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La tempesta (Shakespeare-Angeli)/Atto terzo/Scena terza

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William Shakespeare - La tempesta (1612)
Traduzione dall'inglese di Diego Angeli (1911)
Atto terzo - Scena terza
Atto terzo - Scena seconda Atto quarto



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SCENA III.


Un’altra parte dell’Isola.


Entrano Alonzo, Sebastiano, Antonio, Gonzalo,

Adriano, Francesco e altri.


                        Gonzalo.
Per nostra donna! o Sire, io più non posso
andare innanzi: mi fan male l’ossa
mie vecchie ed è in un vero labirinto

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che ci siamo perduti, in mezzo a strade
diritte ed a meandri. Ho gran bisogno
di riposare.

                         Alonzo.
                  O mio vecchio fedele,
non posso biasimarti. Anch’io son stanco
fino a perderne i sensi. Siedi dunque
e riposati. Quivi ogni speranza
voglio deporre e non serbarla ancora
presso di me quale lusingatrice.
È affogato colui, che pur ci ha fatto
perdere nel cercarlo e il mare irride
alle nostre ricerche sulla terra.
E sia! Che se ne vada!

                         Antonio.
piano a Sebastiano.
                                        Io sono molto
lieto, che sia così fuor di speranza.
Ma non abbandonate, per un primo
disinganno, il proposito che abbiamo
deciso insieme di compire.

                       Sebastiano.
ad Antonio.
                                             Un’altra
volta, anderemo a fondo.

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                        Antonio.
come sopra.
                                      E sia: stanotte
ma non più tardi.
Si ode una musica
strana e solenne.

                         Alonzo.
                          Qual musica è questa?
Udite, amici miei.

                        Gonzalo.
    Una musica dolce e meravigliosa.
Entra Prospero, in alto, invi-
sibile. Entrano sotto di lui alcu-
ne strane forme che portano
una tavola apparecchiata. Dan-
zano con gentili atteggiamenti
di saluto e dopo aver invitato
il Re a mangiare se ne vanno.

                         Alonzo.
                              Ci mandi il cielo
gli Angeli suoi custodi! Cosa sono
quelli esseri?

                       Sebastiano.
                    Fantocci vivi! Adesso
io crederò che esiston gli unicorni,

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che in Arabia v’è un albero pe’l trono
della Fenice e che in quest’ora stessa
la Fenice vi regna.1

                        Antonio.
                            Io credo a entrambe
le cose, e quando un fatto avrà bisogno
di credenza da me venga e che è vero
ben giurerò. Non dicon più menzogne
ora i viaggiatori, non ostante
che sieno condannati dagli inetti
rimasti a casa!

                        Gonzalo.
                   Ma se raccontassi
quello che accadde, a Napoli sarei
creduto? E se dicessi di aver visto
tali isolani — perché certo sono
abitanti dell’isola — e che forme
pur avendo di mostri, le maniere
loro — notate — son gentili molto
più che quelle di alcuni fra noi, anzi
di tutti noi?

                        Prospero.
a parte.
                Onesto gentiluomo,
hai detto il vero! molti dei compagni
vostri son peggio dei demoni.

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                         Alonzo.
                                                   Il mio
pensier non può scordare quelle forme
e quei gesti e quei suoni che sprovvisti
di favella hanno espresso un eccellente
discorso muto.

                        Prospero.
a parte.
                     Aspettane la fine!

                       Francesco.
Sono svaniti stranamente.

                       Sebastiano.
                                           Ebbene
poco importa poichè le vettovaglie
hanno lasciato dietro loro. Abbiamo
buon appetito: non vi piacerebbe
d’assaggiar queste cose?

                         Alonzo.
                                         No.

                       Sebastiano.
                                                Davvero,
Sire, non c’è d’aver paura. Quando
eravamo fanciulli, avremmo mai

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creduto che ci fosser montanari
con un grugno di toro e con due borse
di carni penzoloni ai loro colli?2
O che vi fosser uomini col capo
nel torace? miracoli che pure
potrebbe garantirci oggi un qualunque
viaggiatore assicurato al cinque
per uno.3

                         Alonzo.
         E bene, sederò d’innanzi
a questa mensa e pranzerò, fosse anche
l’ultima volta. Che mi importa? Sento
ora che tutto il meglio è già passato.
Fratello, e voi duca, venite quivi
a sedervi con noi.
Si ode rumoreggiare il tuono:
si veggono lampi. Entra Ariele
sotto la forma di un’arpia,
batte le ali sulla mensa e
questa sparisce rapidamente.

                         Ariele.
Voi siete tre uomini di peccato
il cui destino — che governa questo
basso mondo con quelli che vi sono —
costrinse il mare insaziato a trarvi
su quest’isola dove essere umano
abitare non deve, voi che siete

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ora indegni di vivere. Io vi ho resi
pazzi. È con un valor simile al vostro
che gli uomini si affogano e si appiccano
da loro stessi!
Alonzo, Sebastiano e gli
altri sfoderano le spade.
                       O stolti! I miei compagni
ed io siamo i ministri del Destino:
gli elementi di cui le vostre spade
son fatte, prima i venti dalla voce
sibillante potrebbero ferire,
o uccidere con vani colpi l’acque
sempre in sè racchiudentisi, che all’ali
mie togliere una sola piuma. Sono
intangibili i miei compagni al pari
di me: ma se potessero le vostre
spade ferirci voi le sentireste
troppo gravi alle vostre forze e invano
tentereste di alzarle. Ma pensate
— e questo è il messaggio — che voi tre
da Milano il buon Prospero cacciaste
insiem con l’innocente figlia e sopra
il mar lo abbandonaste, su quel mare
che del delitto vostro or vi ha pagati.
Il potere del ciel, che se rimanda
mai non oblia, per queste infamie vostre
ha sollevato il mare e le costiere
ed ogni viva creatura contro
la vostra pace. Alonzo, di tuo figlio

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ti hanno privato ed ora con mia voce
proclaman che una lenta ed incessante
rovina, peggio d’ogni morte — almeno
questa d’un colpo uccide — a passo a passo
voi seguirà per ogni vostra impresa.
Nè per salvarvi contro i loro sdegni
che, in questa desolata isola, sopra
di voi si verseranno, avrete scampo
se non nel pentimento e in una vita
pura!
Svanisce.

                        Prospero.
da sè
        Bravo Ariele! Questa arpia
hai ben rappresentato. Avevi, in vero,
un aspetto vorace e in quel che hai detto
non una delle istruzioni mie
ti sei dimenticato. I subalterni
miei ministri, hanno anch’essi recitato
le loro parti con precisione
singolare e vivezza grande. Agiscono
ora gl’incanti e questi miei nemici
sono presi nel laccio della loro
demenza e sono in mio potere. Intanto
alle lor febbri gli abbandono e torno
dal giovin Ferdinando, che annegato
credono, e da mia figlia a entrambi cara.
Exit.

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                        Gonzalo.
Per quanto c’è di sacro al mondo, Sire
Perchè restate in tale abbattimento?

                         Alonzo.
È atroce! è atroce! mi è sembrato udire
parlare i flutti e dirmi questo e i venti
cantar quest’altro e il tuono in suo profondo
e cupo rombo, pronunciando il nome
di Prospero, il peccato mio con quella
sua voce bassa proclamare. Dunque
è mio figlio sepolto entro la melma
del mare? Voglio ricercarlo in fondo
dove non giunse lo scandaglio e seco
io giacerò nel fango!
Exit.
                       Sebastiano.
                                   Un solo demonio
alla volta e saprò batter le loro
schiere!

                        Antonio.
        Ed io ti sarò secondo!
Exeunt.

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                        Gonzalo.
                                                       Sono
tutti e tre disperati! La lor grande
colpa come veleno destinato
ad agir molto tempo dopo, morde
or gli spiriti loro. Ve ne prego,
voi che avete le gambe più veloci,
inseguiteli rapidi e cercate
d’impedir quello che la loro furia
può provocare.

                        Antonio.
                     Ve ne prego: andiamo.
Exeunt.

  1. [p. 185 modifica]La favola della Fenice è raccontata da Plinio, dove Guglielmo Shakespeare deve averla letta nella traduzione dell’Holland, pubblicata appunto verso quell’epoca.
  2. [p. 186 modifica]Questi montanari sono i gozzuti della Val d'Aosta di cui si aveva avuto in Inghilterra notizia fino dal 1503 in un volume di Wincken de Wynck intitolato: Maundeville's Travels.
  3. [p. 186 modifica]Era costume, all'epoca di Shakespeare, che ciascun viaggiatore il quale partisse per una lunga spedizione, assicurasse la propria vita, depositando una data somma di denaro che gli veniva restituita aumentata da forti interessi quando fosse di ritorno.