L'ombra del passato/Parte I/Capitolo IV

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Capitolo IV

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IV.

L’inverno fu rigido e lungo. Dopo Natale la Tognina dovette mettersi a letto, coi suoi dolori reumatici, e vi stette quasi un mese. Non si lamentava mai, ma qualche volta dava un grido e un sospiro che, diceva Pirloccia, parevano quelli di Gesù nell’orto degli ulivi.

In quel tempo i Pirloccia invasero la casa come un campo nemico abbandonato. Marco e Agostino venivano ogni sera, accendevano il fuoco, mangiavano la polenta preparata dalla zia Elena. Questa, intanto, per dare attenzione alla malata, si coricava con Fiorina nel lettuccio di Adone. Ed egli fu mandato a dormire in una cameraccia all’ultimo piano.

C’era molto freddo lassù; la finestra, invece di persiana, aveva uno sportello esterno che s’apriva e si chiudeva con una cordicella assicurata ad un chiodo sul davanzale. I topi, durante la notte, correvano e saltavano sulle travi ed anche sul pavimento, e rosicchiavano le patate e il granturco ammucchiati negli angoli della cameraccia. Adone non aveva paura dei topi, ma temeva che qualche [p. 67 modifica]notte anche le martore venissero a visitarlo nel suo freddo esilio. Una cosa però lo confortava: entro un vecchio cassone, accanto al quale egli aveva collocato la cesta coi suoi tesori, v’erano pomi e noci. Egli faticava molto ad aprire il cassone, ma una volta sollevato il sepolcrale coperchio, tutti i guai e le ingiustizie della terra venivano dimenticati.

In primavera i due gemelli si sposarono. Vi fu una gran festa, dopo la quale il Pirloccia, completamente rappacificato coi figli, partì con le sue scope, per uno dei suoi soliti viaggi al di là del confine.

Al ritorno trovò grandi novità. Le sue nuore, spose da appena tre mesi, erano in istato di avanzata gravidanza. Inoltre non andavano d’accordo, sebbene avessero prima di sposarsi giurato di vivere e morire assieme. Dirce, la sposa di Agostino, era bionda, grassa, indolente; Carissima invece lavorava sempre e cantava dalla mattina alla sera. Era bellissima, bruna, con due riccioli neri sulla fronte rosea, e gli occhi luminosi.

Tutte le simpatie dell’ometto erano per lei. Al suo ritorno egli pregò Tognina di dare una camera, — sempre in affitto, s’intende, — a Marco ed a Carissima. Un buon padre deve evitare che i suoi [p. 68 modifica]figliuoli si azzuffino, specialmente a causa di donne. Egli fece ancora vedere, sulla palma della mano, una moneta d’oro. La donnina guardò la moneta e non rispose. Ma otto giorni dopo Marco e Carissima occuparono la camera attigua a quella dello zio morto. Carissima lavorava da sarta: domandò alla zia il permesso di cucire nell’atrio, e questo, poco per volta, diventò il suo laboratorio.

Così la vasta casa un tempo deserta si riempì di gente, risuonò di grida, di risate, di canti. Al rumore della macchina da cucire si univa la voce melodiosa di Carissima che qualche volta aveva gorgheggi d’usignuolo.

La Tognina sola taceva, intenta a pulire le sue dilette seggiole. Le dispiaceva o la rallegrava quell’ondata di vita giovanile che ora le si agitava intorno? Nessuno lo ha mai saputo. Qualche volta il suo umore variava. Per giorni e giorni ella taceva, si nascondeva: poi diventava alquanto socievole, accoglieva i nipoti alla sua tavola, faceva vita in comune con loro. Oppure si arrabbiava; cosa che prima non le succedeva mai: e quasi sempre se la prendeva con Adone, lo batteva, e minacciava di mandarlo via. Egli piangeva di rabbia e d’umiliazione. Almeno la zia avesse maltrattato anche gli altri nipoti: no, era sempre lui la vittima delle improvvise collere di lei.

— Rabbiosa! — le disse un giorno, stringendo i pugni con disperazione, — perchè sempre a me? Sempre a me? Ma che t’ho fatto, di’?

— Se non stai zitto ti rompo la testa. [p. 69 modifica]

E lo rincorse col matterello; pareva pazza. Egli ebbe paura di lei come del Pirloccia. E il peggio era che Fiorina e Fiorello, vedendolo perseguitato dalla zia, prendevano con lui arie da padroni.

— Tu non lavori, non prendi mai soldi, puftti... — diceva Fiorello soffiando con disprezzo. — Ben fatto se la zia ti dà, allora!

Adone gli mostrava la lingua: l’altro perdeva la pazienza e gli si avventava contro, e siccome era più forte lo buttava a terra, gli schiacciava la pancia, gli dava tanti pugni. Adone mordeva: i suoi dentini tagliavano come coltelli.

Urla, pianti, gemiti da entrambe le parti. Marco e il Pirloccia apparivano in iscena. I due ragazzi s’alzavano e scappavano. Adone se ne andava dal cordaio o dal suo amico zolfanellajo, al quale raccontava le sue pene. E siccome naturalmente svisava i fatti, dandosi troppa ragione, l’ometto giallo dalla cravatta rossa non gli rendeva giustizia. Neppure lui! Nessuno lo credeva: nessuno lo confortava.

Ed egli andava dalla sua mamma scalza, che stava seduta sul limitare della porta e applicava un rappezzo piccolo su un rappezzo grande, ad un paio di calzoncini consumati.

Reno e Ottavio, sdraiati per terra, giocavano come due cagnolini; Eva, scalza e coi capelli biondi scarmigliati simili ad una nuvoletta d’oro, faceva rapidamente delle tremoline per cappelli.

— Nessuno mi vuol bene, — si lamentava Adone. — Tutti mi danno, tutti mi odiano. Tutti i malanni sono con me! [p. 70 modifica]

La mamma sospirava, ma non gli dava ragione.

— Devi esser buono, ecco tutto! Tognina ti vuol bene, e se qualche volta ti corregge è perchè vuol vederti bravo.

— Ma agli altri non dà.

— Vuol più bene a te che a loro, caro il mio omin. Credi pure, è così! E se ella ha una coscienza rimedierà al mal fatto.

La mamma sospirava, dicendo così; ma Adone non si confortava. E andava via sconsolato; percorreva l’argine polveroso, s’internava nel suo viottolo, s’arrampicava sugli alberi, saltava i fossi, o si sdraiava sull’erba e sognava. La natura era già per lui pietosa e consolatrice, come non lo era più neppure la mamma.

Sull’erba, tra i fiori alti e gialli che parevano tinti dal sole, egli si sentiva tranquillo, come legato ad essi da una misteriosa simpatia. L’erba era la sua mamma, i fiori i suoi fratelli: e il cielo grande e azzurro, che qualche volta pareva sparso di piume bianche e grigie, era la volta della sua momentanea dimora, del rifugio dove nessuno lo tormentava.

— Io diventerò grande, — egli pensava, coricato supino, e agitando le mani in aria. — Posso diventare alto fino a toccare il cielo. O almeno alto come questo palo, che sembra un gigante. Allora nessuno più mi toccherà: guai, se mi toccano! Farò il maestro, allora, e avrò un puttino, anzi due, anzi sette, e dirò loro: «Siate buoni, puttini, eh! Se sapeste quante bastonate ho prese, io, [p. 71 modifica]perchè ero cattivo!» Eh, come sarò alto! Arriverò fino al muro del parco e vedrò cosa c’è dentro.

Ah, come sarò allegro allora!

I tempi, intanto, peggioravano.

Adone frequentava la scuola, e, se non amava, ammirava il vecchio maestro che «sapeva di tutto». Il vecchio maestro viveva solitario in una casetta color di rosa, circondata da un orticello pieno di dalie e popolato di gattini e di uccelli.

Una volta Adone andò dal maestro a portargli un regalo: e nella piccola sala da pranzo vide un uccello strano, tutto bianco, con gli occhi rassomiglianti a quelli del maestro. Lo scolaretto provò una grande impressione: la casetta rosea, i fiori, i gatti, l’uccello misterioso, tutto gli parve invidiabile. Gli piaceva sopratutto l'indipendenza del vecchio maestro, il quale era padrone di entrare e d’uscire quando voleva, di passeggiare solo, di mettersi una calza rossa e l’altra turchina ed anche le scarpe diverse l’una dall’altra.

Inoltre il maestro sapeva «tutte le cose del mondo». Pareva avesse studiato a memoria il libro del perchè. Sapeva chi era il re, il papa, l’imperatore. Sapeva tutta la storia delle guerre degli italiani coi tedeschi. Si levava il cappello quando parlava di Vittorio Emanuele padre della [p. 72 modifica]patria. Ma quello che più colpiva Adone era la coltura geografica e astronomica del maestro, il quale sapeva persino che nella luna ci sono montagne e nelle stelle uomini, animali, fiumi; e probabilmente anche fossi larghi come quelli della strada comunale di Casalino.

Per tutte queste cose Adone, appena finita la terza elementare, dichiarò che voleva continuare a studiare e diventare anche lui maestro.

Per continuare a studiare bisognava recarsi a Viadana, partire la mattina per tempo, ritornare verso le due. Egli era pronto a tutto: aveva buone gambe, lui. Ma la zia, senza dubbio instigata dal Pirloccia, si oppose subito ai suoi desideri.

— Lavorare, bisogna! È tempo. Tutti lavorano! tu solo sei un fannullone.

— Ma non capisci che, dopo, guadagnerò tanti soldi? Ma tanti! — egli disse, desolato. — Li darò tutti a te, zia. Vedrai, zia mia! Ma fammi studiare. Ti dirò che sei tanto bella!

Egli la carezzava, le si strofinava addosso come un gattino: ella non si commoveva, neppure sentendosi adulata.

Durante quelle vacanze egli dovette tentare di lavorare assieme con Fiorello e Fiorina; ma non aveva nè voglia nè altitudine per riuscire a far bene lo scoparo. Gli piaceva assai più fare il burattinajo. Si nascondeva fra quattro sedie, agitando due scope nuove, alle quali faceva ripetere i discorsi di Pulcinella e di Sinforosa. Fiorina scarmigliata e Fiorello dalla lunga bocca [p. 73 modifica]ascoltavano attentamente; ma per quanto si divertissero, a un certo punto si scambiavano uno sguardo malizioso e si beffavano di Adone. Per loro, abituati a lavorare e ad obbedire, il ragazzetto allegro e imprudente era un po’ matto.

Se poi sopravveniva il Pirloccia la farsa si mutava in dramma. Adone taceva, si nascondeva, qualche volta riusciva a scappare. Allora se ne andava nel suo viottolo, e più in là ancora, verso l’argine o nei boschi di pioppi e salici che coprivano le rive. Se incontrava il vecchio Pigoss si attaccava disperatamente a lui, lo seguiva, si faceva prendere in barca. Se poi riusciva a farsi anche raccontare la storia della città sepolta nel fiume, dimenticava completamente i suoi guai. Allora gli veniva in mente di farsi barcajuolo. Sì, gli pareva che il vecchio portinèr sapesse cose che neppure il maestro sapeva.