La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/XII. Il colera

Da Wikisource.
La giovinezza - XII. Il colera

../XI. Solo ../XIII. Zio Carlo e zio Peppe IncludiIntestazione 13 ottobre 2021 75% Da definire

La giovinezza - XI. Solo La giovinezza - XIII. Zio Carlo e zio Peppe
[p. 58 modifica]

XII

IL COLERA

E ci voleva pure il colera! Questo ignoto e sinistro morbo, dopo di avere spaventato mezza Europa, piombò sopra Napoli come un flagello. Le immaginazioni furono colpite; la paura rendeva irresistibile l’epidemia. Si raccontavano molti casi di colera fulminante, con le circostanze più strazianti. Si parlava di famiglie intere spente, di migliaia di morti al giorno, e coi più minuti particolari si descrivevano i casi di contagio. Non c’erano allora giornali; il governo col suo mutismo accresceva il terrore e provocava le esagerazioni. Quel tintinnio di campanelli che accompagnava le comunioni pareva la campana dei morti; i più agiati fuggivano alle loro ville; la plebe squallida e sudicia faceva spavento; nessuno osava accostarsi; l’uno fuggiva l’altro. La vita pubblica fu sospesa; le scuole, le botteghe erano deserte.

Il morbo, che dopo alcuni mesi pareva ammansito, riprese con più furore l’estate dell’anno appresso. È rimasta ancora nella memoria la giornata di San Pietro e Paolo, per il gran numero dei morti Avvenivano scene che richiamavano alla [p. 59 modifica]memoria gli untori di Milano. Gli opuscoli dei medici confondevano ancora più le menti. Chi affermava l’epidemia e chi il contagio. Molti i rimedi, e perciò si prestava poca fede ai medici e alle loro cure. C’erano i creduli, che narravano cure miracolose; ma il morbo procedeva con tanta violenza che lasciava poco adito alla ciarlataneria. Non mancavano le processioni, le esposizioni di Santi e di Madonne, le invocazioni e le preghiere e le penitenze; ma la paura del contagio raffreddava lo zelo religioso. Nell’ultimo tempo, per non fiaccare più gli animi, s’era tolta dagli occhi ogni parte spettacolosa, i campanelli, le fraterie, i preti, i fratelli delle congregazioni, ogni sorta di accompagnamento, il che scemava poco la paura e accresceva lo squallore. Erano sepolture notturne, le quali, esagerate di bocca in bocca, riempivano nel mattino la città di nuovi spaventi.

Anche a me giungeva un vocio del colera; in casa e fuori casa non si parlava che di questo. Ma l’impressione su di me era piccola. Uso alla vita interiore, il mondo mi passava innanzi come una fantasmagoria; non avrei saputo ridire cosa mangiavo, come vestivo e come vestivano gli altri. Anche oggi dei miei piú cari amici ricordo le fisonomie, non il vestito. Quelle varie voci del morbo si arrestavano come un ronzio importuno nel mio orecchio, non turbavano la mia serenità; anzi, io avevo una certa inclinazione a esagerarle ancora più, a metterci i miei colori e i miei ricami, a provocare lo spavento sulle facce, stentando molto a frenare il riso. Vedevo le cose non quali erano, ma quali volevo che fossero secondo la disposizione della mia mente; quei mali già così gravi erano inadeguati alla mia immaginazione letteraria, e andavo trattando e tormentando i fatterelli che mi erano raccontati, come fossero pagine di romanzo. Presto divenni insopportabile agli amici; il mio coraggio e la mia indifferenza già parevano loro un rimprovero; ma ciò che addirittura li metteva fuori di sé, era quella mia aria motteggiatrice, quel riso che mi appariva sulle labbra, innanzi ai moti improvvisi che certe notizie producevano sulle loro facce contraffatte dalla paura. Sentivo talora che facevo male, e sforzavo il viso a serietà; pur ci riuscivo poco. La mia condotta non veniva [p. 60 modifica] da malignità o durezza di cuore, ma da incosciente, allegra natura, che mi faceva sorvolare sui mali della vita. Tutti se ne accorgevano e però molti non se lo avevano a male, e talora ridevano del mio riso e mi chiamavano poeta.

Intanto la scuola del Puoti s’era sciolta da sé; il Marchese con tutta la famiglia s’era ricoverato in Arienzo, dove aveva alcune possessioni, e s’era messo a dettare un’Arte di scrivere. Gli studenti s’erano riparati nelle case loro, dove non ancora li aveva inseguiti il morbo; anche i fratelli Amante s’erano ritirati nel loro paese. Di questa fuga generale quasi non mi accorsi, tutto pieno del mio compito in casa e fuori casa. Zio era riuscito a levarsi qualche giorno, appoggiato sul bastone; ma questo non accresceva il numero degli scolari, e poco scemava la mia fatica.

Io avevo preso dimestichezza con la casa Fernandez. Il povero Pasqualino, riparato in villa, era stato colpito dal morbo; poi, guarito appena e sparsasi la voce che andare in villa era peggio che stare in città, fece con la famiglia ritorno. La sua casa era nella strada che conduceva al monastero di S. Pasquale, e c’era un bel terrazzo ombroso, dove solevo passare qualche ora, finita la lezione. A me non piaceva quel fare dottorale di maestro; anzi mi ci seccavo e me ne vergognavo quasi, e quando qualcuno mi diceva: «Signor maestro», quella parola mi sonava male, così come essere chiamato un pedagogo o un pedante, e mi sentivo vile al mio cospetto. Questa falsa opinione mi veniva dal signor Marchese, che non si lasciava mai chiamar maestro. In quel tempo gl’insegnanti ambivano il titolo più decoroso di professore, per non lasciarsi confondere coi maestri di musica o di ballo. Quel maestro perciò garbava poco alla mia testa piena di fumi e di fantasie stravaganti, ed ero disposto a seppellire quel nome sotto l’altro di amico, al che mi sforzava anche la mia natura affettuosa. Quando Pasqualino mi diceva: — Signor maestro, — e faceva atto di volermi baciare la mano, mi sentivo nella gerarchia sociale inferiore al mio discepolo, quasi il suo protetto e il suo stipendiato, e rispondevo subito: — Chiamatemi amico.

Egli aveva due sorelle di modi e costumi semplici, che assistevano [p. 61 modifica] alla lezione, e più tardi vi parteciparono. Innanzi a loro sentivo anche più vergogna di fare il maestro, e prendevo il tono della conversazione, e poi, finito, continuavo a star con loro, e spesso uscivamo sul terrazzo, intrattenendoci in discorsi familiari. Talora facevo letture. La mia voce era chiara, intonata, ben variata, secondo il senso e l’affetto, un po’ enfatica. Quella declamazione piaceva loro moltissimo, e io, che vedevo l’effetto, ci aveva messo una certa vanità, e poco mi faceva pregare, e prendeva il libro in mano con un riso di soddisfazione anticipata. A poco a poco il maestro scomparve e rimase l’amico. Non volli danaro da loro, e ci andavo più spesso, e le ore fuggivano in quelle visite desiderate. Fino a quella età non mi era mai occorso di stare in compagnia di donne; quelle due giovanette amabili e ingenue mi attiravano con un sentimento che non sapevo e non volevo definire: insomma mi piaceva di star con loro, e mi si schiariva la faccia, e mi si scioglieva la lingua, io ingenuo al par di loro. Avevo per la donna un culto letterario, e mi sentivo disposto a piegar le ginocchia e adorarla. I miei sentimenti platonici e spirituali, vestiti di poesia, di cui sonava l’eco in Beatrice e in Laura, entusiasmavano quelle vergini nature, entusiasmavano me stesso. La faccia mi si trasformava; gli occhi scintillavano, volti al cielo; la voce tremava di commozione; talora nella declamazione si sentiva un accento di verità. Tuffato in queste distrazioni dello spirito, non mi accorgevo più del colera, se non quando lo vedevo rappresentato sulle facce de’ conoscenti.

Le occupazioni mi erano anche schermo contro il morbo, e non mi lasciavano tempo di pensarci. Da qualche mese avevo una lezione privata anche presso il duca di Cassano. Costui era un grosso omone, di buonissima pasta, e mi soleva ricevere con aria benevola, tanto che avevo preso dimestichezza seco. Facevo lezione a un suo figlio, una testa stordita e distratta che poco mi badava. Quel signorino aveva quasi l’aria di dirmi: — Non mi seccate — . Poco si andava innanzi, ancoraché io mi c’infervorassi. Il Duca, dopo la lezione, soleva intrattenersi un pochino con me, e la prima domanda era: — Come è andato? — [p. 62 modifica]Male, — dicevo io con la mia sincerità; — egli tiene due diavoli addosso, che gl’impediscono ogni serietà di studio: Tesser nobile e Tesser ricco — . Il Duca s’inalberava, e chiamavalo a sé e gli faceva una strillatona. Ma, come era un gran brav’omo, gli si vedeva un certo riso di bonomia tra’ baffi, che rassicurava quel birichino. E s’era sempre da capo, lui con la sua noia e io col mio dispetto.

Intanto lettere mi venivano da babbo, da mamma e da zio, atterriti dalle voci del colera, che giungevano in paese, e mi chiamavano, e me ripugnante sgridavano e incalzavano. Io non voleva, e per una cotal sciocca braveria, e perché non voleva lasciare a mezzo le mie lezioni, parendomi fare quasi atto di disertore. Alfine cedetti alle grida di mia madre, e mi risolsi di andar via. La sera fui dal Duca. Erano già parecchi giorni che infuriava di più il colera, e il Duca, per non sentirne a parlare, s’era fatto taciturno e solitario. Giunsi io con un’aria imbarazzata, che annunziava qualche cosa di grosso. — Cosa c’è? — disse lui. — C’è che... — Insomma, vi sentite male? — interruppe lui, che mi vedeva così smilzo e con la faccia del colera. Io balbettava, cercando le parole, e che doveva per un mese allontanarmi, e che mia madre mi voleva, e che sarebbe stato per poco... Ma egli appena mi udiva, e non capiva niente. — Andate, andate, — diceva, con l’aria di chi mormori tra’ denti: Che il diavolo ti porti! — E come? — diceva il Duca, tirandosi indietro, — siete in questo stato e venite a casa mia? — Io lo pregai a volermi permettere che prendessi commiato dal figlio; egli non disse di no, ed io entrai. Il giovinetto ebbe assai caro di sapere che quella sera non c’era lezione, e quel mesetto di vacanza in prospettiva me lo rese amico: mi strinse la mano, e mi promise di scrivermi, e mi fece molte cerimonie. Mai non mi aveva usato tanti riguardi il bricconcello.

Un’ora più tardi ero già in via a Porta Capuana. Mi avevo comprato una buona bottiglia di rum, come salvaguardia contro il mostro, e un po’ di salame e non so cos’altro. Questo era tutto il mio fardello. Camminavo a piedi velocemente, per non perdere l’ora della diligenza. L’idea di mettermi in una carrozzella non [p. 63 modifica]mi era venuta, e non mi venne che assai più tardi, quando non guardavo più al carlino. Giunto in quei vicoli stretti e puzzolenti, che menano a quella brutta Porta Capuana, cominciò un via vai di carri funebri, con preci sommesse, con grida di monelli, che mi fece capire cos’era il colera. Mi strinsi tutto in me, chiusi la bocca e mi turai il naso, come per salvarmi dell’infezione. L’infezione era un fetore acre, che veniva da cessi, da orinatoi, da spazzature, da cenci, da uomini vivi e da uomini morti. Tirai di lungo, quasi scappando, e giunsi affannoso, che il carrozzone era già in via. — Ferma, ferma, cocchiere! — Fermò, e io mi gettai dentro, che per fortuna c’era ancora un ultimo posto. Mi ci accomodai alla meglio, tra la mormorazioni dei viaggiatori, che mi guardavano come si fa a uno straccione, lo non me ne accorgevo; li salutai e offersi loro del rum, ed essi tirarono la mano indietro, come per dir di no. Non ci fu verso di cavar loro una parola, e io che avevo ripreso il mio buon umore, ed ero divenuto tutto ad un tratto comunicativo, ne presi il mio partito, e mi posi a guardare le stelle, sorbendo di volta in volta un po’ di rum.

Giunsi in Avellino che parevo un fantasma, e tirai da Peppangelo, il celebre locandiere a quel tempo. — Signorino, cosa avete? voi mi sembrate uno spirito. — Vado a letto, — diss’io, — e dammi un buon bicchiere di vino, ché la polvere m’ha asciugato la gola — . La mattina lasciai Avellino senza vedere alcuno, con l’aria di un fuggitivo. Prima la via era buona, e io caracollava con un frustino in mano e in aria di bravo, su di una mula. Mi veniva appresso, correndo, il contadino che m’accompagnava. Era innanzi l’alba, e il freddo acuto mi dava un tremolio, specie per le vie umide di Atripalda. Col levarsi del sole la via si faceva sempre più sassosa e ripida, e la mula spaventata e poltra dava salti, tirava calci, chinava le gambe e il collo, e io mi aggrappavo sulla sella per tenermi saldo. Il contadino andava stuzzicando, la bestia, e la pigliava per la coda e la bastonava di santa ragione, imbestialito anche lui, e le due bestie parevano congiurate a farmi cascare. Spesso il cappello rimaneva imbrogliato tra le spine, e talora davo di fronte in qualche albero. [p. 64 modifica]La strada era così brutta, che in parecchi punti aveva l’aspetto di un vero precipizio, stretta stretta, sdrucciolevole, aperta ai fianchi, di una altezza che mi dava le vertigini, e io gridavo che volevo calare, e il contadino bestia dava dei pugni alla mula. Avevo smesso quell’aria di bravo cavaliere, e mi rodevo tra la stizza e la paura, col capo dimesso, assetato, affamato, disossato. Giunsi alla famosa taverna di Santa Lucia, e il cuore mi si allargò, come vedessi Gerusalemme. Mi aiutarono a scendere, ché ero intirizzito e non mi potevano le gambe. Entrai in un camerone oscuro e sudicio, che mi parve una sala principesca, e mi gettai al desco senza badare al tovagliolo e alla forchetta: avrei mangiato con le dita. Pane nero, formaggio piccante, peperoni gialli e una caraffa di vino asciutto furono per me un pranzo da re.

Mi levai arzillo e mi venne la chiacchiera con quei mulattieri, pastori e contadini, che trincavano, giocavano e bestemmiavano. Presto mi si fecero familiari, e m’invitarono a bere, e cioncai e giocai con loro, e non mi parve scendere dalla mia altezza. La natura non mi aveva dato un’aria signorile e di comando, e con la mia sincerità mi presentavo tal quale, senza apparecchio e senza malizia. — Evviva lo Signorino! — dicevano; e si erano rabboniti tra loro, e io stringeva quelle grosse mani, come per dare un pegno di fratellanza.

A quel tempo era il regno dei galantuomini; i contadini, in in povertà e in servitù, erano trattati come i loro asini; io non ne sapevo nulla, ed ero soddisfatto e quasi sorpreso dei loro evviva. Rialzato d’animo e di forza, mi messi a caracollare per la discesa, e via via giunsi a un torrente, che si menava dietro grosse pietre e faceva gran fracasso. Il contadino, presa la briglia, andava innanzi, tirati su i calzoni; io mi tiravo su le gambe per non bagnarmi, e perdendo l’equilibrio, caddi rovescioni nell’acqua, e il contadino mi afferrò e si disperava, e io gli dicevo: — Dio non peggio — . Era un motto di papà, rimastomi impresso. Non giunsi in paese che a ora tarda, di notte. Entrai in casa, sorridente, con le braccia aperte. Non mi attendevano, e maggiore fu la gioia. Mamma voleva pagare il mulattiere [p. 65 modifica]. — È pagato, — diss’io, e trassi di tasca un borsellino pieno di piastre, e gliele offersi, dicendo: — A voi, mamma, le primizie — . La buona donna rideva tra le lagrime, e tutti avevano gli occhi sbarrati su di me, come fossi un principe.

La mattina, mamma mi fece mille tenerezze. Si staccava il bambino dal petto, e mi avvicinava, ridendo, la mammella, con l’aria di chi dica: — Ti ricordi? — E mi contava tante cose, e io, stando presso al letticciuolo, negl’intimi penetrali della memoria ritrovavo certe notti lunghe, ch’io mi svegliavo con grida e con pianti clamorosi, e lei veniva, e mi toglieva in collo, e diceva, palpandomi: — Non aver paura, mamma è con te — . Io guardavo, guardavo, come volessi mettermela bene in mente. Ah! povera mamma, come le volevo bene! E ora m’intenerisco che l’ho innanzi a me, quella persona alta, asciutta e spigliata, con quella faccia bruna e le folte sopracciglia e gli occhi neri e dolci.

Presto la casa fu piena di gente. Molte strette di mano, molti baciozzi di zie e di comari. Il discorso si oscurò subito, ché il colera, non invitato, entrava nella conversazione. Pretendevano che il morbo fosse apparso già in Avellino e in molti paesi vicini, e c’era chi sosteneva di averlo incontrato sulla via del cimitero, e della peggior natura, un vero colera fulminante; un contadino, appena colpito, morto. — Non lo chiamate troppo, ché viene per davvero, — diss’io. Quelli mi guardavano con sospetto, e volevano sapere da me perchè, così giallo e tisico, mi avevano lasciato passare senza la quarantena; e i soprastanti del paese conchiudevano che bisognava chiudersi e non lasciare più entrare nessuno, e per poco non mi volevano affumicare. Pochi di appresso mi giunse notizia che il duca di Cassano, il giorno dopo ch’ero partito, colto da timor panico, s’era rifuggito sul Vomero, ed era morto subitamente. La notizia accese ancora più le fantasie, e le facce erano oscure, e i discorsi lugubri. Io aveva la testa piena di grilli e non sapeva star solo. Mi vennero a noia paese e paesani, e presi il volo. La mattina seguente volli partire. Mamma, ancorché fosse innanzi l’alba, e il freddo grande, volle accompagnarmi fino al cimitero, e là [p. 66 modifica]c’inginocchiammo e pregammo. Io avevo una gran tosse, e lei mi si attaccò al collo, e mi stringeva forte, e mi diceva con lacrime: — Figlio mio, forse non ti vedrò più — . Ed era presaga! Non dovevamo più rivederci.

Trovai in Napoli il colera un po’ rimesso. Gli studenti tornavano, le scuole si riaprivano; la novità era l’edizione fatta di fresco delle poesie di Giacomo Leopardi. Io ne andavo pazzo, sempre con quel libro in mano. Conoscevo già la canzone sull’Italia. Allora tutto il mio entusiasmo era per Consalvo'' e per Aspasia. Avevo preso lezione di declamazione dal signor Emanuele Bidera, che aveva stampato sopra la sua arte un volume, zeppo di particolarità e minuterie. Io era tra’ suoi scolari più diligenti, e quando c’era visita di personaggi, il primo chiamato ero io. — Fatevi avanti, signor De Sanctis, declamatemi l’Ugolino. — Quello li era il mio Achille. E io, teso e fiero, trinciando l’aria con la mano diritta, cominciavo: «La testa sollevò...». Non mancavano i battimani; ma un uomo di spirito mi disse: — Piangete troppo — . Ricordo il motto, non ricordo la persona. Ed era un motto vero. Io peccavo per eccesso, volendo accentuare tutto e imitare tutto, suoni, immagini, idee. Consalvo mi fece dimenticare Ugolino. Lo andavo declamando anche per via, e parevo un ebbro, come Colombo per le vie di Madrid, quando pensava al nuovo mondo. Lo declamavo in tutte le occasioni e mi c’intenerivo. Sovente lo declamai in casa Fernandez, e mi ricordo che, per un delicato riguardo alle signorine, dove il poeta diceva «bacio», io mettevo «guardo».

Poco poi seppi che il gran poeta era morto. Come, quando, dove non si sapeva. Pareva che un’ombra oscura lo avvolgesse e ce lo rubasse alla vista. Le immaginazioni, percosse da tante morti, poco rimasero impressionate da quella morte misteriosa.