L'innamorata/Parte seconda/IV

Da Wikisource.
Parte seconda - IV

../III IncludiIntestazione 28 giugno 2008 75% romanzi

Parte seconda - III


Durante l’ultima estate e i primi mesi dell’autunno, Leona rimase quasi sempre sola, con Nazareno, nella casa di via San Sebastianello. Paolo era sempre in viaggio: ora andava a Montecarlo a giocare; ora si recava a Karlsbad dove i von Moos erano a prendere i bagni; ora accettava l’invito di qualche amico di andarlo a trovare in campagna. Ella non si lamentava mai di non accompagnare il suo amante: egli, peraltro, non le faceva mai una scusa, né le dava una spiegazione: al più, in qualche momento di maggiore espansione, le accennava vagamente ai suoi pochi mezzi, alla necessità di non farsi vedere troppo insieme dalla gente, e concludeva i suoi discorsi con un bacio che la povera donna aveva più caro di qualunque viaggio.

Mentre Paolo Cappello era fuori di Roma, Leona faceva la vita più semplice che si possa immaginare. Lavorava di cucito, teneva la casa in ordine, non riceveva nessuno, non vedeva nessuno. La mattina aspettava la posta con grande ansietà, sperando sempre che le giungesse una lettera del suo amico; ma la lettera giungeva di rado: era breve, secca, frettolosa. Leona si sentiva alla gola un nodo di lacrime; ma rispondeva subito con una lunga lettera ardente di passione e di dolore, che faceva scrollare le spalle al bel conte quando egli la riceveva in una Rotonda di bagni o nella sala di bigliardo di una villa aristocratica.

Nazareno, il cameriere del conte, sulle prime aveva accolto con diffidenza la giovane; che gli pareva una poco di buono e una intrusa. Calmo e discreto come egli era di sua natura, l’aveva trattata sempre, del resto, con grande rispetto; proponendosi in cuor suo di vigilare e di riferirne, in ogni caso, al padrone. Ma, a poco a poco l’esempio della grazia, della bontà rassegnata, dell’attaccamento semplice e profondo di Leona lo avevano vinto; e si rammaricava dentro di sé che il signor conte maltrattasse o trascurasse tanto la signorina, come egli la chiamava. E mentre il conte se ne stava a divertirsi, il buon Nazareno cercava, come poteva meglio, di rallegrare la signorina: l’accompagnava a passeggio, rimanendo sempre ossequiosamente qualche passo dietro di lei; si faceva in quattro per risparmiare a lei ogni fatica; si era accordato con la lavandaia che le portasse dei fiori freschi ogni giorno. Leona era commossa della muta devozione di quel vecchio; e si sfogava con lui quando aveva il cuore troppo pieno: egli cercava di rassicurarla, di confortarla: trovava sempre qualche buona ragione per scusare il padrone: un bravo signore, concludeva, che poteva avere dei difetti come tutti, purtroppo, ne abbiamo; ma incapace di una cattiva azione: e lui lo poteva dire che lo aveva tenuto sulle ginocchia bambino.

Una mattina del mese di ottobre, Leona, passando da via dei Due Macelli per tornare a casa, fu fermata da un gran cartellone stampato a caratteri rossi e neri, dove si annunciava, per quella sera medesima, la prima rappresentazione della compagnia equestre dei fratelli Balzano. I fratelli Balzano! La sua compagnia! Dunque avevano messa insieme, di nuovo, una compagnia? Leona si fermò a leggere l’elenco degli artisti con il cuore che le batteva forte: c’erano i nomi che conosceva, madamigella Alma, Rosina Calvado, miss Ea, la figlia dell’aria, e poi Lamberto, Pietro Moria, Tony, Plum-Pudding, tanti e tanti altri. Si allontanò con il viso in fiamme, smarrita, gli occhi umidi e assorti, come se avesse incontrato un amante non più veduto da un pezzo. Tornata a casa, disse a Nazareno:

- Va all’Alhambra a fissare un palco per questa sera.

La smania di rivedere dei cavalli, delle cavallerizze, degli scudieri, di respirare l’aria ardente del Circo, di rivivere qualche ora della vita di un tempo, l’aveva invasa a un tratto, irresistibilmente. Si rivedeva ritta sul cavallo, in gonnellino corto di velo, il frustino nel pugno, le narici aperte, il seno gonfio e anelante, passar di galoppo tra la luce viva, le grida dei palafrenieri, i battimani del pubblico, fiera, anelante, vittoriosa, superba. Oh quelle belle serate di libertà e di trionfo, quando il suo cuore non aveva conosciuto la passione, quando la sua giovane fronte non aveva sentito battere ancora la fredda ala del dolore!

La sera, quando entrò nel palco, la rappresentazione era già incominciata. Guardò nel Circo e riconobbe subito uno spettacolo che conosceva: miss Ea con i suoi cavalli. Miss Ea, alta, bionda, il corpo serrato in un’amazzone nera, la frusta in mano, presentava dodici cavalli, tutti bianchi come la neve, ammaestrati all’alta scuola. Miss Ea stava in mezzo al Circo; da una parte e dall’altra aveva sei cavalli erti in fila, come scolpiti; i quali, a ogni sua voce, a ogni cenno della sua frusta, si levavano, si abbassavano, si inginocchiavano, cambiavano di posto, le galoppavano intorno, saltavano l’uno sull’altro, sempre ordinati e sicuri. Ella riconosceva il più piccolo e il più impaziente di quei cavalli, Said, che agitava il collo, schiumava dalla bocca, lanciava fiamme dagli occhi; miss Ea doveva fare sforzi inauditi per riuscire a tenerlo in fila con gli altri. Come finì, e i cavalli rientrarono di corsa, l’uno dopo l’altro, nella scuderia, il pubblico scoppiò in applausi. Miss Ea si inchinò profondamente a salutare; poi con un piccolo salto, disparve.

L’orchestrina ricominciò un tempo di galoppo; e apparve madamigella Alma, la famosa volteggiatrice. Dopo uno o due giri sul suo cavallo baio, si rizzò in piedi e cominciò a saltare i cerchi rossi, verdi, bianchi, turchini, che dei clowns rumorosi e litigiosi le reggevano in alto. Poi si lasciò scivolare dal cavallo, lo raggiunse, e di un balzo vi saltò su in piedi, senza perdere l’equilibrio, mentre il cavallo correva. Poi fece altri giuochi, dei soliti, riscuotendo qualche applauso svogliato; salutò e rientrò nella scuderia.

- Que tonteria! - fu il giudizio di Leona, mentre il povero Nazareno, che non si era trovato mai a un simile spettacolo, diritto dietro a lei, guardava con la bocca spalancata dall’ammirazione.

Gli esercizi si succedevano agli esercizi; ma il teatro restava freddo: non c’era l’artista che sapesse elettrizzare gli spettatori. Ah, se ci fosse stata lei su uno di quei cavalli! E di nuovo Leona si rivedeva su quell’arena; calcolava la leggerezza, l’agilità, la grazia delle proprie membra; si immaginava di fare i volteggi che aveva già fatto, fino ad affrontare veramente il pericolo, fino a strappare l’applauso formidabile della gran folla inebbriata: le guance le ardevano, gli occhi le luccicavano. Inconsapevolmente un grido le uscì dalla gola, accompagnato da un gesto vigoroso del braccio:

- Hop! Olé!

Alcuni spettatori, dai palchi vicini, si voltarono a guardare, e sorrisero.

Ella chinò gli occhi sull’arena e, a un tratto, si sentì quasi mancare il respiro: Campeador! aveva visto il suo cavallo, Campeador!

La vista dell’amico più ardentemente desiderato, più disperatamente rimpianto, non l’avrebbe commossa tanto, quanto l’apparizione del suo buon cavallo. Ella si spenzolava fuori del palco, gli occhi umidi, la bocca anelante, quasi senza battere palpebra, per non perderlo di vista mai, neppure un istante. Un’onda di tenerezza l’annegava tutta: seguiva dello sguardo tutti i moti, tutti gli atti del superbo animale, che galoppava portando una scudiera inesperta, una bambina rossiccia sui dodici anni; mandava dei baci muti al cavallo e mormorava ogni tanto con voce piena di dolcezza: - Chico mio! Querido de mi alma! Campeador! - E il cavallo, quasi che una segreta corrispondenza lo avesse avvertito della presenza della sua antica padrona, ogni tanto levava la testa intelligente e sbruffava: d’improvviso si fermò sotto il palco di Leona. Soltanto una frustata della bambina inferocita riuscì a farlo rientrare nella scuderia.

Senza guardare nessuno, senza pensare a nulla, Leona si precipitò fuori del palco, scese le scale del teatro, si fermò sulla porta della scuderia.

- Chiamatemi il direttore - disse a uno stalliere, che la guardava sorpreso.

Poco dopo comparve il signor Balzano, il fratello maggiore, un bell’uomo di quarant’anni in abito da maneggio, con gli stivaloni alla scudiera e un frustino in mano. Fissò Leona senza riconoscerla subito, e cominciò:

- La signora desidera?..

Ma quando udì la voce della donna, fece un atto di stupore, e le tese le mani.

- Tu? tu qui? e come mai? Vieni, vieni.

- Voglio vedere Campeador - disse ella, andando avanti.

- Si ritorna agli antichi amori, eh? - fece il direttore, sorridendo bonariamente.

Lungo la scuderia, illuminata dalle fiammelle vive del gas, una doppia fila di cavalli stava, da una parte e dall’altra, davanti le mangiatoie. I dodici cavalli bianchi erano i primi; poi ne venivano degli altri; alla fine il signor Balzano disse:

- Ecco Campeador.

- Campeador! Campeador! - gridò la giovane donna con accento di giubilo e di tenerezza profonda.

La nobile bestia voltò la bella testa e levò gli occhi umani verso Leona; un fremito corse lungo il suo fianco ancora polveroso e, come non era legato, si voltò a mezzo e cominciò a nitrire, a sbruffare, ad accennare quasi con la testa, a raspare con le zampe la terra, riconoscendo l’amica.

- Campeador! pobre amigo! mi riconosci? riconosci la tua povera Leona? - gli diceva lei carezzandogli i fianchi, il collo e la testa con la bella mano profumata, coprendogli di baci la fronte e gli occhi, avvicinando la propria testa a quella del superbo animale. - Oh sì! tu ti ricordi; tu non sei ingrato, povero Campeador! - E seguitava a palparlo e a baciarlo, sempre, con un ardore di affetto indicibile, con la tenerezza disperata di un distacco supremo. Campeador batteva con la zampa la terra, e sospirava forte; il suo bel pelo fremeva sotto i baci della donna; le sue larghe e fredde narici si piegavano a soffregare la mano piccola e bianca che gli prodigava carezze; i suoi grandi occhi tristi e pensosi, fissando Leona, erano umidi come di pianto.

- E così - riprese il signor Balzano - quando ti decidi a ritornare fra noi?

- Quien sabe! - rispose lei piano, seguitando a lisciare il collo dell’animale.

Il direttore e Leona scambiarono ancora qualche parola. Finalmente ella mise un ultimo bacio sulla fronte del cavallo, e gli disse, trattenendo a stento le lacrime:

- Addio, Campeador!

E, come ella si mosse per andar via, il cavallo la seguiva: un gesto del direttore lo trattenne.

- Oh, querido de mi alma! - esclamò Leona e tornò a coprirlo di baci. Ma questa volta non si poté più tenere, e, le braccia stese al collo dell’animale, scoppiò in un pianto dirotto.

Poche sere dopo, Paolo tornò; Leona, seguita da Nazareno, l’aspettava alla stazione; non appena lo vide, gli corse incontro, gli si buttò al collo e gli coprì la faccia di baci. Paolo chiese al cameriere:

- Niente di nuovo?

- Niente, signor conte.

Un legno li ricondusse a casa. Paolo domandò alla Leona come aveva passato il tempo; se si era troppo annoiata senza di lui; se il denaro le era stato sufficiente. La donna rispondeva dolcemente, umilmente, ma con la voce velata da una grande malinconia; poiché ella vedeva come il suo amante fosse tornato più freddo e più disamorato di prima.

La casa era lustra come uno specchio; in tutte le stanze regnava un ordine, una pulizia, una pace intima e raccolta che rivelava la donna, la donna vigilante e affettuosa. Sullo scrittoio di Paolo, era una coppa di Murano in stile del cinquecento: una sorpresa che Leona aveva preparata al suo diletto, con i suoi risparmi di quei due mesi di solitudine. Paolo sentiva la tenerezza timida e sottomessa di quell’accoglienza; ma non se ne volle lasciar commuovere. Ringraziò a fior di labbro la donna, che lo guardava fissamente, con i grandi occhi supplichevoli, aspettando una buona parola; poi passò con lei nella sala da pranzo, dove la minestra fumava in tavola.

Allora egli cominciò a raccontare le gite che aveva fatto: era stato a Viareggio, a Livorno, sulla riviera ligure, a Venezia. Citava le persone che aveva veduto, le avventure che gli erano occorse, ridendo allegramente al ricordo di qualche storia comica o piccante. Leona lo lasciava dire, contentandosi ogni tanto di fare qualche domanda, per mostrare che lo ascoltava; guardandolo spesso in viso; sospettando, sotto quell’onda di parlantina, qualcosa che egli le voleva nascondere. Quando il giovane ebbe finito, gli chiese:

- E ora non ti muovi più?

- No... non so... non credo - fece lui imbarazzato. E, per sviare la conversazione, soggiunse:

- Hai visto qualcuno dei nostri amici?

- Nessuno: sono stata sempre sola, con Nazareno.

A Paolo parve che queste parole, che erano la verità, suonassero rimprovero per lui; e se ne sentì infastidito. Non rispose; ma non aprì più bocca per tutta la sera.

- Sei di cattivo umore? - gli domandò Leona, quando si accorse di quell’improvviso silenzio.

- Ah, ah! si ricomincia? - fece lui con accento seccato.

- O allora perché a un tratto ti sei fatto muto? - ribatté lei, con un fremito nella voce.

- Perché non ho altro da dire - rispose lui, seccamente. - Sei tu piuttosto che da due ore che parlo, mi rispondi con monosillabi.

- E che vuoi che ti dica, io? Sono vissuta sempre con Nazareno, badando alla tua casa, senza vedere nessuno: ecco tutto.

Di nuovo, a lui parve che ella gli rinfacciasse quei due mesi di svago. Si alzò e disse:

- Sai, mi sento stanco del viaggio: vado a letto.

Ella gli diede la buonanotte, e lo guardò allontanarsi, il cuore gonfio di un’angoscia crudele. Neanche un bacio gli dava, dopo tante settimane che non si vedevano! Ah, egli non l’amava più, egli non l’amava più! ne aveva la certezza assoluta. Che avrebbe fatto ella, ora? Sarebbe ancora rimasta in quella casa, dove era tollerata per forza? No, no: avrebbe provocato una spiegazione, e sarebbe andata via. Via, sola, senza nessuno al mondo, abbandonata a se stessa, come prima! Una tristezza infinita, senza pianto, le ingombrava l’anima. La sua immaginazione correva; architettava mille progetti inattuabili: voleva ingelosirlo, farsi amare da un altro, occupare tutta Roma di sé e della sua vita. Ma come, come far questo con l’amore pazzo che le rodeva il cuore, che glielo empiva tutto di lui? Che aveva fatto egli dunque per farsi amare a quel modo? Destino! era il suo destino! Ma quella vita non poteva durare; bisognava venire a una spiegazione: o dentro o fuori.

E se egli aveva un’altra amante? Se quei due mesi li avesse passati a viaggiare con colei, mentre ella, povera donna, se ne stava in casa ad aspettarlo? Una punta più acuta di dolore e di gelosia le lacerò il cuore. D’improvviso ella li vide entrambi, lui e quell’altra che non conosceva, in un vagone di ferrovia, muti, abbracciati... Oh, no, no, era troppo! Perché almeno non avrebbe egli avuto la franchezza di dirglielo? E poi, le pareva che, se ciò fosse stato vero, ella se ne sarebbe dovuta accorgere: glielo avrebbe letto negli occhi, avrebbe trovato i segni certi del tradimento, l’aria stessa le avrebbe rivelato l’orribile segreto. Non si poteva dissimulare, non si poteva mentire così. Ella aveva dato tutto a quell’uomo, il suo onore, la sua giovinezza, tutta se stessa, due volte; lo aveva amato con tutte le forze dell’anima sua; non poteva risolversi a credere che egli in compenso la ingannasse con tanta perfidia: ciò le pareva mostruoso, quasi fuori del possibile.

Forse non si trattava di altro che di un raffreddamento derivato da altre ragioni che ella non conosceva: la mancanza di denaro; il bisogno di una vita più brillante, chi sa? Oh, ella avrebbe concesso tutto, avrebbe ceduto in tutto, se avesse potuto immaginare che egli le dimostrerebbe un po’ più di affetto sincero! Sì, bisognava spiegarsi, bisognava intendersi: ella voleva sapere la verità: domani, domani.

E quando prese il candeliere per andare a letto lei pure, due grosse lacrime silenziose le rigavano il volto pallido e stanco.

Il domani, appena svegliatosi, Paolo si alzò e si vestì per uscire. Leona non ebbe il coraggio di domandargli dove andava; ma glielo disse lui, quando fu sull’uscio, come se avesse aspettato quell’ultimo momento per evitare i discorsi:

- Sai, oggi arriva mia madre: io resto all’albergo, con lei.

- Non torni neanche stasera? - domandò lei, timidamente.

- Non so: può darsi - concluse lui, avviandosi verso la porta della scala.

Quella brusca notizia mise lo scompiglio nell’anima della giovane donna, senza che neppure lei ne indovinasse la cagione. Aveva dei cattivi presentimenti. Perché Paolo non le aveva dato quella notizia la sera avanti? E che poteva venire a fare la vecchia contessa a Roma? Forse volevano indurre Paolo a separarsi dalla sua amante? O c’era dell’altro nell’aria?

Non si era mai sentita tanto agitata come quella mattina. Girava per la casa, toccando ogni cosa, senza riuscire a fare nulla, distratta, soprapensiero. Alla fine, la sua smania divenne tale che ella risolvette di uscire, come se all’aria aperta dovesse trovare la soluzione del mistero che la tormentava.

Si avviò verso il Pincio, a passi affrettati, ed entrò nel giardino.

A quell’ora non c’era nessuno; tanto più che il cielo era coperto di nuvole oscure e pesanti, e tirava un brezzone umido che raggricciava la pelle. Le ultime foglie dell’autunno turbinavano in corsa lungo i viali, dove qualche passero ancora saltellava in cerca di cibo. Tutto intorno i grandi alberi scheletriti parevano divincolarsi fra le strette furiose del vento; una fontana invisibile chioccolava, triste e monotona, in distanza.

Leona girò gli occhi dattorno; ma il giardino era sempre deserto. Allora invece di seguitare a salire, discese per un viale opposto, e dopo un centinaio di passi, si trovò in piazza del Popolo. Andò avanti, senza guardare, senza sapere; solo la voce di un vetturino: - Il legno! - le fece voltare un momento la testa. Imboccò il Corso. Sdrucciolava sul selciato lustro di pioggia; si fermava ogni tanto davanti a una vetrina, immemore, come stupita; poi senza avere visto nulla, ripigliava il cammino. E un pensiero le stava fisso, come un chiodo, nella mente: - Mi separeranno da lui! Mi separeranno da lui! - I passanti, a mano a mano che ella procedeva, diventavano più numerosi: ora ella li guardava in faccia, a uno a uno, quasi per riconoscerli: un tale, un uomo grasso e panciuto, vedendosi fissare a quel modo, fece un mezzo giro e le tenne dietro. Ella avrebbe voluto farsi una ragione sui fatti; passare in rassegna tutte le ragioni che avrebbe avuto Paolo di tenerla seco, anche contro la volontà della vecchia contessa; in fin dei conti, poi, non era certa di nulla: ma la sua fantasia lavorava, evocava Paolo ora innamorato, ora freddo, ora generoso, ora cattivo: in quel momento un garzone di fornaio la urtò con la cesta che reggeva sulla spalla. Lei si voltò e gli gridò dietro:

- Villanaccio!

L’altro rispose con parole che lei non intese. Intanto cominciava a piovigginare: le gocce d’acqua le ferivano il collo e la faccia come punte di aghi sottili. Leona alzò la testa e guardò per cercare dove ricoverarsi: davanti, in fondo, vide l’insegna del caffè di Roma. Allora, improvvisamente, si ricordò che lì andavano a far colazione degli amici di Paolo; ebbe la certezza materiale che lì avrebbe saputo quel che voleva. Entrò.

Suonava mezzogiorno, e il caffè era pieno di gente. Leona andò a pigliare posto a una tavola, in fondo: tutti si voltarono sul suo passaggio; due o tre signori si cavarono il cappello: lei non li riconobbe subito. Ma, come fu seduta, Gabriele Caligaris le si avvicinò, il cappello in mano, la testa un po’ calva, corretto; le stese due dita e le disse calmo, come se nulla fosse accaduto fra loro:

- Be’ e di dove piovete? È un secolo che non vi si vede.

- Oh, Gabriele! - disse Leona, stringendogli la mano.

- E così che fate, ora?

- Io? nulla: mi riposo - rispose lei con accento di amara ironia.

- Avete notizie di Paolo?

- È tornato ieri sera.

- Ah! - esclamò Calligaris con l’accento di uno che risponde più al proprio pensiero che alla domanda del suo interlocutore.

Il cameriere mise davanti a Leona un piatto con una bistecca e un fiaschetto di vino. Leona masticò in silenzio qualche boccone della bistecca; bevve due dita di vino, poi, improvvisamente, chiese a Gabriele:

- Sapete la novità?

- So, so - rispose l’altro, scrollando la testa, in atto di con doglianza discreta.

Leona lo guardò; capì che l’altro era informato e che bisognava che ella non si tradisse, se voleva scoprire il terreno, e soggiunse:

- Che ne dite?

- Il villino di via Varese è sempre a vostra disposizione - mormorò il Caligaris, chinando galantemente la testa.

Leona diede un guizzo; ma si contenne. Bevve un altro sorso di vino, fece risuonare negligentemente le smaniglie che portava ai polsi, e riprese:

- È arrivata anche la madre di Paolo.

- Ah, ah! - fece Gabriele, cantando. - Il signor von Moos fa le cose in regola.

Di nuovo, Leona guardò il Caligaris. Il signor von Moos! Che c’entrava il signor von Moos, in quella faccenda? C’era dunque, qualcos’altro che ella non sospettava? Freddamente, seguitando a affettare una mela, riprese:

- E che fa il signor von Moos?

- Mah! si rassegna. Oramai, già, non c’era altro rimedio. Del resto, tanto meglio per voi: quel ragazzaccio, credete, vi avvelenava. Non vi si riconosce più, parola d’onore! - soggiunse, come osservandola ora per la prima volta.

Leona aveva la febbre: fosse il caso, fosse l’astuzia del suo interlocutore, costui sembrava evitare di dire chiaro quello che lei voleva sapere; d’altra parte lei, interrogandolo direttamente, temeva di tradirsi e di metterlo in guardia contro qualunque rivelazione. Stette un poco a riflettere sulle parole onde avrebbe riappiccato il discorso, in quella il Caligaris le domandò:

- E voi ora che intendete fare, se è lecito?

- Nulla... non so... - balbettò la donna.

- Speriamo almeno che Paolo vi compensi con qualche cosa di un po’ meno ideale che non abbia fatto fin qui - esclamò il Caligaris con il suo accento beffardo.

- Lui? ma se non ha un soldo! - disse Leona alzando le spalle.

- Eh! ha i milioni di sua moglie, adesso!

Fu un colpo di coltello al cuore di Leona. Ella aprì la bocca, come se si sentisse mancare l’aria e divenne bianca come un cencio: il Caligaris, che, con la testa piegata, tamburinava delle dita sul marmo della tavola, non se ne accorse. Soltanto levò la testa, meravigliato, quando notò il cambiamento della voce di lei, che diceva, facendosi forza per dissimulare la sua ambascia:

- Io butterei quel denaro dalla finestra.

Gabriele s’immaginò che ella si fosse avuta a male delle parole di lui, e, seccamente, soggiunse:

- Fareste male, mia cara, i tempi sono duri.

Ella si alzò e fece per pagare; ma il Caligaris la impedì quasi a forza. Leona ringraziò con un sorriso nervoso, e uscì: le pareva di soffocare.

Cadeva un’acquerugiola fitta e sottile, che avvolgeva quasi di un velo i palazzi, le botteghe, la via che si stendeva da una parte fino a porta del Popolo, dove il grande obelisco sorgeva, come un’ombra, nella nebbia grigia, e, dall’altra, verso piazza Venezia. Ella non pensò neanche a chiamare un legno di piazza, e, sotto la pioggia, imboccò via dei Condotti. Le gocce fredde che le sdrucciolavano sul collo mal protetto dalla pelliccia, la facevano trasalire: ella non vi badava. Ogni tanto urtava in qualcuno che le passava accanto, l’ombrello aperto: quello si rivoltava, la guardava fisso, poi ripigliava la via, tentennando la testa.

Leona si trovò in casa senza sapere come ci fosse arrivata. Nazareno le diceva:

- Il signor conte ha mandato a prendere della roba, e se l’è fatta portare all’albergo.

- Che roba? - domandò lei, come trasognata.

- Due vestiti, le camicie, la veste da camera e alcune carte. Allora ella si ricordò che non sapeva ancora il nome di lei, della fidanzata. Disse al cameriere:

- Sai che il conte è sposo?

- Oh!... - fece il vecchio con accento di meraviglia e di profondo rammarico; e, senza aggiungere altro, uscì, le spalle incurvate, fuori della camera.

- Che fare ora? che fare ora? - si lamentava ella a voce alta, girando qua e là per la casa. La testa le ardeva; le mani le tremavano. Faceva mille progetti, uno più stravagante dell’altro: andare all’albergo, gettarsi ai piedi della vecchia contessa, supplicarla che impedisse quel matrimonio. No, no, non era questo. Avrebbe veduto Paolo, gli avrebbe parlato, avrebbe pianto, l’avrebbe minacciato; ma la sua immaginazione glielo raffigurava freddo e indifferente davanti a lei, la sigaretta in bocca, l’accento secco e sprezzante. Il vile! ma perché l’aveva voluta, perché l’aveva perseguitata, perché le aveva tolto la pace del cuore e della coscienza, due volte? Per forza l’aveva voluta; e ora l’abbandonava per un’altra, perché un’altra aveva i milioni! L’ingiustizia delle cose del mondo la rivoltava.

Poi ella cercava di farsi una ragione. Non sapeva forse che lui, così vano, così ambizioso, così egoista, era capace di questo e di altro? Non aveva preveduto da un pezzo, senza osar mai di confessarlo a se stessa, che tutto sarebbe finito così? Perché ora se ne rammaricava? Era pur vissuta tanti mesi senza di lui, dopo la loro rottura di Napoli! E, con amarezza profonda, sentiva allora che non lo aveva amato mai tanto, neppure nei primi giorni del loro legame; che gli si era affezionata sempre più a mano a mano che lo aveva conosciuto più perverso e più ignobile! Era un amore fatto di tenerezza, di dolore, di abitudine, di rimpianti e di sogni. Chissà? forse gli voleva tanto bene, perché l’aveva fatta tanto soffrire.

Seguitava a girare per la casa, fantasticando, guardando tutti i mobili, tutti i gingilli, quasi che avesse voluto fissarseli bene nella mente e negli occhi. Un mazzo di fiori, un vecchio mazzo di fiori appassiti, che egli le aveva dato sei mesi prima e che ella aveva conservato in una coppa di cristallo, la commosse improvvisamente. Di subito gli occhi, rimasti aridi fino a quel momento, le si riempirono di lacrime; un singhiozzo le proruppe dal petto; si accasciò su se stessa, per terra, e diede in un pianto disperato e convulso.

Quello sfogo le fece bene. Quando si rialzò, era un’altra: i suoi occhi neri, largamente aperti, mandavano, tra le lacrime, strani bagliori. Se li asciugò in fretta, con il dorso della mano, quasi temendo di non fare in tempo, di essere sorpresa, e andò nello studio di Paolo.

Cautamente, senza far rumore, come una ladra, cercò di aprire i cassetti dello scrittoio: erano chiusi. Allora andò in camera: sapeva che nel comodino c’era un vecchio mazzo di chiavi di ogni forma e di ogni lunghezza, mezzo arrugginite, tenute insieme da un cerchio di acciaio. Le prese, tornò nel salotto, ne provò e riprovò molte: una, finalmente, girava nella serratura: il cassetto si aprì.

C’erano dentro delle carte, dei guanti scompagnati, delle buste da lettere, dei biglietti da visita, due o tre boccette vuote di essenza, dei fasci di lettere, la più parte venute per la posta. I timbri le rivelavano quelle di data recente: le aprì, le lesse a una a una: erano sottoscritte: «Vittoria Moos» o «Vittoria » o «Vitt.» senz’altro. C’erano anche dei telegrammi con la stessa firma, che davano o rimandavano convegni, che avvisavano, che supplicavano. Le parole di Gabriele Caligaris le tornavano in mente; anche le tornavano in mente certe frasi di Paolo a proposito della ricchezza del banchiere tedesco: ciò nonostante ella non si raccapezzava. In quelle lettere si parlava di un marito, dei rischi e delle angustie di una falsa posizione, del terrore di essere sorpresa. No, non poteva essere lei! E seguitava a leggere: - «Che fatalità! La persona di cui mi servivo e sulla quale avevo intera fiducia, per una questione avuta con altri di famiglia, lascia il suo servizio domani, cosicché tu non mi scriverai, bambino mio, finche io non ti avvisi di aver trovato un altro mezzo sicuro per avere le tue lettere». - «Grazie per questa tua santa lettera: la nobiltà dell’anima tua è pari alla tua gentilezza. Io ti amo per questo e per altro, tesoro! Non temere, io sarò all’altezza dei tuoi sentimenti elevati. Vorrei poterti dimostrare che, per amor tuo, io sono capace di qualunque sacrificio». - «Io so come tutto questo andrà a finire... ma non funestiamoci pensando all’avvenire. Tu mi dici ora, fanciullo mio, che mi ami; e io voglio crederti, chiudo gli occhi e non voglio riflettere ad altro e non voglio sapere più nulla».

Tutto questo accadeva tra l’aprile e il maggio.

Improvvisamente, una lettera dell’agosto diceva: «Margherita mi ha confessato ogni cosa. Ho pianto, mi sono disperata, avrei ucciso con le mie mani quella crudele fanciulla; ma ora mi sono rassegnata. Del resto, me l’aspettavo; ma avrei voluto che tu avessi la franchezza di dirmi tutto, di non lasciarmi illusioni. Tu sai bene, cuor mio, che io avrei fatto di tutto per vederti felice. Oramai io sono vecchia; voialtri siete giovani tutti e due, e vi amerete, e sarete felici. Sia fatta la volontà del Signore. Tu sei stato sempre il mio figliuolo adorato: ora lo sarai di fatto e di nome. Io vedrò di fare intendere la cosa a mio marito, e voialtri due, buone e adorate creature, benedirete la vostra povera madre che, simile al pellicano, si strappa il cuore per voi. Chino la testa, e piango».

Finalmente Leona intendeva. Non sapendo che Margherita era nipote del banchiere, si immaginò che ne fosse la figliola; e un’onda di disgusto le salì su dal cuore. Anche questo: egli sposava la figlia dopo essere stato l’amante della madre! Oh, ma si poteva essere dunque più abbietto di così?

Improvvisamente, ella udì, nell’altra stanza, la voce di Paolo. In fretta e in furia, si cacciò in tasca quelle lettere, richiuse il cassetto e, per non dar sospetti, si affacciò alla finestra.

- Leona! - disse Paolo, fermandosi in mezzo alla stanza.

- Eh! - fece lei, tranquilla, voltandosi.

- Guarda che stasera non torno: mia madre mi vuole con sé all’albergo!

- Va bene - rispose la donna.

Ma quando egli si avviò per uscire, lei lo trattenne con un gesto.

- E - disse - non tornerai neppure domani, nevvero?

- Perché?

- Oh! perché la mia presenza in questa casa ti compromette. Lui scrollò le spalle. Ella riprese:

- Non mentire, non mentire. A quando il matrimonio?

- Che matrimonio? - balbettò lui.

- Il tuo matrimonio con la Moos: tutta Roma ne parla. Egli divenne cinico. Rispose:

- Ebbene, sì: giacché te lo hanno detto, sarà una noia di meno. Sissignora: sposo la von Moos: c’è altro?

- E io?

- Oh - fece lui, con un mezzo sogghigno, fingendo di intendere quello che l’altra non voleva dire - penseremo anche a te, non avere paura.

- Quanto mi dai per l’onore che mi hai rubato, per l’ignominia che mi costi? - disse lei, cominciando a esaltarsi, ma cercando di tenersi calma a ogni modo.

- Fa una domanda - disse lui freddamente.

- Vile! vile! vile! - proruppe Leona, andandogli incontro, i pugni chiusi, le pupille sbarrate, tremando per tutto il corpo.

- Ohè - fece lui, tirandosi da una parte, impaurito sul serio.

- Tu non la sposerai, capisci? - gli mormorò ella in viso con voce sorda, gettando fiamme dagli occhi.

- E chi me lo impedisce? - esclamò lui, con un riso di orgoglio sprezzante.

- Io! io! io! Io lo impedirò a te e a quella vecchia mezzana di tua madre!

- Ah, sgualdrina! - disse lui sul punto di avventarsi.

- Provati!

E, con un piede puntato avanti, il solido pugno da scudiera teso contro di lui, i capelli sparsi, lo guardava in atto di sfida. E come egli, seguitando a vomitare contumelie, le sbatteva la porta in faccia, lei gli corse dietro gridando:

- Canaglia! canaglia! credevate dunque di potermi buttare via così, come un cencio smesso? Credevate di poter commettere le vostre infamie così, senza un rimorso? Aspetta, che te lo dò io il matrimonio! Aspetto, aspetta, pìcaro!

Il conte Paolo Cappello era già sulla strada, che ella gridava ancora.

Quando Leona, ancora fatta vibrante per quello sfogo, rientrò nella stanza, si buttò a sedere su un divano e, curva sulle ginocchia, la testa fra le mani, si mise a riflettere. A poco a poco la stanza rimase nel buio: i mobili, le stoffe, i vasi, i gingilli di ogni sorta quasi naufragavano, perdendo i colori e i contorni, nell’ombra della sera: solo la finestra aperta si intagliava chiara nel cielo umido e grigio. Delle voci venivano di lontano, languidamente; e, dai bussi fitti della Trinità dei Monti, giungeva, eguale e monotono, il singhiozzo della fontana.

Improvvisamente Leona si riscosse e ordinò a Nazareno di portarle un lume. Aveva nella fronte quella ruga profonda che suole precedere una determinazione troppo rischiosa. Tutta la sera non disse nulla; pranzò in fretta, di malavoglia e quasi sempre distratta, a segno che, non accorgendosi di aver già mangiato la frutta, tornò a domandarla. Poi, rimase a bere del vino e a fare un giuoco di carte, fermandosi ogni tanto a fantasticare, gli occhi istupiditi. Andò a letto ubriaca, e dormì di un sonno di piombo.

Il sole era già alto sull’orizzonte, quando Leona si svegliò e si rizzò a sedere sul letto. Si vide sola; si ricordò; ebbe come una trafittura nel cuore. Balzò fuori del letto; si vestì lentamente; si lavò; si tirò su i capelli: tutto questo incoscientemente, come una mentecatta. Quando si mise la mano nella tasca del vestito, e vi trovò le lettere della von Moos, che vi aveva nascoste la sera avanti, provò quasi un senso di meraviglia. Poi uscì.

Il tempo si era mutato, e la mattinata era fredda, ma bella. L’aria ghiaccia le fece bene; ella attraversò piazza di Spagna, che rideva nella luce diffusa, e per via della Croce si recò nella chiesa di San Carlo al Corso. La chiesa era aperta; ella vi entrò, e andò diritta a inginocchiarsi vicino a un confessionale. Due o tre vecchie signore, che ascoltavano la messa, si voltarono a sbirciare la nuova venuta. Leona, la faccia tra le palme, pregava.

Di lì a poco udì un leggero rumore nel confessionale; lo sportello si aperse, e una voce sussurrò:

- Dite il confiteor.

Ella disse il confiteor pianamente, senza levare gli occhi, senza abbassare le mani dal viso.

La voce riprese, dolcemente:

- Dite i vostri peccati, figliola mia.

- Vivo in peccato mortale, padre - mormorò ella con un filo di voce.

- Con un uomo?

- Con un uomo.

- E allora, perché venite da me, figliola mia? - riprese la voce, ancora più dolcemente.

- Per un consiglio, padre.

- Parlate.

Ella raccontò la sua storia: come si era data a quell’uomo; come egli l’aveva lasciata la prima volta; come l’aveva ripresa; come ora l’abbandonava di nuovo, per sempre, per sempre, per sposare un’altra. La voce della penitente era gonfia di lacrime.

- Ebbene, figliola mia: offrite a Dio codesto dolore, che egli forse vi manda per espiazione dei vostri peccati; ringraziatelo anzi che vi abbia tratto, nella sua grande misericordia, dall’abisso dove eravate caduta...

- Ma lui! lui! - proruppe la donna singhiozzando - lui che sposa la figlia di una sua amante, una vecchia...

- Calmatevi, figliola, calmatevi! - insisteva la voce.

Ella soffocò il pianto; riprese:

- Gli devo lasciare far questo?

- Benedetta figliola! pensate a confessare i peccati vostri, non quelli degli altri.

- Oh padre! se mi abbandona lei!...

- Abbiate pazienza, figliola - riprese la voce, con un accento di persuasione paterna - ma io son qua per confessare tutti, santa pazienza! Vedete quanta altra gente che aspetta! Abbiate pazienza, figliola, figliola mia! Questo con la confessione non c’entra. Oh, Signore! Non ci mancherebbe altro che ognuno venisse qui a raccontarmi i suoi guai! Voi vivete in peccato mortale; volete seguitare a vivere in peccato mortale; e che volete che vi dica, Signore del Paradiso!

Ella si alzò stupefatta, senza rispondere, e se ne andò barcollando; un’altra prese il suo posto.

Uscita dalla chiesa, Leona chiamò un legno e vi salì dentro. Improvvisamente, mentre si adagiava sui cuscini, le venne un’altra idea; il suo viso parve rischiararsi un momento. Ordinò al cocchiere:

- Albergo della Minerva.

Sapeva che la madre di Paolo era lì, e le voleva consegnare le lettere della von Moos, affinché la contessa, che certo ignorava la tresca anteriore, si opponesse a quel matrimonio. Paolo non sarebbe stato più suo, ma non sarebbe stato neppure di quell’altra. La contessa, certo, non avrebbe voluto tener mano a un’infamia di quella sorta. E cercò di nuovo in tasca per assicurarsi che le lettere c’erano davvero.

Durante il percorso, in via della Maddalena, ella incontrò il Caligaris, che le fece di cappello, con quel suo solito sorriso di sottile ironia.

Davanti l’albergo della Minerva, la carrozza si fermò. Leona ne discese, entrò nel portone e domandò a un cameriere:

- La contessa Cappello?

- Favorisca di venire con me - rispose il cameriere, precedendola.

Ella lo seguì al primo piano. Davanti a un uscio, il cameriere picchiò.

- Avanti! - disse una voce agra di donna.

- Chi devo annunciare? - mormorò il cameriere mettendo la mano sul pomo della serratura e volgendosi verso la signora, con un inchino del capo.

- Leona - disse l’altra, arrossendo un poco, quasi che quel nome avesse dovuto rivelare al cameriere il suo vero stato.

Il cameriere lasciò l’uscio socchiuso, ed entrò. A Leona il cuore batteva forte. Ella udì profferire il suo nome; udì la voce agra esclamare:

- Che vuole ancora, costei?

Un’altra voce, la voce secca e fredda di Paolo, ordinò:

- Dite a quella signora che la contessa non riceve.

Leona non aspettò che il cameriere le venisse a riferire quella risposta, e si precipitò per le scale. Dei vapori le salivano al cervello e le davano come una visione di sangue: ella era divenuta livida, e le mani, nel manicotto, le tremavano. Attraversò il portone con gli occhi bassi, in fretta; risalì nella vettura che l’aspettava, e ordinò al cocchiere:

- Banca Moos.

Digrignava i denti, in silenzio, come una belva ferita a morte.

Il cielo, le vie, le case, ella non vedeva più nulla; una brama irresistibile di distruzione e di vendetta la mordeva al cuore; le pareva che il cavallo non corresse abbastanza. - Tu non lo sposerai! - mormorava dentro di sé, le labbra contratte dall’ira. E vedeva il banchiere, un uomo che ella non conosceva, ritto innanzi a una finestra, leggere quelle lettere, a una a una, sudando freddo.

Di nuovo, il legno si fermò davanti a un gran portone spalancato, sul quale una tabella recava in lettere d’oro la scritta: Banca Moos & C. Leona salì rapidamente le scale coperte da un tappeto grigio listato di rosso; giunse al primo piano e domandò a un usciere gallonato:

- Il barone Moos?

- Non riceve - disse l’usciere - ripassi dalle tre alle quattro. - Non importa, non importa: basta che gli consegniate queste carte. È di là, non è vero?

- Sissignora: è nel suo gabinetto.

Leona cavò il pacco delle lettere, che le sfuggivano dalle mani; alcune caddero in terra: l’usciere le raccolse.

- Potete darmi una busta, ma grande!

L’usciere andò a un tavolino, aprì un cassetto e ne trasse una busta enorme. Leona vi ripose dentro le lettere, alla rinfusa; chiuse la busta, e la consegnò all’usciere, dicendogli:

- Bisogna dargliele subito: si tratta di un affare importante.

- Non dubiti, signora! - rispose l’usciere pigliando religiosamente in mano quella busta, raccomandata con tanta premura. Quando Leona uscì dalla banca, provava un senso di sollievo, come se fosse uscita da una prigione. Era quasi allegra, e tornò a fare colazione al caffè di Roma.

Il giorno seguente lo scandalo di casa von Moos faceva le spese della conversazione in tutta la società elegante di Roma che, sulla fine di ottobre, era già numerosa. Davanti al caffè Aragno, nel caffè di Roma, negli uffici dei giornali, dappertutto si raccontavano i particolari del fatto, secondo che ognuno li sapeva o poteva immaginare. Von Moos aveva sorpreso alla moglie delle lettere del conte Cappello, dicevano alcuni; no, aveva sorpreso al Cappello le lettere della moglie, dicevano altri. Ma come? ma sì, per un equivoco: il Cappello, che doveva sposare la nipote del banchiere, aveva rimandato le lettere alla zia di lei, e invece erano capitate in mano allo zio, il banchiere medesimo. Il matrimonio era andato per aria, naturalmente: la sera stessa, zia e nipote partivano per la Germania; e si parlava anche di una sfida corsa fra il conte Cappello e il banchiere. In un crocchio di amici il segretario del Moos raccontava, ridendo, come il barone aveva dato a lui quelle lettere, affinché le leggesse e gliene riferisse, credendo che si trattasse di affari. Oh! la faccia che aveva fatto quando il segretario, dopo avere scorso il carteggio, aveva dovuto osservargli:

- Signor barone, credo più conveniente che queste carte le esamini da sé.

- Impagabile! impagabile! - gridavano tra le risate gli amici del caffè di Roma.

Quando Gabriele Caligaris udì raccontare la cosa, esclamò placidamente:

- Qui sotto c’è lo zampino di una donna.

- Leona!- esclamarono tutti, meravigliati di non averci pensato prima. - Sicuro! doveva essere stata lei! Ah, la terribile creatura!

- E ora dove si trova? - domandò l’Ozanil.

- Come? non sapete la notizia? - rispose il Caligaris. - È tornata agli antichi amori: domani sera debutta all’Alhambra.

- Bisogna andarci, perbacco! - disse qualcuno.

- Caligaris ne ha l’obbligo, lui che fu per sei mesi il tutore della donzella - riprese Giorgio Ozanil ridendo giovialmente nella sua gran barba lucida e nera.

Il Corso era rumoroso e animato, la sera appresso, come sempre, a quell’ora, in Roma, d’autunno. Il cielo, cupo e profondo, scintillava di stelle: davanti le vetrine fiammeggianti delle oreficerie, dei magazzini di mode, delle dolcerie, la gente si fermava a crocchi e guardava a lungo. Erano giovani donne a braccio dei loro mariti impiegati, che andavano a spasso; erano ufficiali di primo pelo che adocchiavano qualche sartina. Passando, si potevano cogliere brani di conversazione, come in una sala da ballo: una vettura veniva a passo, e si udiva la voce del vetturino, accompagnata dallo schioccare della frusta: - Il legno! - Ogni tanto la porta vetrata di una trattoria si spalancava, e, con un grasso odore di cucina, ne usciva un gruppo di signori, il sigaro in bocca, le mani affaccendate a tirare su il bavero del cappotto.

Il caffè di Roma era più popolato del solito. Attraverso i vetri umidi di vapore, si vedevano dei camerieri in marsina andare e venire, le braccia ingombre di piatti. Tutti i tavolini erano pieni: in fondo, quattro o cinque signori, in abito da viaggio, la borsetta a tracolla, mangiavano in silenzio; e come non erano fra gli assidui del luogo, più di uno si voltava a guardarli.

La porta del caffè si aprì, e apparve Gabriele Caligaris. Si fermò un momento per calzare un guanto, accese un sigaro e chiamata una vettura, ordinò al cocchiere di portarlo all’Alhambra.

Ma in quel momento una turba di strilloni si precipitò per il Corso, gridando: - Fanfulla! Fanfulla con il duello di oggi! Fanfulla! - Le voci salivano e si perdevano in tutte le direzioni; molti si fermavano a comprare il giornale; anche il Caligaris lo comprò e, senza aprirlo, se lo mise in tasca. La vettura si mosse.

Sulla porta del Circo c’era già una folla straordinaria. Gabriele scese dalla vettura, girò da un lato e per una porticina che dava in un lungo corridoio si avviò verso l’interno, donde a tratti giungeva uno sbruffare e uno scalpitare di cavalli, qualche nitrito impaziente e un acre odore di fieno.

Sotto la luce cruda del gas che illuminava le pareti di legno, egli incontrava qualche clown già bell’e vestito, la parrucca rossiccia a punta, i pomelli ardenti di minio, le sopracciglia alte ad angolo acuto, il vestito cascante; qualche pompiere in divisa che passeggiava serio e silenzioso; qualche cavallo tratto a mano da un palafreniere. Quando si trovò sull’entrata della stalla, il signor Balzano, che urlava dei comandi alla sua gente con il frustino levato, gli disse con assai buona grazia:

- Buona sera, signore.

Il Caligaris, che era noto per la sua ricchezza e aveva fama di intenditore in fatto di cavalli e di donne, godeva nel circo di una grande considerazione.

- Buona sera, Balzano - rispose lui, con un accento beffardo di degnazione. - Stasera è in rialzo, eh, la vostra baracca?

- Eh! quando le donne ci si mettono di mezzo! - disse il direttore, ridendo.

- La Perla di Granata, nevvero? Voi siete un uomo di genio, Balzano. E, a proposito, dov’è la piccina?

- Nel suo camerino; ma ha già dato ordine di non ricevere nessuno.

- Neppure me? un vecchio amico innocente?

E senza darsi pensiero dei gesti di stizza che il direttore faceva dietro le spalle di lui, andò verso il camerino di Leona, e, con il pomo del bastone, picchiò.

- Chi è? - chiese la voce della giovane.

L’uscio di legno si aprì e, dietro la tenda, apparve la bruna testa sorridente di Leona.

- Venite: fate presto - disse; e richiuse subito.

Il camerino era ingombro di casse, di vestiti, di maglie, di scarpine color di rosa, di nastri. Sulla pettiniera giacevano alla rinfusa bottiglie, vasi, scatolini di ogni foggia e di ogni dimensione, donde emanava un profumo pesante di pomata e di cipria. Leona, in una lunga amazzone oscura che le serrava il busto come una maglia, il lucente cappello cilindrico piantato sul volume abbondante dei suoi meravigliosi capelli, un frustino sotto il braccio, la sigaretta in bocca, si calzava un paio di guanti scamosciati che le arrivavano fino al gomito. Chiese a Gabriele, tranquillamente:

- Ebbene! com’è andata?

- Ferito sotto la settima costola - rispose l’altro, serio.

Ella impallidì. Soggiunse, con la voce arrochita:

- A morte?

- Non credo; ma ne avrà per sei mesi, almeno.

Leona non aggiunse nulla; ma poiché doveva abbottonarsi un guanto, e la mano le tremava, disse a Gabriele, porgendogli il braccio:

- Mi fate il piacere?

Ella era triste, molto triste; ma provava, in fondo, una gran calma, un benessere di rinnovamento, quale si prova in convalescenza, dopo una malattia lunga e mortale.

Eppure l’uomo che ella aveva creduto di amare fino a due giorni avanti, si trovava in fin di vita, e lo aveva perduto per sempre. Si era dunque ingannata? Non lo aveva mai amato? Ma due giorni avanti le era parso di morire dalla disperazione. Era forse l’orgoglio offeso? E l’amore non era fatto d’altro che di abitudine e di amor proprio? Non sapeva, non comprendeva; questo sentiva soltanto, che il suo cuore, improvvisamente, era entrato nel buio, si era chiuso come una tomba, dove non c’era più né desiderio, né speranza, né dolore, né nulla. Era questo, dunque, l’amore? E, come l’orchestra attaccò un tempo di galoppo, ella, con il frustino, si mise a batterne il tempo sulla pettiniera ingombra: un vaso di pomata rosea cadde per terra, e si ruppe.


FINE.