La vendetta d'uno schiavo/Capitolo I

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Capitolo I

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Capitolo II

Capitolo I

La vendetta dello schiavo

In un caldissimo pomeriggio di Luglio del 1824, due cavalieri seguivano la riva sinistra del Tjiliwong, uno dei più belli e pittoreschi fiumi dell’isola di Giava che va a scaricarsi nel bel mezzo di Batavia, la capitale di quella opulenta colonia olandese.

Entrambi erano diversi per tinta della pelle, per lineamenti ed anche per costumi.

Il primo, il più attempato, era un europeo che doveva già aver varcata la trentina da più di qualche anno. Era un uomo di costituzione robustissima, con spalle larghe e membra muscolose e che dimostrava una fibra ed una forza eccezionali. Il suo viso, abbronzato dall’ardente sole dell’equatore, era fiero ed energico. Aveva due bellissimi occhi neri, capelli d’egual colore ed una barbetta un po’ arricciata e tagliata a due punte, come usavano in quell’epoca i coloni olandesi di Giava.

Il suo vestito era di forte tela bianca, assai attillato, stretto alla cintura da una larga fascia rossa, sorreggente uno di quei lunghi coltelli serpeggianti che i malesi chiamano kriss. Sul capo portava un ampio cappello di fibre di rotang, dalle larghe tese, per ripararsi meglio dai cocenti raggi solari.

Il suo compagno invece era un giovane di appena vent’anni.

Anche a prima vista si riconosceva per un giavanese, avendo la pelle assai bruna a riflessi color del mattone, occhi piccoli leggiermente obliqui, lineamenti dolci. Indossava un semplice paio di calzoni di tela fiorita, stretto da una fascia di tela azzurra. Al pari dell’uomo bianco era armato d’un kriss, di più teneva un fucile dalla canna rabescata e dal calcio intarsiato di madreperla.

Mentre il suo compagno pareva in preda a tetri pensieri e preoccupatissimo, il giovane giavanese sembrava di umore allegro. Chiacchierava continuamente, accarezzava il proprio cavallo pulendolo dalla schiuma che gli copriva il petto, gridava contro le scimmie che apparivano sulle cime delle palme e sui margini delle piantagioni di caffè e di zucchero, cercando di distogliere il bianco dalle sue preoccupazioni.

Vedendo di non riuscirvi, ad un tratto arrestò il cavallo, dicendo:

– Padrone, sembra che voi non siate contento della vostra gita a Batavia! Forse che il governatore vi ha dato delle cattive nuove?

– Infatti egli mi ha comunicato delle notizie gravissime, – rispose l’europeo. – Sono in preda a vive inquietudini e vorrei già essere giunto alla mia piantagione.

– E per quale motivo, padrone?

– Non sai adunque che l’insurrezione è scoppiata nell’isola?

– Una insurrezione?

– Sì, da tre giorni il rajah Diepo-Nigoro ed il sultano di Djokio Karta hanno alzata la bandiera della rivolta, e nelle regioni meridionali dell’isola ed in quelle centrali gli schiavi hanno assassinati tutti i coloni olandesi e messo a ferro ed a fuoco le piantagioni.

– Diepo-Nigoro insorto! – esclamò il giovane isolano.

– Ed ha già cominciato ad espugnare città e forti. Egli si avanza verso il nord alla testa di oltre centomila combattenti.

– E voi temete per la vostra piantagione?

– Sì, e temo di giungere troppo tardi per salvare mio figlio.

– I vostri schiavi vi sono affezionati, padrone. Così mi hanno detto.

– Non si può mai contare sulla loro affezione, e poi temo la vendetta di Hamat-Peng, – disse l’europeo.

– Chi è costui?

– Uno schiavo malese audace e fiero, che mi odia mortalmente e che da un mese si è fatto marrone.

– Ed il motivo di tanto odio?

– Egli aveva osato alzare gli sguardi su mia sorella e comprenderai che io non potevo permettere ad uno schiavo di pensare a simile matrimonio. Diavolo... Un furfante simile diventare mio cognato!

– E voi, cosa avete fatto?

– Ho mandato mia sorella in Europa, nel mio paese, onde sottrarla al pericolo, perché Hamat-Peng aveva già cercato di rapirla.

– Oh!... Il miserabile!...

– Da quel giorno il malese è fuggito, dopo d’avermi mandato a dire che si sarebbe tremendamente vendicato di me. Io ho cercato di catturarlo, ma invano, quantunque sapessi che ronzava nei pressi delle mie piantagioni.

– Padrone, guardatevene!... I malesi sono vendicativi.

– Lo so, – rispose il piantatore, – ed è perciò che non sono tranquillo. Se l’insurrezione scoppia anche qui, Hamat non rimarrà inoperoso.

– È ben guardato vostro figlio?

– Lo spero, avendo degli uomini devoti nella piantagione.

– È molto giovane?

– Non ha che dieci anni.

– E temete che il malese se la prenda con quel ragazzo?

– Me lo ha detto, Kolja. Sapendo che io lo amo immensamente cercherà di rapirmelo.

– Per che cosa farne, padrone?

– Non lo indovini, Kolja?

– No, padrone.

– Per obbligarmi ad accordargli la mano di mia sorella.

– Lo ama vostra sorella?

– Sei pazzo?... Amare un miserabile schiavo!

– Oh!... Chi s’avvicina?

L’europeo aveva trattenuto bruscamente il cavallo ed aveva afferrato il fucile che teneva sospeso all’arcione. Kolja, il giovane isolano, lo aveva subito imitato.

In mezzo agli alberi era comparso improvvisamente un uomo montato su un bianco cavallo. A giudicarlo dalle vesti di tela bianca e dall’ampio cappello di paglia, pareva un piantatore europeo.

Anche quello sconosciuto aveva veduti i due cavalieri e s’era arrestato impugnando il fucile che portava a tracolla.

Stette un momento immobile come se fosse indeciso fra il fuggire o l’avanzarsi, poi tutto d’un tratto cacciò gli sproni nel ventre del cavallo, gridando:

– Siete voi, signor Giovanni de Mejra?

– In persona, signor Wan Dorf, – rispose il compagno di Kolja.

– Volete un consiglio, signore?

– Parlate.

– – Tornate subito alla vostra piantagione, se vi preme salvare la vostra casa. La mia è già in fiamme.

– Cosa dite? – gridò il signor de Mejra, impallidendo.

– Che l’insurrezione è scoppiata anche sulle rive del Tjiliwong, e che bande di schiavi percorrono le campagne, tutto incendiando e saccheggiando.

– E la mia, brucia?

– Non ancora; ma se tardate un po’ non troverete più una sola canna da zucchero né una pianta di caffè.

– Dove andate voi, signor Wan Dorf?

– Corro a Batavia ad avvertire il governatore. Addio, signor de Mejra, buona fortuna.

Ciò detto il piantatore olandese spronò il cavallo e riprese la corsa scomparendo in mezzo agli alberi.

– Signor Giovanni, partiamo, – disse il giovane isolano.

– Sì, partiamo, – rispose il piantatore. – Temo di giungere troppo tardi.

Stavano per spronare i cavalli, quando un colpo di fucile rimbombò sulla riva opposta del fiume. Nel medesimo istante il giovane Kolja s’accasciava sulla sella, poi stramazzava pesantemente al suolo, mandando un sordo rantolo.

Giovanni vedendo una nuvoletta di fumo ondeggiare fra i cespugli, aveva prontamente fatto fuoco, poi era balzato da sella per prestare soccorso al suo giovane compagno.

Tempo sprecato: il povero isolano era già morto. La palla lo aveva colpito in mezzo al petto, attraversandogli il cuore.

– Miserabili!.. – urlò il piantatore, cieco di rabbia.

Aveva ricaricato il fucile e stava per slanciarsi verso il fiume onde vendicare il povero giovane, quando una scarica di moschetteria rombò in lontananza.

– Gran Dio!... Che cosa sta per succedere? – si chiese, arrestandosi. – Che l’insurrezione sia già scoppiata anche nella mia piantagione?

Tese gli orecchi, ma non udì più nulla.

– Partiamo, – disse. – Mio povero Kolja, ti vendicherò, te lo prometto.

Tornò a balzare in arcione, guardò un’ultima volta il cadavere del giovane, poi spronò il cavallo. L’angoscia cominciava a prenderlo. Ad ogni istante gli pareva di udire in lontananza delle urla e delle scariche e di vedere perfino dei vortici di fumo alzarsi sopra l’imponente massa di verzura.

Il cavallo, continuamente eccitato, precipitava la corsa, balzando in mezzo ai cespugli che avevano già invaso il sentiero e varcando canali e canaletti che di tratto in tratto tagliavano la via.

Il piantatore, curvo in sella, col fucile in mano per essere pronto a respingere qualsiasi attacco, ripeteva incessantemente:

– Vola!.. Vola, mio bravo Gawev!... Presto o giungeremo troppo tardi!....

Già non distavano più d’un miglio dai confini della piantagione, quando una nuova scarica di moschetti, ma questa volta più vicina, echeggiò al di là dei boschi.

Il piantatore aveva mandato un grido d’angoscia:

– Gran Dio!... Forse è troppo tardi?... Vola! Vola mio Gawev!...

Il cavallo non aveva bisogno di essere aizzato. Come se comprendesse le angoscie che tormentavano il padrone, aveva raddoppiata la corsa.

A quella prima scarica altre ne erano succedute, poi delle urla, delle vociferazioni spaventevoli vi s’erano unite.

Già il cavallo si trovava presso i confini della piantagione, quando l’europeo vide una grande nuvola di fumo alzarsi sopra gli alberi.

– Vola Gawev! Vola! – gridò egli lacerando il ventre del povero animale a colpi di sprone.

Ma era una crudeltà superflua, poiché il cavallo portava il suo padrone in una corsa sfrenata. Due minuti dopo Giovanni giungeva in vista della piantagione. Appena lanciato uno sguardo, mandò un grido di dolore e di rabbia.

La piantagione, in preda delle fiamme, ardeva in tutti i punti. Circa quattrocento schiavi, armati, circondavano l’abitazione tentando di salirvi col mezzo di alcune scale.

Anche l’abitazione ardeva, però in mezzo al fumo e al fuoco si vedevano alcuni uomini ebbri di furore, che grandinavano palle e sassi sul capo degli assalitori. Giovanni in quei difensori conobbe i suoi fedeli servi. D’un tratto un negro di alta statura col capo adorno di penne appoggiò una scala, e armato d’una lunga lancia, salì rapidamente fra le palle e i sassi. Giunto presso un balcone, con un colpo della sua arma uccise il servo che lo difendeva, indi precipitatolo giù fra le grida degli assalitori, si avventò nell’interno dell’abitazione.

Giovanni in quell’uomo aveva conosciuto Hamat-Peng.

Mandò un grido di furore e preso il fucile si avvicinò rapidamente alla piantagione. Non distava che ottocento passi, quando Hamat-Peng uscì dal balcone portando seco un giovanetto che si dibatteva gridando:

– Aiuto, babbo!... Aiuto!...

– Vengo, – urlò Giovanni, spianando il fucile.

Il colpo partì, ma la palla invece di colpire il traditore, abbatté un suo partigiano che gli stava presso. Quasi nel medesimo istante tutti gli assalitori fuggirono pei boschi, seguendo Hamat-Peng, il quale era salito su un rapido corsiero portando seco il giovanetto svenuto.

Giovanni aveva impugnate le pistole tentando di seguire il rapitore, ma le forze lo tradirono e stramazzò di sella, rimanendo disteso in mezzo ad un ammasso di canne.

In quel momento l’abitazione, semi-distrutta dalle fiamme, crollava con terribile fracasso.

Il signor de Mejra, rovesciato in mezzo alle canne, col capo nascosto fra le mani piangeva di rabbia e di dolore.

La perdita del figlio che egli adorava alla follia, e la rovina della sua fiorente piantagione, aveva bastato per atterrare un uomo energico come lui. Ma d’un tratto si rizzò in piedi, e lanciando uno sguardo infuocato sulle rovine che lo circondavano, gridò:

– Hamat! Hamat! Guarda! – e così dicendo afferrava il suo kriss, – lo giuro su questa lama di acciaio che mi vendicherò. Ti seguirò ovunque come la tua ombra, ti raggiungerò anche fra i tuoi, e immergerò questa lama nel tuo infame carcame o morirò nell’impresa. Queste rovine ancora fumanti mi siano di testimone!

Poi rizzandosi fieramente gridò con voce forte, come se volesse che le foreste lo udissero:

– Mio povero Carlo, figlio mio, sarai vendicato!

Indi girato uno sguardo intorno, cercò i corpi dei fedeli servi, ma non li poté trovare. Essi erano rimasti sepolti sotto le macerie di quell’abitazione che avevano difesa così eroicamente.

– Addio, miei poveri servi, addio amici, – sospirò.

Poi salì a cavallo e partì rapidamente, divorando le lagrime che gli inondavano il volto.

Dieci minuti dopo egli fermava il suo cavallo presso uno stretto sentiero che conduceva nel più folto della foresta. Legò Gawev ad un albero, prese le due pistole una per mano, e s’incamminò lentamente verso il sentiero. La sua faccia pallida era irrigata dalle lagrime, e camminava come barcollando.

Ben presto udì il rumor del fiume che doveva scorrere a poca distanza. Continuò a inoltrarsi con passo lento e silenzioso.

Ogni volta che un lieve rumore si faceva udire, si fermava, spianava le sue pistole e ascoltava per lungo tempo, poi accertatosi che nessuno vi era nei dintorni continuava a camminare. Era giunto a cento passi dal fiume, quando udì un sordo rumore. Si fermò di colpo e impallidì. Udiva distintamente un corpo pesante che batteva la terra. Un tremito di rabbia s’impadronì di lui; cacciò le pistole nella cintura, afferrò il suo kriss, e coll’occhio fiammeggiante e le braccia tese, si mise a strisciare dalla parte ove proveniva il rumore. Ben presto giunse presso la riva del fiume. Scostò lentamente e senza rumore i rami che ne impedivano la vista, e lanciò uno sguardo investigatore. Trenta passi innanzi a lui, sulla riva del Tjiliwong in una piccola spianata sabbiosa, un uomo inginocchiato e armato d’un piccone, scavava la terra. Era un indigeno, probabilmente uno schiavo della piantagione. Giovanni si frenò, ma accarezzò il pomo del suo kriss.

Poco dopo, dal buco che aveva scavato, l’indigeno trasse due borse rigonfie, le quali mandarono un suono metallico.

– Per Hamat! Per Hamat! – gridò.

– Per me! – urlò ferocemente Giovanni, e lanciatosi fuori dal cespuglio col kriss in mano, piombò sul giavanese meravigliato e gl’immerse la lama intera fra le due spalle. Il miserabile mandò un sordo gemito, e rotolò nel fiume ove sparve nei gorghi.

Quel denaro era stato colà nascosto da Giovanni, onde sottrarlo alla rapacità degli indigeni, nel caso che qualche insurrezione fosse scoppiata, precauzioni d’altronde che anche gli altri piantatori usavano prendere. Certamente lo schiavo aveva spiato il padrone, onde derubarlo alla prima occasione.

Giovanni raccolse le due borse che contenevano un bel numero di dobloni di Spagna, poi tornò presso il cavallo il quale scalpitava impaziente di andarsene.

– Sì, andiamo, mio bravo Gawev, – disse il piantatore accarezzandolo. – Più nulla abbiamo da fare qui; non v’è né un ricovero per me, né una scuderia per te, ma a Batavia troveremo l’uno e l’altra.

Mise le due borse nei fondi della sella, armò il fucile, poi strinse le ginocchia. Il cavallo partì al galoppo, rifacendo la via che aveva già percorsa prima, poi giunto presso i confini della piantagione, piegò verso est seguendo la riva sinistra del Tjiliwong.