, è un cotal transito e tramutazione dell’anima di questo luogo qui ad un altro luogo. E se non c’è niuno sentimento, ed è come un sonno allora che dormendo non si vede né anche sogno niuno, sarebbe un guadagno maraviglioso la morte. Perciocché io penso che se mai alcuno scegliesse una tal notte, nella quale si fosse addormentato cosí profondamente ch’egli né anche veduto avesse alcun sogno, e contrapponendo a quella le altre notti e giorni di sua vita, ed esaminando, dovesse poi dire quante notti e giorni passati ha in sua vita meglio e piú dolcemente di quella; io penso che, non pure un privato uomo, ma altresí il gran Re queste troverebbe facili assai a contare in comparazione a tutti gli altri giorni e alle altre notti. E se tale è la morte, un guadagno essa è, io dico; imperocché cosí appare nulla piú essere tutto il tempo, che una notte. Se poi la morte è come peregrinazione di qua ad un altro luogo, e vero è tutto quel che si dice, che là abitano tutti i morti, quale maggior bene di questo potrebbe essere mai, o giudici? Imperocché se alcuno, pervenendo nell’Ade, liberatosi di questi che qua si dànno nome di giudici, troverà i veri giudici, i quali si dice che anche là giudicano, Minosse e Radamanto ed Eaco e Triptolemo, e tutti gli altri semidei i quali in vita loro furono giusti; forse che sarebbe da disprezzare cotale peregrinazione? o, al contrario, a qual prezzo non torrebbe qualunque di voi potere conversare con Museo e Orfeo e Esiodo e Omero? Morire molte volte voglio io, se tali cose sono vere. Oh la conversazione maravigliosa che là sarebbe la mia, quando mi abbattessi in Palamede, e Aiace di Telamone, e in alcun altro di quelli antichi, morti per ingiusto giudicio! Certo, a paragonare i casi miei ai loro, non mi dispiacerebbe; e specialmente, che è il meglio, a passare il tempo esaminando e perscrutando quei di là, come faceva questi di qua, e vedere anche tra quelli chi è savio, e chi crede di essere ma non è. Perocché, quanto non pagherebbe alcuno di voi, o giudici, se interrogare colui potesse che la grande oste menò contro a Troia, o Ulisse, o Sisifo, o tanti altri uomini e donne che potrei nominare io; e ragionare e conversare là con essi, ed esaminare? Tale beatitudine sarebbe ella, che forte cosa è a dire. Né mai avviene per cagione di cotesto esame che quelli di là uccidano; perocché, oltre alle altre cose onde piú felici sono quelli di là che questi di qua, quelli sono perpetuamente immortali, se vero è ciò che si dice.