La giunta romana ed il comizio popolare del 22 settembre 1870/Prefazione

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Narrazione

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PREFAZIONE‬‬

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Non sarò certo accusato d’intemperanza, se calmatisi ormai gli animi, ed entrata Roma nello stato comune a tutte le città sorelle del Regno d’Italia, io venga oggi a rettificare alcuni fatti accaduti nei primi giorni del fortunato risorgimento di Roma, i quali o rimarrebbero inesplicabili o sarebbero definitivamente giudicati colla stregua delle solite calunnie dei partiti politici.

Sono mosso a fare questa pubblicazione coll’animo il più pacato, non solo per amore della verità, che nel pervertimento morale di oggi giorno, frutto della corruzione dei governi e delle consorterie, sarebbe stretto dovere per ogni cittadino di far palese tutta intera, checchè ne possa avvenire; ma pei riguardi ch’io debbo ai miei concittadini ed amici politici di Roma, i quali mettendo da un lato, dietro le vivissime mie raccomandazioni, le private loro convinzioni, accondiscesero di buon grado a dar mano alla cosa pubblica. Questi mi furono larghi della loro fiducia, volendo ch’io assumessi il difficile ed ingrato incarico di concretare — d’accordo coi due gruppi politici che si erano costituiti — la formazione di una lista di nomi i quali avrebbero dovuto formare la Giunta — politica o municipale che si voglia chiamare — di Roma. Queste due potentissime ragioni mi hanno fatto vincere la naturale ritrosia d’imprendere questa pubblicazione, nella quale io sono per necessità costretto di dire qualche [p. 6 modifica]cosa sul conto mio; imperocchè lo strale della calunnia si è sopratutto appuntato sulla povera mia persona, volendosi forse colpire in me le gloriose gesta di Roma del 1849.

E che questa ritrosia sia in me naturale, lo prova il fatto incontrovertibile che in così lunghi anni di una vita avventurosa, nella quale la forza delle circostanze mi fece spesso occupare delle alte e responsabili posizioni, io non abbia mai parlato, nè fatto parlare di me, quantunque presso alcuni io sia spesso passato pel più furente demagogo, e presso altri poco meno che per un rinnegato. Io mi acquietava al differente giudizio, trovandone la spiegazione nella mia indipendenza di carattere, e nel destino di tutti coloro i quali lodano la virtù e vituperano il vizio, facendo astrazione se siano i correligionarii o gli avversarii politici, che si rendano degni dell’una o biasimevoli per l’altro.

Non tenendo mai a calcolo ciò che altri potesse credere sul conto mio, io ho sempre limitato, fin dalla prima giovinezza, il modesto scopo della mia vita all’abolizione del governo temporale del Papa ed alla causa dell’unità del nostro Paese, senza la quale — è ormai un fatto che non ha bisogno di prove — l’Italia sarebbe stata sempre mancipio dello straniero.

Ho la coscenza di non essermi mai dipartito di una linea da queste due grandi idee, e di averle sempre seguite:

1° con una scrupolosa onestà di carattere;

2° senza ambizione di sorta;

3° mosso unicamente dal forte sentimento del dovere cui il cittadino deve sentire per la Patria.

In quanto alla onestà di carattere, io ho la rara fortuna di non doverne addurre alcuna prova; e mi basta di fare appello a tutti i miei concittadini, neri, bianchi e rossi; ai miei compagni di sventura nel Castello S. [p. 7 modifica]Angelo, nelle carceri nuove di Roma e nel forte di Civita Castellana; a tutti coloro, infine, che mi hanno conosciuto ne’ miei ventun anni di esilio in Svizzera, in Inghilterra e nelle varie parti d’Italia. Calunniato in politica dai manipolatori del Comitato Nazionale Romano — come dirò in seguito — nessuno però ha messo mai in dubbio la mia onestà.

In quanto all’ambizione, io non ne ho avuto altra, che di essere uomo onesto e di farmi credere tale.

Basteranno due soli fatti: il primo dell’essere rientrato in Roma dopo la campagna del Veneto del 1848-49 collo stesso grado di maggiore, che il prode generale Ferrari volle conferirmi, quando in Ancona mi chiamò ad assumere le funzioni di Capo di Stato Maggiore; quantunque facessi sempre inappuntabilmente il mio dovere e godessi della benevolenza ed affezione del prode generale, che mi chiamò nel suo testamento suo esecutore testamentario: il secondo dell’essere passato dal posto eminente di Triumviro della Repubblica Romana, dal quale mi dimisi volontariamente, a quello più modesto di ministro dei Lavori pubblici e del Commercio, che mi si volle imporre dal secondo Triumvirato; ed aver finito col dover accettare nel breve spazio di pochi mesi, il posto di sostituto al Ministero della Guerra. Se i destini avessero arriso alla Repubblica Romana, andando di questo passo, avrei finito per essere portiere del Triumvirato! La mia abnegazione non era però merce rara in quei tempi.

Che io poi sia stato unicamente mosso dall’idea del dovere lo provano e la condanna alla galera in vita con cui furono coronate le mie cospirazioni giovanili, e il mio lungo esilio in cui vissi unicamente per opera della mia mente e del mio braccio, senza ricevere sussidi di sorta, nemmeno dai Comitati di soccorso, che per opera nostra si costituivano in Svizzera ed in Inghilterra: e lo [p. 8 modifica]provano infine tutte le mie vicissitudini politiche, dalle quali sono uscito senza lucrarne un centesimo, e senza ch’io debba ripetere da quelle l’attuale mia posizione sociale.

Facendo questa pubblicazione a riguardo dei miei concittadini di Roma, io tacerò tutte le altre fasi della mia vita politica, limitandomi ad osservare che non vi è atto il quale non possa essere giustificato dalle circostanze del momento, e per cui io debba arrossirne o pentirmene. Ho amato e venerato come faccio tuttora le due più grandi individualità dell’epoca nostra, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi; ma ho sempre conservato la mia indipendenza di carattere per seguirli ed avere con essi comune il lavoro, quando io lo credeva vantaggioso pel Paese; per ritrarmene, quando io lo reputava dannoso.

Mi ristringerò a parlare unicamente della parte che io ho preso nelle cose di Roma in questi ultimi undici anni, lungo i quali sono stato semplice spettatore di ciò che accadeva nel Regno d’Italia. Di una sola cosa però mi sono sempre preoccupato; tutte le mie agitazioni politiche di questi ultimi tempi hanno avuto uno solo scopo — lo dico con orgoglio — l’onore di Roma, la sua liberazione dal governo temporale del Papa.

Il mio concetto su Roma era oltremodo semplice; e vi è voluta tutta la raffineria della Calunnia, sparsa da gente interessata, per complicarlo, e farlo credere diverso da quello che era. Cercherò di spiegarlo con poche parole.

Non ho mai creduto alla efficacia dei mezzi morali per la liberazione di Roma; ma ho sempre ritenuto che fosse una quistione di forza, sia che questa venisse adoperata dai Romani all’interno, iniziando una insurrezione, sia ch’essa venisse adoperata — come infatti è avvenuto — dal governo italiano.

Ho sempre ritenuto che liberatasi Roma dal Papa [p. 9 modifica]in un modo o nell’altro, essa avrebbe sempre accettato, senza discuterlo, il Governo che trovavasi in Italia.

Ho creduto sempre che i Romani, e pel loro onore e pel loro interesse — sapendo quante difficoltà dell’elemento governativo incontrava la questione di Roma capitale — dovessero potentemente prestare la loro mente ed il loro braccio alla liberazione di Roma.

Conoscendo come la grande maggioranza dei Romani, nel fondo del suo cuore odiava il governo del Papa, ed anelava di unirsi all’Italia, io era fatto certo altresì che in Roma non difettavano i generosi — e i disgraziati fatti del 1867 lo provarono all’evidenza — i quali ove fossero stati ben diretti avrebbero potuto, quando favorevoli circostanze si fossero presentate, iniziare una insurrezione.

Ammetteva che la quistione di Roma fosse oltremodo grave e tale da dover essere trattata col più grande senno del mondo; e che l’iniziare un moto insurrezionale all’interno dovesse assolutamente dipendere dalle condizioni politiche in cui sarebbersi ritrovate l’Italia e l’Europa.

Da ciò ne avveniva per conseguenza necessaria che io non desiderassi a Roma una cospirazione la quale avesse ramificazioni di squadre, Capi-Sezione e Capi-Divisione; ma sibbene un Comitato composto di gente ardita, onesta ed indipendente, il di cui còmpito dovesse essere il raccogliere armi e munizioni, e tenere nota, nel più alto segreto, di coloro che fossero capaci di rispondere alla prima chiamata. Io avrei infine desiderato che questo Comitato si tenesse pure nei buoni rapporti di amicizia col Governo italiano, e fosse molto deferente ad esso; ma nello stesso tempo conservasse dirimpetto a lui la più grande indipendenza.

In Roma disgraziatamente avvenne altrimenti. Dopo la scissura del partito liberale del 1853, un Comitato si era ivi stabilito di persone che dalle file rivoluzionarie erano passate nella parte moderata, ed assunse [p. 10 modifica]il nome di Comitato Nazionale Romano. Per quello ch’io mi sappia, dal 1853 fino al 1859 non si possono rimproverare alle persone le quali si succedettero in questo Comitato se non degli errori di mente. Le cose però dal 1860 in poi peggiorarono a tal punto da trasformare questo Comitato in una Sezione di Polizia del Regno d’Italia; e perchè non mancasse il correspettivo, non si ebbe il rossore di accettare un ragguardevole sussidio mensile, che ha durato finchè l’onestà del Ministro Lanza non lo fece togliere di mezzo. I lavori poi di questo Comitato non servivano ad altro che a dare un continuo contingente alle carceri Pontificie ed alla Emigrazione. Spesa per armi e munizione, nessuna.

Non è dunque a farsi meraviglia, se colle mie idee io mi trovassi subito in disaccordo cogli aderenti di questo Comitato, venuti anch’essi in emigrazione. Deciso a tentare ogni mezzo affinchè coloro, ch’io credeva in buona fede, volessero mettersi sulla buona via, io mi tenni sempre con essi in amichevoli rapporti; e nel 1862 credetti alla riuscita dei miei sforzi, quando in una riunione di emigrati romani tenutasi in Livorno, io venni incaricato alla unanimità di estendere un memorandum al Comitato Romano per le desiderate riforme. Lo spirito di consorteria — sopratutto per opera di quelli che vivevano allora nell’interno — rese il mio memorandum lettera morta.

Non mi scoraggiai però; e senza darmene per inteso continuai il mio assunto coi nuovi emigrati di questo Comitato, cui a me ripugnava il credere facessero solo questione d’interessi materiali e di consorteria. Cinque anni però di sotterfugi pur troppo me ne convinsero.

Verso la fine del 1866, venuto a cognizione per opera di amici, i quali si erano condotti a vivere in Roma, che questo Comitato era ivi diventato un mito, una fantasmagoria, detti opera a formare in Firenze un [p. 11 modifica]nucleo di emigrati romani, la vita purissima dei quali, e la loro indipendenza di carattere da un partito politico piuttosto che dall’altro, erano garanzia della loro onestà di propositi. Fui da questo nucleo spedito in Napoli, ove radunai gli emigrati romani che vi aveano stanza, i più noti ed i più influenti, senza escluderne alcuni ch’erano notissimi per la loro stretta aderenza col vecchio Comitato Nazionale, e notissimi per le loro opinioni ultra-moderate. Io ed i miei amici non avevamo mai deviato dal fermo proposito di non far quistione nelle cose di Roma di gradazione di partito politico.

La riunione di Napoli convenne all’unanimità nelle idee del nucleo di Firenze; ed io fui incaricato di stabilire nelle varie città d’Italia nuclei di emigrazione romana che convenissero nelle stesse idee; mentre una Commissione, scelta fra i membri della riunione, doveva curare, d’accordo col nucleo di Firenze, la costituzione di un nuovo Comitato in Roma.

Si rinnovò allora più fieramente il sistema di calunnie, ch’è stata l’arma potentissima dei fautori del Comitato Nazionale di Roma; e dipingendomi essi come un forsennato repubblicano, il quale non avesse altro in mira che di ristabilire in Roma la Repubblica romana — e qui si usavano le menzogne più grossolane del mondo — riuscì al personificatore di questo Comitato di ridurre a lettera morta le risoluzioni adottate dalla riunione di Napoli.

Rotto così ogni rapporto cogli aderenti del vecchio Comitato, si dette mano nel marzo del 1867 alla costituzione di un Centro d’insurrezione in Roma, in cui furono assorbiti alcuni uomini di buona fede, che erano stati fino allora aderenti del vecchio Comitato, e questo centro fu garantito da un centro palese costituitosi in Firenze, che agì sempre alla piena luce del sole, pubblicando per le stampe tutti i suoi atti. Unico scopo di [p. 12 modifica]questi due centri era l’insurrezione nel circuito delle mura di Roma, quando i necessari preparativi fossero fatti, e fossero sòrte circostanze favorevoli: quistione di gradazione di partito politico, nessuna.

Il concetto — per ciò che riguardava il Regno d’Italia — era altamente governativo; imperocchè non si creavano imbarazzi di sorta al Governo italiano, e si tentava la soluzione della quistione romana senza suo rischio alcuno; mentre per forza di circostanze esso ne avrebbe avuto tutto il profitto. Avevamo poi il grande vantaggio di rimanere in Italia nei limiti della legalità; e lo prova pienamente il fatto, che nè il ministro Ricasoli prima, nè il ministro Rattazzi dopo — quantunque ci avversassero con tutto il loro potere — ardirono dirci cosa alcuna.

Contro l’opera però di questi due centri si scatenarono tutte le passioni e tutti i privati interessi, e non piccola parte vi ebbero i fautori e gl’interessati del vecchio Comitato — che in quel momento era completamente estinto — al fine di paralizzarne l’azione. Noi tenemmo fermo fino al giugno del 1867; e quando vedemmo non poterci più opporre al sistema delle bande che il generale Garibaldi, sull’insistenza di altri, volle adottare, ci ritraemmo dall’opera incominciata, senza ira e senza rancore, come uomini che avevano adempiuto con coscenza il loro dovere.

Il sistema delle bande finì colla catastrofe di Mentana; catastrofe gloriosa, che portò anch’essa i suoi benefici frutti, e che mi lasciò forse oggi un rimorso per non averne fatto parte. Credetti allora pernicioso a Roma e all’Italia il sistema delle bande.

Cogli episodi, narrati di sopra del 1867, cessò completamente la mia ingerenza sulle cose di Roma; ma ebbi sempre viva la fede, che la forza delle circostanze avrebbe fatto presto o tardi riunire Roma all’Italia. Io vedeva con questo realizzato il sogno della mia vita, e ripagate ampiamente tutte le sofferenze patite.

[p. 13 modifica]Che lo scioglimento della questione romana non arrechi a me nessun vantaggio personale, lo prova il fatto del mio continuare a vivere in Venezia, ove nell’industria privata io godo una posizione quale non potrei desiderare migliore.

Con questi intendimenti io mossi per Roma il 18 di settembre scorso, specialmente trattovi da una recente sventura di famiglia, della quale per mancanza delle comunicazioni io non aveva più alcuna notizia.

I calunniatori dunque sel sappiano bene che fu questo il solo motivo del mio affrettarmi ad entrare in Roma; come pure è bene si sappia, che i miei affari in quel momento non mi avrebbero permesso di arrestarmi in Roma che soli sette giorni.

Colle cose dette in questa Prefazione, e colla narrazione che segue, cadranno le calunnie che furono dette sul conto mio, e si vedrà dagli uomini spassionati se io mi conducessi in Roma per proclamarvi la repubblica e procurare imbarazzi al Governo: e se infine, non essendo riuscito, io fossi fatto partire dall’Autorità militare come un malfattore.

Venezia, 21 ottobre 1870.