La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte seconda/5. Nei paraggi dello Spitzbergen

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Capitolo V

Nei paraggi dello Spitzbergen


Il 17 luglio il tempo, che fino allora si era mantenuto bensì quasi sempre coperto, ma relativamente calmo, cominciò a cambiarsi.

Una densa nebbia volteggiava in alto, turbinando, mentre dal settentrione soffiavano, di quando in quando, delle poderose folate di vento, delle vere raffiche freddissime.

Larghe ondate, con le creste irte di candida spuma, rotolavano fragorosamente, rompendosi impetuosamente contro la nave. Venivano dalla parte dello Spitzbergen, le une dietro alle altre, accennando ad aumentare. Alcuni ghiacciuoli danzavano disordinatamente ora sulle creste ed ora negli avvallamenti.

La Stella Polare, scossa vigorosamente, trabalzava, poi ricadeva pesantemente sollevando larghi sprazzi d’acqua. Le sue vele sbattevano fortemente scrollando i pennoni, mentre per la coperta rotolavano le corcome di canapa.

Le cabine erano in soqquadro. Le sedie cadevano, i quadri si spostavano, i mobili oscillavano percuotendo le pareti, e le casse e cassette danzavano disordinatamente.

Fra i muggiti delle onde si udivano, ad intervalli, i lamentosi guaiti dei cani. Le povere bestie, non abituate a quegli scrollii incessanti, si lagnavano e se la prendevano gli uni cogli altri, mordendosi a sangue.

Le guide, non ancora abituate alle onde, quantunque avessero già compiuta due anni prima la traversata dell’Atlantico, non avevano osato restare molto sul ponte; chi più chi meno cominciavano a soffrire i primi sintomi del mal di mare, accompagnati da certi sforzi che allagavano, a poco a poco, le cabine.

S. A. R. il duca, Cagni ed il capitano Evensen, si tenevano invece sul cassero non ostante i frequenti trabalzi che subiva la Stella Polare.

Coi cannocchiali scrutavano il fosco orizzonte, presentendo già la vicinanza di ghiacci ben maggiori dei palks e degli streams che rotolavano le onde. [p. 188 modifica]

Sul cielo, assai cupo, si distingueva ad intervalli una luce bianchissima, quel chiarore che proiettano i banchi di ghiaccio.

– È l’ice-blink, – disse Andresen al velaio, che lo interrogava.

– E indica la presenza di grossi ghiacci, – aggiunse il tenente Querini, che già cominciava a comprendere il norvegese.

– Così presto? – chiese il velaio.

– Potete dire così tardi, – rispose il giovane nostromo. – Gli anni scorsi, in quest’epoca, non si poteva sempre avanzare. La Stella Polare ha avuto una bella fortuna finora.

– Saranno banchi molto vasti?...

– Piccoli no di certo, mio caro. Domani la Stella Polare proverà la resistenza del suo scafo.

– Credete che siano tali da arrestare la nostra corsa? – chiese il tenente Querini.

– Non mi sorprenderei, signore. Tuttavia troveremo qualche passaggio, sia più all’est o più all’ovest.

– Eppure ci troviamo ancora lontani dalla Terra di Francesco Giuseppe.

– Quattro o cinque giorni di navigazione, se questa tempesta non ci caccia fuori dalla rotta.

– Conoscete il Capo Flora?

– Sì, signor tenente.

– Nansen ne ha dato una descrizione stupenda. È realmente pittoresco?

– Splendido, signore.

– Credete che troveremo ancora le capanne degli inglesi e quelle di Jakson?

– Le nevi non devono averle danneggiate. Non sono situate su banchi di ghiaccio, bensì a terra.

– E vi troveremo ancora dei viveri? – chiese il velaio.

– Ed anche armi, istrumenti scientifici, libri, carte da giuoco, ed altro. Gl’inglesi che le hanno fatte costruire, perchè servissero di rifugio ai naufraghi od agli esploratori polari, non hanno lesinato. D’altronde erano ricchi signori. Orsù, il mare non pensa di volersi calmare. La nottata non sarà troppo buona.

– Nottata di luce, – disse il tenente, sorridendo. [p. 189 modifica]

– Sì signori, – rispose il nostromo. – Si ha sempre l’abitudine di chiamarla notte, mentre ha poco da invidiare al giorno. –

Come aveva ben detto il giovane nostromo, il mare, lungi dal calmarsi, tendeva a diventare sempre più cattivo.

Delle raffiche freddissime, capitavano addosso alla Stella Polare, a brevi intervalli, fischiando fra i mille cordami dell’attrezzatura e urlando stranamente fra i pennoni e l’alberatura.

Vi erano dei momenti di calma, ma poi le folate si succedevano con maggior frequenza e con maggior forza, facendo crepitare perfino i robusti alberi di vero pino norvegese.

Le onde diventavano stranamente selvagge e avevano dei riflessi sinistri. Sferzate dalle raffiche rimbalzavano disordinatamente, si accavallavano con rabbia estrema, polverizzando le loro creste e urtavano poderosamente i fianchi della Stella Polare facendo gemere i corbetti ed i puntali della coperta.

Talvolta un nembo di spuma si slanciava fino sulle murate e si rovesciava sulla tolda, sfuggendo poi a fatica dagli ombrinali.

I ghiacci aumentavano sempre, però non erano ancora tali da costituire qualsiasi pericolo. Si urtavano fra di loro con cozzi violentissimi, mandando in aria schegge in gran numero; oscillavano sulle creste spumeggianti, scintillando ora come diamanti ed ora come smeraldi, poi strapiombavano negli avvallamenti.

Di quando in quando qualche palk o qualche stream veniva ad infrangersi contro i fianchi della nave e la stiva risuonava con cupo rimbombo.

La Stella Polare però aveva provato ben altre tempeste che quella! Vecchia navigatrice dei mari Artici, pareva che se ne ridesse della rabbia delle onde.

Quantunque molto immersa per l’eccessivo carico, montava intrepidamente i marosi; scuotendosi di dosso la spuma che avvolgeva i suoi bordi, e scendeva senza tema negli avvallamenti, fendendo le acque ed i ghiacci col robusto sperone.

Sul tardi le raffiche cominciarono a diventare meno frequenti e meno impetuose ed il cielo a rompersi.

Fra gli strappi delle nuvole appariva ad intervalli il sole di mezzanotte, tingendo i vapori d’oro e di rame. [p. 190 modifica]

I ghiacci, travolti dalle onde, per alcuni istanti scintillavano come masse infuocate di metallo o come una fiamma solida, poi le nubi si rinserrarono e un nebbione cominciò a distendersi sul mare, avanzando lentamente da ponente.

– Soffia nebbia dallo Spitzbergen, – disse il primo macchinista al tenente Querini.

– Infatti siamo all’altezza di quella terra o meglio della punta meridionale, – rispose il tenente.

– Conoscete quell’arcipelago?

– Sì, signore. Vi sono stato a cacciare la foca e anche la morsa.

– Abbondano su quelle coste?

– Se ne trovano ancora non poche, malgrado le stragi immense fatte dai nostri nonni.

– È vero che ora quelle isole, ritenute quasi inaccessibili, sono molto frequentate?

– Le isole dello Spitzbergen sono diventate un paese da touristes, signor tenente. Una compagnia norvegese ha costituita una linea di navigazione e si è anche costruito un albergo pei visitatori. Ne volete saper di più? Vi è perfino un ufficio postale e si sono stampati dei francobolli spitzbergensi.

– Oh!... strana!...

– Il comandante della nave che è incaricato di condurre a quelle isole i touristes era prima il signor Otto Sverdrup, il comandante del Fram di Nansen.

– Il servizio viene fatto solamente in estate?

– In giugno, nel luglio l’albergo si chiude, l’ufficiale postale si imbarca, la nave interrompe i suoi viaggi e allo Spitzbergen non rimangono che gli orsi bianchi, le foche e le morse.

– Sicchè quelle isole sono assolutamente inabitabili.

– D’inverno di certo, signore. Il freddo vi è eccessivo, scendendo il termometro fino a -50° e talvolta anche di più.

– Eppure si direbbe che un tempo quella terra aveva un clima tropicale? – disse il capitano Evensen, prendendo parte alla conversazione. – Quelle isole, ora coperte eternamente di nevi, con ghiacciai immensi, alcuni dei quali misurano perfino tremila metri di larghezza, come quello chiamato dell’Est, un tempo, [p. 191 modifica]probabilmente molto remoto, erano coperte di foreste che nulla avevano da invidiare a quelle africane.

– È vero, – disse il tenente Querini. – Da osservazioni recenti fatte dal signor Carlo Ribol alle isole dello Spitzbergen risulterebbe che nelle epoche cretacee, giurassiche e terziarie, quelle terre erano coperte da una flora tropicale, poi subtropicale.

Quello studioso ha potuto trovare molte piante fossili, avanzi di tigli, di platani, di cipressi e le impronte lasciate fra le rocce, di foglie e perfino di frutta.

– Anche nella Groenlandia si sono trovate le tracce di foreste di palme, – disse il capitano Evensen.

– Come sulle coste siberiane, nelle Tundras si sono trovati avanzi di mammouth, animali che non potevano vivere che nei climi caldissimi come i loro cugini gli elefanti.

– Quale strano cambiamento! – esclamò il macchinista, il quale ascoltava attentamente quella interessante descrizione. – Prima le palme tropicali ed ora i ghiacci eterni!... In seguito a quale spaventevole cataclisma è avvenuto questo cambiamento di temperatura?

– Niente cataclismi, – disse il tenente Querini. – Si deve esclusivamente al raffreddamento della terra, lento sì ma costante e che continuerà senza posa.

– Voi dunque credete signore, che un tempo questi mari siano stati navigabili?

– Certo.

– E da quando si sono coperti di ghiacci?

– È impossibile stabilirne l’epoca, però non si esclude che mille anni or sono fossero più navigabili del giorno d’oggi.

– È vero, – disse il capitano Evensen. – Quando i primi iscoto-danesi si spinsero alla conquista delle terre artiche, fra il 900 e il 1000, l’Oceano Artico non doveva essere ancora coperto di ghiacci così enormi come lo è oggidì. In quelle lontane epoche la Groenlandia non era ancora un deserto di ghiaccio, diversamente Erik il Rosso, non l’avrebbe chiamata Terra Verde. E poi come avrebbero potuto vivere dei buoi nella Groenlandia? Provate a portarne uno oggidì e siete certo che non camperebbe, mentre all’epoca.... [p. 192 modifica]

– Vivevano dei buoi nella Groenlandia, in quell’epoca? – chiese Andresen.

– Sì, portati nel 985 da una spedizione composta di trentacinque navi, comandata da un compagno di Erik. Allora certi tratti della Groenlandia erano ancora coltivabili e furono perciò portate molte sementi e attrezzi rurali.

– E anche le spiagge del Labrador e della Nuova Scozia erano meno fredde, – disse il tenente Querini. – Per nulla furono chiamate Vinland, ossia terre del buon vino. Se le viti potevano germogliare, il freddo non doveva essere molto intenso, ammesso però che quelle terre fossero veramente il Labrador e la Nuova Scozia.

– Comunque sia, si sa di positivo che in quelle lontane epoche la Groenlandia e le coste nord-americane avevano colonie fiorenti, mentre oggidì non vi sono su quei medesimi luoghi che povere tribù di esquimesi in continua lotta con la fame, – disse il capitano. – Ciò vuol dire che il clima allora era più clemente e che i grandi banchi di ghiaccio non avevano ancora cominciata la loro formidabile discesa.

– E che cosa è avvenuto di quelle colonie? – chiese Andresen.

– Sono misteriosamente scomparse, – rispose il capitano. – Probabilmente l’avanzarsi dei ghiacci deve aver molto influito sulla distruzione di quelle colonie. Dispersi, quei coloni si saranno fusi cogl’indigeni se invece non sono stati distrutti dagli stessi abitanti dell’America o da qualche spaventevole epidemia.

– È probabile, – concluse il tenente.