La Perla Sanguinosa/Parte seconda/14 - La tragica fine del Guercio

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Parte seconda - 13 - Un altro attacco misterioso Parte seconda - 15 - La perla sanguinosa

14 — La tragica fine del Guercio


Annarodgburro, prima dell'arrivo dei portoghesi, quegli audaci conquistatori che per primi portarono le armi europee nell'Oceano Indiano, gareggiando in coraggio e anche in crudeltà coi conquistadores spagnuoli che rovesciarono gl'imperi americani, era la città santa dei cingalesi o meglio dei buddisti, ed ogni anno vi accorrevano pellegrini in masse enormi.

Aveva pagode superbe, ornate di pietre preziose, monasteri grandiosi, palazzi immensi, statue colossali rappresentanti il dio venerato, ma quando nel XVI secolo Albuquerque, il grande capitano portoghese, rovesciò i suoi avventurieri nelle regioni centrali dell'isola, la città scomparve. Tutto cadde sotto la rabbia di quegli avidi predoni, pagode, palazzi, monasteri e statue, sicché ora non vi restano che delle rovine, grandiose sì, ma sempre rovine.

Solamente il bogaha, non si sa per quale miracolo, sfuggì alla rabbia ed allo zelo furibondo di quei cristiani ladroni.

Come abbiamo detto, quell'albero, secondo le antiche tradizioni, sarebbe stato portato dal vento da lontane regioni e si sarebbe piantato da sé in quel luogo, onde proteggere colla sua ombra Buddha che si era fermato per qualche tempo nelle regioni centrali dell'isola.

Nel monastero, innalzato a breve distanza da quella famosa pianta, si trovano sepolti alcuni dei re di Candy, che hanno meritato di essere ammessi nel soggiorno della felicità per aver eretto dei templi e per aver fabbricato delle immagini in onore del dio, e che i credenti hanno trasformato in buoni geni incaricati della custodia di quel luogo sacro.

Non fu senza una profonda emozione che il pescatore di perle salutò dall'alto di una collina l'albero sotto la cui ombra viveva la fanciulla che tanto aveva pianto, la figlia del vecchio Chital.

«Ti batte forte il cuore, è vero, mio povero amico?» gli disse il quartiermastro che lo osservava.

«È vero, signor Will, — rispose il malabaro con voce alterata. — Mi sembra un sogno ritrovarmi qui, dopo una così lunga assenza e tante sofferenze. No, mi pare che la felicità sia troppa e che qualche disgrazia debba colpirmi prima di rivedere quell'adorata fanciulla.»

«Cosa dobbiamo ormai temere? La perla è sempre in mano nostra.»

«È vero, eppure ho paura, signor Will.»

«È la felicità che ti fa veder tutto nero, — disse Jody. — Animo, Palicur, scendiamo nella valle e poi avanti verso quelle rovine. Prima di sera noi saremo ad Annarodgburro.»

Stavano per lasciare la collina, quando un fracasso assordante, che pareva prodotto da un gran numero di trombe, di flauti e di gongs poderosamente percossi, rimbombò nella valle sottostante.

«Passa il reggimento?» disse Will, scherzando.

«Qualche pellegrinaggio importante, — rispose il malabaro che ascoltava attentamente. — Questa è l'epoca in cui i dissova, ossia i grandi del regno, si recano a visitare l'albero sacro.»

Il fracasso s'avvicinava, raddoppiando di foga. Oltre gl'istrumenti sovraccennati, si udivano rulli di tamburi e suoni strani che parevano prodotti da triangoli di ferro.

«Quello che s'avanza deve essere qualche cosa di più che un dissova, — disse finalmente Palicur. — Che sia il re di Candy?»

«Si reca anche lui qualche volta al monastero?» chiese Will.

«Ha alcuni dei suoi antenati sepolti lassù.»

«Aprite gli occhi! — gridò in quel momento il mulatto, che si era issato su una roccia per meglio dominare la valle. — È un magnifico corteo quello che sta per giungere.»

Un drappello di Candiani, splendidamente vestiti e adorni d'un numero prodigioso di campanelle, s'avanzava sventolando delle banderuole bianche e reggendo dei grandi stendardi, sui quali si vedevano dipinte in rosso alcune figure rappresentanti il sole, l'elefante, la tigre e molti altri animali spaventosi; il drappello era seguito da un altro composto di soldati armati solamente di sferze senza manico, formate d'una corda di canape, che facevano sibilare in aria senza posa in atto di minaccia.

Apparvero in seguito due o tre dozzine di musicanti muniti di lunghe trombe, di tam-tam e di gong, di tamburoni e di triangoli di ferro che percuotevano con gran lena, facendo rintronare tutta la valle.

«È un corteo reale, — disse Palicur. — Fra poco vedrete il sovrano di Candy.»

«Lo saluteremo, — disse Will. — Non spiace ai potenti indostani l'omaggio d'un uomo bianco. Scendiamo, amici, onde poterlo scorgere più da vicino.»

Mentre si calavano nella valle, il corteo continuava ad avanzarsi in mezzo a un fracasso assordante.

Sfilavano drappelli di superbi cavalieri dalle divise variopinte coi turbanti impennacchiati, poi colossali elefanti con gran drappi rossi e pendenti d'argento agli orecchi, montati dai due adigaf del regno, ossia dai due primi ministri, da dissova o governatori dei distretti e da dissova udda ossia da comandanti di truppe, poi nuovi porta bandiera e suonatori e drappelli di malabari e di africani, incaricati della sorveglianza personale del re.

Il quartiermastro ed i suoi due compagni erano già scesi nella valle, fermandosi sulla cima d'una rupe che dominava la strada percorsa dal corteo, quando comparve l'elefante reale.

Era un animale di dimensioni gigantesche, sfarzosamente adorno, con gualdrappe di velluto cremisi e frange d'oro, placche d'egual metallo alla fronte, grossi turchesi, pendenti e pendagli intorno alla massiccia fronte, e anelli d'argento alle zampe.

Sotto una cupoletta sorretta da quattro colonnine con tende di seta, stava seduto il monarca. Era un bel vecchio sulla sessantina, di colorito un po' abbronzato, con una lunga barba bianca che gli dava un aspetto maestoso, e con indosso il gran costume di gala.

Portava sul capo uno strano berretto a quattro corna con un mazzo di piume sul davanti, una casacca alquanto arlecchinesca avendo le maniche d'una tinta diversa dal resto, i calzoni larghi, di seta bianca, e cingeva una spada di forma antica, copiata probabilmente da quelle che usavano i portoghesi al tempo della conquista delle coste cingalesi.

Vedendo che il quartiermastro si era levato il cappello per salutarlo, il monarca, molto sensibile all'omaggio resogli da un uomo bianco, chinò la testa sorridendo e lo guardò a lungo con una certa curiosità.

I tre amici lasciarono sfilare due drappelli di cavalieri ed una compagnia di negri che scortavano l'elefante reale e si misero dietro al corteo, onde raggiungere insieme ad esso l'altipiano di Annarodgburro.

«Ti recherai subito al monastero?» chiese Will a Palicur mentre stavano per toccare la cima della montagna.

«Sì, signore, — rispose il malabaro. — Andrò ad avvertire il gran tiruvamska che io sono riuscito a ripescare la famosa perla e che sono pronto a restituirla, a condizione che mi venga consegnata la figlia del vecchio Chital. Non sarei capace di dormire se prima non potessi avere qualche notizia su quella fanciulla.»

«Comprendo la tua impazienza, amico. Farai bene però a lasciare la perla in nostra mano. Non si sa mai quello che può succedere.»

«Ammiro la vostra prudenza, signor Will.»

Solo verso sera poterono raggiungere l'altipiano. Tutti i dintorni della rovinata città e del monastero brulicavano già di pellegrini, essendo quella la stagione delle grandi cerimonie religiose.

Vi erano uomini e donne appartenenti a tutte le razze e giunti dai più lontani paesi, contando la religione buddista più seguaci che quella di Brahma, Sivah e Visnù. Senza tenere conto dei cingalesi che erano numerosissimi, vi erano centinaia e centinaia di birmani, di siamesi, di cocincinesi, di giavanesi, di sumatrini, di arracanesi e d'indiani, i quali tutti sfoggiavano i loro pittoreschi e stravaganti costumi. Perfino i cinesi non mancavano, essendovi anche nel Celeste Impero non pochi milioni di buddisti.

Ai tre amici non fu cosa facile trovarsi un ricovero o meglio un canile, sotto una capanna di frasche e di foglie che era zeppa di pellegrini. Mediante stuoie si formarono un piccolo scomparto che rinforzarono alla meglio con dei bastoni e con dei sassi, onde evitare il pericolo di venire derubati durante il sonno, non mancando anche in quel luogo santo i ladri.

Cenarono alla meglio, con un po' di riso condito con pesce, poi Palicur si alzò, dicendo:

«Ho appena il tempo di recarmi al monastero. Dopo il tramonto il santuario si chiude e non si riapre prima dell'alba.»

Consegnò a Will la famosa perla, che era sempre rinchiusa nella borsetta a maglie d'acciaio, si nascose, per precauzione, il suo coltello sotto la larga fascia che gli cingeva i fianchi, e uscì promettendo di tornare molto presto.

Intorno all'albero sacro, che si rizzava nel centro di quel piccolo altipiano, stendendo i suoi immensi e frondosi rami su uno spazio notevole, vi erano ancora alcuni gruppi di pellegrini, ma la maggior parte degli altri si era ritirata nelle capanne, nelle baracche o fra le rovine dell'antica città, per prepararsi la cena e riposarsi delle lunghissime marce compiute.

Il malabaro, che, come dicemmo, era stato già altre volte in quel luogo, attraversò la piazza e andò a fermarsi dinanzi al monastero, sulla cui soglia stavano pregando alcuni sacerdoti coperti di ampie casacche gialle, colla testa tosata, le braccia ed i piedi nudi, che si tenevano inginocchiati su un pezzo di panno bianco, con accanto l'inseparabile ventaglio formato di foglie di palma, che serve loro come ombrello quando viaggiano.

Quell'edifizio, quantunque occupasse uno spazio considerevole, alloggiando parecchie centinaia di tiruvamska, non aveva nulla di straordinario, sia per architettura che per lusso. Era piuttosto basso, col tetto piatto come i templi buddisti cinesi, con colonne di legno dipinto in rosso all'intorno e senza alcuna doratura. L'unica cosa che poteva attrarre gli sguardi era una statua enorme, rappresentante Buddha coricato su una specie di letto, che si sosteneva la testa colla mano sinistra.

I sacerdoti avevano la capigliatura simile a quella dei negri ed il viso dipinto tutto in rosso, improntato a un'espressione di grande dolcezza e serenità. Vedendo avanzarsi il malabaro con passo quasi precipitoso, uno dei sacerdoti si alzò, squadrandolo con uno sguardo corrucciato.

«Chi sei tu che vieni a disturbare le preghiere dei tiruvamska?» gli chiese con tono di rimprovero.

«Un uomo che farà felice il gran sacerdote di Annarodgburro, — rispose risolutamente il pescatore di perle. — Devo parlargli all'istante.»

«Sei qualche messo del re?»

«Sono un indiano prima di tutto e quindi non sono un suddito, né un servo del monarca di Candy.»

«Allora tornerai domani.»

«Ciò che debbo comunicare al gran sacerdote è troppo urgente perché io possa aspettare tanto.» rispose Palicur con fermezza.

«Non importa: torna domani.»

«Allora va' a dire al gran sacerdote che un pescatore di Manaar ha ritrovato in fondo al mare la famosa perla che fu rubata da questo monastero, ed è venuto a portargliela.»

Udendo quelle parole, tutti i monaci balzarono in piedi, guardando con stupore il malabaro.

«Tu hai trovato la perla!» esclamarono tutti ad una voce.

«Sì, io,» rispose Palicur.

Vi fu fra i monaci un breve silenzio. Tutti guardavano il malabaro, come per chiedersi se quell'uomo era pazzo o voleva scherzare, ma vedendolo così calmo e sicuro di sé, si persuasero che qualche cosa di vero ci doveva essere nelle sue parole.

«Seguimi subito, — disse finalmente colui che per primo lo aveva interrogato. — Bada però che se ti sei burlato di noi, ti consegneremo ai giudici del re.»

«Io non sono venuto per ingannarvi: vi ripeto che la perla è in mia mano.»

«Vieni.»

Varcarono la porta e si trovarono in un vasto corridoio illuminato da piccole lampade, le cui pareti lucentissime erano coperte d'iscrizioni in lingua sanscrita.

Il monaco gli fece salire una gradinata e lo introdusse in una vasta sala in mezzo alla quale giganteggiava un'altra statua del dio, pure coricato.

Dinanzi, su un magnifico tappeto, stava inginocchiato un vecchio sacerdote, che portava intorno al capo un nastro dorato e che si faceva lentamente vento con un talapava, ossia un ventaglio somigliante a quello che portano i sacerdoti buddisti del Pegù.

«Che cosa vuoi? — chiese il vecchio, interrompendo le sue preghiere. — Conduci qualche messo del re?»

«No, gran sacerdote, — rispose il monaco. — Ti presento un uomo il quale afferma di aver trovato la grossa perla che ornava la fronte del nostro dio e che, come tu sai, fu rubata da quel sacrilego straniero.»

Il vecchio, nonostante la sua età molto avanzata, fece un soprassalto.

«Non è possibile! — esclamò. — Non deve essere quella.»

«Tu, gran sacerdote, verificherai il peso e vedrai che sarà esatto. Solo la tinta è cambiata, essendo divenuta, da rosea che era, perfettamente rossa, e dandole così un pregio maggiore, — rispose Palicur. — Ora è una vera perla sanguinosa.»

«Come può aver cambiato colore?»

«Perché si è imbevuta del sangue dell'uomo che la rubò. Tu sai meglio di me, gran sacerdote, che fu chiusa entro una ferita aperta appositamente per meglio trafugarla.»

«È vero! Dove l'hai, quella perla?»

«Si trova nelle mani di due miei amici, dei quali uno è un uomo bianco.»

«Se approfittassero della tua assenza per fuggire?» chiese il gran sacerdote, con accento di timore.

«Sono troppo fedeli per derubarmi.»

«Dove l'hai trovata?»

«All'estremità del banco di Manaar. Io potei sapere il punto dove il ladro si era annegato, da un vecchio pescatore di perle che era stato incaricato d'inseguirlo.»

«E che cosa chiederai tu per ricompensa?»

«La liberazione della figlia del vecchio Chital che si trova fra le baiadere di questo monastero e null'altro, — rispose il malabaro. — Essa è stata rapita durante una festa religiosa.»

«Lo so.»

«Se tu, sacerdote, acconsenti, la perla ornerà nuovamente la fronte di Buddha. Se rifiuti, i miei amici la infrangeranno, così nessuno più mai l'avrà.»

«No! — gridò il vecchio. — La figlia di Chital sarà tua ed il re, che è generoso, non ti rifiuterà una larga ricompensa. Giurami che domani tu porterai qui la perla.»

«Lo giuro su Brahma, Sivah e Visnù, il trimurti indiano a cui io credo.»

«Pregherò il re di essere presente alla consegna, onde possa ricompensarti come meriti.»

«Ed io non mancherò. La figlia di Chital è sempre qui?» chiese Palicur con voce profondamente commossa.

«Sempre.»

«Posso vederla, un istante solo?»

«Quando avrai mostrato la perla. Noi rammentiamo un tentativo fatto per rapirla e dobbiamo prendere le nostre precauzioni.»

Il malabaro mandò un lungo sospiro, tuttavia, premendogli di non tradirsi, non insistette nella domanda.

«A domani,» disse.

«A mezzodì,» rispose il gran sacerdote, congedandolo con un gesto. Il monaco, che l'aveva introdotto nel monastero, lo riaccompagnò fino alla porta, sulla cui soglia vegliavano in quel momento alcuni soldati dei re.

Il malabaro, un po' triste per non aver potuto vedere la fanciulla amata, si allontanò subito in preda a profondi pensieri.

Il piccolo altipiano era in quel momento deserto, essendo il sole tramontato già da qualche ora. Anche sotto l'albero sacro non vi erano più i pellegrini che aveva scorto nel momento in cui attraversava la piazza. Per di più la notte era oscurissima, essendo le stelle coperte da larghe strisce di vapori piuttosto densi.

Aveva appena percorso tre o quattrocento passi, quando gli parve di udire dietro di sé un passo leggero, ma che tuttavia non sfuggì al suo orecchio finissimo, abituato a percepire i più lievi rumori.

Si arrestò girando intorno uno sguardo sospettoso, poi, non avendo scorto nulla che potesse allarmarlo, prese un viale fiancheggiato da alte palme che doveva condurlo nei pressi della città rovinata, dove s'ergeva la catapecchia abitata da Will e dal macchinista. Cominciava già a distinguerla, nonostante l'oscurità, quando si sentì afferrare improvvisamente alle spalle da due mani vigorose e atterrare di colpo.

«La perla o t'uccido!» gli sibilò agli orecchi una voce minacciosa. Palicur, come si sa, oltre ad essere dotato d'una forza straordinaria, anzi veramente erculea, era anche agile quanto una pantera. Sentendo l'avversario premergli il dorso e puntargli fra le spalle la punta di qualche coltello o d'un pugnale, con una mossa fulminea si riversò, abbrancando così fortemente l'avversario da strappargli un grido di dolore. Nel medesimo istante gli afferrava la mano destra come dentro una morsa, arrestando l'arma che doveva inchiodarlo al suolo.

Una bestemmia, che parve un ruggito, gli sfuggì.

«Il Guercio! Ah! Brutto sciacallo!»

«Sì, il Guercio che ti prenderà la perla e che ti ricondurrà a Port-Cornwallis!» disse il cingalese, digrignando i denti e tentando di liberarsi il polso da quella stretta poderosa.

«Ora mi pagherai tutti i tradimenti, miserabile!»

Palicur sapeva di essere più robusto del cingalese. Quantunque la sorpresa di trovarsi improvvisamente dinanzi a quell'odiato nemico, che credeva ancora nella Città delle perle, fosse stata forte, comprendendo che se fosse stato vinto non avrebbe avuto quartiere, morse ferocemente un orecchio del cingalese, poi, approfittando di quell'acuto dolore, l'afferrò con maggior rabbia, facendogli crocchiare le costole.

I due terribili nemici impegnarono allora una lotta spaventosa. Si rotolavano al suolo tentando di strangolarsi, avendo l'uno perduto il coltello e non potendo l'altro cavare il suo che teneva nascosto sotto la fascia.

Si mordevano, tentavano di porsi l'uno sotto l'altro, si percuotevano con pugni poderosi, ruggivano come due belve feroci, come due tigri lottanti fra di loro per disputarsi una preda. Palicur, a cui il furore raddoppiava le forze, cacciava le sue unghie nei fianchi dell'avversario e quando gli si presentava il destro lo tempestava sul viso, schiacciandogli il naso e gli occhi.

A un tratto il Guercio mandò un urlo di trionfo. Nel dibattersi era riuscito a ritrovare il coltello che gli era sfuggito di mano.

«Sei morto!» urlò.

La lama si piantò profondamente nel petto sotto la spalla destra del malabaro, un po' sopra il cuore, facendo scaturire un getto di sangue. Fu il primo e anche l'ultimo colpo. Il ferito in quel momento aveva afferrato il cingalese al collo. Le sue dita poderose si sprofondarono come uncini nelle carni, stringendolo alla strozza con forza suprema.

«Grazia... gra...» balbettò il miserabile.

«Muori... infame! — ruggì il malabaro, raccogliendo le sue ultime forze. — Muori!»

Il Guercio rantolava sotto quella stretta irresistibile. Gli occhi gli uscivano dalle orbite, mentre la lingua gli si allungava fuori dalla bocca.

Ebbe un ultimo spasimo, i suoi lineamenti si contrassero orribilmente, mandò un ultimo rantolo o meglio un urlo strozzato, poi s'abbandonò.

Palicur con una scossa lo gettò da parte, si alzò a gran fatica comprimendosi con ambo le mani la ferita, onde arrestare il sangue che gli sfuggiva rapido bagnandogli la casacca, e si diresse, barcollando penosamente, verso la casupola abitata dai suoi amici.

Per sua buona ventura Jody, inquieto per la sua prolungata assenza e temendo che gli fosse accaduto qualche disgrazia, era uscito, anche per consiglio del quartiermastro, portando con sé una carabina.

Vedendo avanzarsi quella forma umana che minacciava ad ogni istante di cadere, spianò l'arma gridando:

«Chi vive?»

«Io... Palicur...» rispose il malabaro. Il mulatto in pochi salti lo raggiunse.

«Palicur! che cos'hai?» gli chiese, ricevendolo fra le sue braccia, nel momento in cui il malabaro incespicava in una radice.

«Taci... non gridare... m'hanno ferito... il signor Will?»

«Chi?»

«Alla... capanna... non sarà nulla... perdo molto sangue.»

«Appoggiati al mio braccio.»

Il quartiermastro, che aveva udito il grido del mulatto, era già sulla soglia del bugigattolo, tenendo in mano una lampada.

«L'hanno ferito, signor Will! — disse Jody con voce commossa. — È tutto insanguinato.»

«Morte e dannazione! — esclamò il marinaio, impallidendo. — Avevo il presentimento d'una disgrazia!»

Aiutarono il pescatore di perle a entrare e lo coricarono su un fitto strato di foglie che serviva loro da letto.

«Non facciamo rumore, onde gli altri non s'accorgano di quello che è accaduto, — disse il quartiermastro. — Lascia che esamini prima la ferita; se potrai ci dirai chi ti ha ridotto in questo stato. Per ora ti proibisco di aprire la bocca.»

Aprì la casacca dell'indiano, squarciò con un rapido colpo di coltello la camicia che era inzuppata di sangue e mise allo scoperto la ferita.

«Ecco una magnifica pugnalata, — disse. — Un centimetro e forse meno più in basso e ti spaccava il cuore, mio povero amico. La ferita è più dolorosa che pericolosa; io me ne intendo di queste cose, essendo stato anche infermiere a bordo della Britannia

«Jody, va' a prendermi dell'acqua e dammi dei fazzoletti. Ve ne sono alcuni puliti nella mia bisaccia.»

Mentre il macchinista portava una brocca piena d'acqua e le pezze di tela, il quartiermastro riunì abilmente i due margini della ferita, lavò accuratamente il sangue, poi fece una fasciatura senza che il malabaro, il quale conservava un sangue freddo meraviglioso, mandasse un solo gemito.

«Puoi parlare?» chiese il quartiermastro, quand'ebbe finito.

«Finché vorrete, signor Will, — rispose il malabaro. — Noi, pescatori di perle, abbiamo la pelle dura. Non soffro gran che, quantunque la lama sia entrata assai nella spalla.»

«Chi ti ha assalito dunque?»

«Il Guercio.»

«Lui!» esclamarono ad una voce Jody ed il marinaio.

«Sì, ero appena uscito dal monastero, quando mi piombò alle spalle e mi atterrò intimandomi di consegnargli la perla sanguinosa.»

«È fuggito?»

«Io credo di averlo strangolato.»

«Credi? Noi vogliamo accertarcene. Dov'è caduto?»

«A quaranta passi da qui.»

«Jody, prendi una delle mie pistole e va' a finire quel miserabile, se respira ancora, — disse il quartiermastro. — Quel rettile deve sparire per sempre dalla superficie della terra.»

«Gli farò scoppiare il cranio, — rispose il mulatto, uscendo rapidamente. — Quel furfante ci ha dato troppi fastidi.»

«Come ti hanno ricevuto al monastero?» chiese Will al ferito.

«Domani a mezzodì aspettano la perla. Il gran sacerdote ha acconsentito a restituirmi la fanciulla e mi ha promesso, per di più, un regalo da parte del re. Signor Will, mi sento finalmente felice e forse è per questo che non provo alcun dolore.»

«Ma tu non potrai recarti colà, ferito come sei.»

«Ci andrò, signor Will, — disse il malabaro con suprema energia. — Voi mi sorreggerete.»

In quel momento udirono al di fuori uno sparo e poco dopo videro entrare Jody colla pistola ancora fumante in mano.

«Forse era morto, — disse il mulatto con un feroce sorriso, — nondimeno io, per maggior precauzione, gli ho cacciato una palla nel cranio. Se non è un demonio, quello sciacallo non ci importunerà più.»